Gli studi sulla coroplastica tarantina traggono nuova linfa da questo volume che, dopo una prefazione di Claude Pouzadoux, si articola in cinque capitoli.
Il primo (pp.11-25) definisce l’oggetto della ricerca e il metodo di analisi utilizzato da Ágnes Bencze: un approccio di tipo stilistico alla materia oggetto di indagine, dove lo stile viene considerato come espressione diretta delle varie identità comunitarie del mondo greco. Colpisce l’originale intendimento di identificare i “tipi coroplastici” non con la figurina nella sua interezza ma solo con la testa—intesa come unico elemento su cui fondare un’adeguata analisi stilistica—mentre la posizione, l’abbigliamento o la capigliatura delle statuette sono ritenuti elementi superficiali, dettati dalle esigenze della clientela o dai cambiamenti della moda ( 24). Tale identificazione si discosta dalla suddivisione in tipi canonizzata da Arthur Muller 1 e seguita ormai universalmente dagli studiosi di coroplastica. Quindi la definizione di “serie”, intesa come gruppo di tipi coroplastici accostati sulla base della loro parentela stilistica, differisce da quella comunemente adottata, 2 e ciò crea a nostro vedere una confusione che poteva essere facilmente evitata con l’uso di un termine diverso (ad esempio “gruppo”).
I capitoli dal secondo al quarto dividono la materia in esame in ordine cronologico approssimativo, dall’epoca protoarcaica alla fine del VI sec. a.C.
Nel secondo capitolo (27-37), riguardante la fase protoarcaica, l’Autrice parte dalla raccolta di Maurizio Borda per riesaminare in modo sistematico le sue attribuzioni, e indica giustamente il termine dedalico, utilizzato da Borda, tra virgolette. A tale classificazione, che serve a indicare un periodo cronologico e allo stesso tempo uno stile, viene preferito l’aggettivo protoarcaico. 3
Le figurine femminili a rilievo in catalogo sono divise in sette tipi coroplastici; oltre a questi l’Autrice considera cinque tipi isolati, di dimensioni maggiori e qualità superiore. Data la limitatezza della documentazione riferibile a questo periodo, l’Autrice prudentemente non avanza delle ipotesi concrete relative alla possibilità che almeno una parte dei prodotti siano da interpretare come importazioni.
Essa sottolinea poi come le conclusioni cui era giunto Borda—secondo il quale influssi stilistici laconici sono facilmente identificabili nella prime fasi della produzione tarantina sulla base di un semplicistico legame “etnico” tra madrepatria e colonia—siano piuttosto da ribaltare in favore di ben percepibili influssi cretesi. Nonostante l’indiscutibile merito di aver posto l’accento su una questione da analizzare in modo più critico, il quadro proposto dall’Autrice non ha sempre contorni definiti, e il riferimento a modelli peloponnesiaci non può in taluni casi essere necessariamente soppiantato da univoche “connessioni stilistiche cretesi”. Si sente in questo capitolo l’assenza di confronti con altre aree della Grecia d’Occidente per quanto concerne il rapporto con importazioni o modelli coroplastici cretesi.4
Il terzo capitolo, che costituisce buona parte della ricerca (39-132), riguarda la produzione di terrecotte votive prima dell’apparizione del tipo del banchettante. L’Autrice considera i prodotti attribuibili a questa fase come parte di un unico “gruppo” che presenta caratteristiche tecniche e decorative estremamente omogenee e coerenti. Esso può essere ascritto ad un unico atelier che produceva ingenti quantità di terrecotte votive, attivo tra il 580 e almeno il 500 a.C. circa, con una fase di monopolio nel secondo e terzo quarto del VI sec.a.C.
Questo non le impedisce di distinguere al suo interno cinque “serie” (A-E), comprendenti un certo numero di tipi coroplastici che seguono tradizioni stilistiche di origine differente. Particolarmente riuscito ci sembra il quadro della cosiddetta koiné achea. Una precisa revisione dello status quaestionis relativo alla produzione coroplastica delle colonie achee d’Occidente, considerata da tempo come un insieme sulla base di una presunta identità etnica, conduce l’Autrice ad abbracciare piuttosto l’ipotesi della Olbrich5 secondo la quale a Sibari sarebbe stato localizzato un atelier centrale responsabile della diffusione di tipi apparentati tra loro nelle aree dipendenti o legate da vincoli di alleanza nei decenni centrali del VI sec.a.C.
Secondo la disamina dell’ Autrice, la voluta estraneità tarantina alla diffusione di tale koiné è da rivedere: la sua serie A (definita “acheizzante”) si apparenta infatti al canone di quest’ultima, senza però riprodurre meccanicamente alcun tipo presente nei repertori delle colonie achee. Questa affinità sarebbe dovuta all’arrivo di un gruppo di artigiani che avrebbero introdotto le caratteristiche tecniche e morfologiche del canone “acheo”, sia pure nell’ambito di una precisa originalità espressiva.
Di grande interesse è inoltre l’individuazione di una piccola serie di tipi (serie B) che presentano dei motivi originali nella elaborazione del volto, per i quali l’Autrice suggerisce, grazie a calzanti confronti, un’influenza cipriota del tutto nuova all’interno del panorama greco-occidentale. Tale influenza sarebbe dovuta ai centri dell’Egeo che avevano diretta esperienza di prodotti ciprioti (come i ben documentati casi di Rodi, Samo, Efeso, Delo, etc.), e che hanno verosimilmente agito da tramite nell’arrivo di tali modelli, sia sotto forma di manufatti sia nella figura di un artigiano avvezzo alla “cultura visuale” cipriota, ma che ha saputo adattare tali forme all’interno di una ben caratterizzata produzione locale.
Decisamente più nutrito è il numero di tipi appartenenti alle serie C e D, che denotano nella costruzione del volto un singolare isolamento nel panorama dell’Occidente greco, spiegato dall’Autrice con l’adesione a due diversi modelli stilistici laconici degli inizi del VI sec.a.C. Tale adesione si fonda sul confronto con opere di toreutica; qui l’Autrice apre una necessaria discussione sul rapporto tra gli inizi della plastica tarantina e modelli laconici e sulla tradizione toreutica tarantina di impronta laconizzante.6
Ancora una volta, come nel caso della presunta koiné achea, l’Autrice sente l’esigenza di chiarire come l’origine dei coloni non comporti affatto una meccanicistica attribuzione di tutti i prodotti più antichi all’influsso stilistico della madrepatria, peraltro non adeguatamente supportata dalla documentazione archeologica.
I tre tipi della serie E rappresentano infine, a detta dell’Autrice, la nascita di una tradizione artistica originale, frutto di una elaborazione espressiva: essi costituiscono gli antecedenti della serie dei banchettanti (che ne riprendono i tratti fondamentali), e nello stesso tempo fondano le radici nella tradizione del repertorio acheizzante.
A livello conclusivo, l’Autrice sottolinea come la molteplicità di influssi stilistici da lei distinti vada a comporsi in un quadro unitario, in cui i coroplasti delle officine tarantine misuravano le proprie capacità espressive attraverso una fase sperimentale, ricca di influssi e modelli che necessitavano una profonda rielaborazione per arrivare alla determinazione di un linguaggio originale, come avverrà infatti dopo la metà del VI sec.a.C. Viene inoltre ribadito che il gruppo di prodotti fittili isolato in questo capitolo funge da trait d’union tra le esperienze più antiche, cui si lega attraverso gli apporti stilistici laconici, e quelle più recenti, in cui si vanno ad innestare le innovazioni iconografiche e stilistiche verosimilmente frutto dell’opera di un nuovo atelier
Nonostante l’Autrice denunci nel primo capitolo (14), che l’eclettismo sia un fenomeno quasi naturale nell’elaborazione della cultura visuale di una comunità arcaica, specie in Occidente, le sue osservazioni potrebbero essere state qui validamente confrontate con le esperienze delle colonie siceliote, dove i fenomeni di contaminazione eclettica, alla base della creazione di originali linguaggi espressivi, sono stati ampiamente messi in luce.
Il quarto capitolo (133-185) è dedicato al periodo di creazione e fioritura del tipo del banchettante reclinato –la seconda metà del VI sec.a.C.– e a pochi altri tipi coevi a questo. Si tratta del tipo più noto e più specificamente legato alla produzione coroplastica della colonia, già argomento di un suo articolo.7 L’Autrice riprende tutta la storia degli studi legata al tipo, mettendone in luce i limiti, e ne definisce le caratteristiche tecniche. Il gran novero di esemplari viene poi raggruppato in quattro serie che presentano indirizzi stilistici differenti, e di cui solo la terza (serie J) rappresenta la prima sintesi originale degli atéliers tarantini, omogenea dal punto di vista stilistico e di grande successo. Convincente ci sembra l’analisi stilistica che conduce all’individuazione di modelli grafici (da riconoscere nella pittura vascolare di area laconica) piuttosto che scultorei del tipo. Si avverte tuttavia l’assenza del confronto con la produzione coroplastica coeva di area laconica, specie per quanto riguarda le raffigurazioni eroiche,8 che avrebbe potuto costituire un ottimo punto di raffronto stilistico ed interpretativo.
Anche in questo capitolo l’Autrice menziona l’importanza della connessione esistente con la produzione esaminata nel capitolo precedente, di cui il nuovo tipo costituisce un’elaborazione creativa, ad essa parzialmente contemporanea.
Nel quinto capitolo (187-192), infine, che fa da corollario al capitolo precedente, l’Autrice analizza il significato del tipo del banchettante recumbente, riconsiderando brevemente le interpretazioni già proposte. L’Autrice abbraccia qui e arricchisce l’interpretazione di Cesare Letta,9 concludendo che i banchettanti sarebbero l’espressione di un culto di ispirazione orfica, incentrato sull’eroizzazione dei cittadini defunti e praticato attraverso un’iniziazione dionisiaca (192).
Manca purtroppo un completamento all’analisi del corpus di terrecotte in esame costituito da qualche pagina conclusiva, che avrebbe permesso al lettore di ripercorrere le osservazioni suddivise alla fine dei tre capitoli principali. Il volume è seguito dalle abbreviazioni bibliografiche (193-196) e da 31 tavole in b/n, mediamente di buona qualità.
Il lavoro di Ágnes Bencze in conclusione rappresenta un’importante raccolta di dati sulla coroplastica tarantina delle fasi più antiche. Il metodo di studio meramente stilistico, sulla falsariga delle analisi di François Croissant, risulta tuttavia a nostro vedere un po’ penalizzante. Ci si sarebbe aspettati, un’analisi più attenta alle caratteristiche tecniche della piccola plastica fittile, come ad esempio un suggerimento di analisi archeometriche su alcuni campioni significativi, o almeno qualche osservazione sulle differenze/somiglianze negli impasti degli esemplari in catalogo.
È tuttavia un preciso merito del volume quello di avere enucleato chiaramente dei motivi e degli echi stilistici, che arricchiscono notevolmente le nostre conoscenze sulle capacità creative dei coroplasti tarantini e più in generale sulla ricca tradizione di lavorazione delle terrecotte figurate nell’Occidente greco. Ulteriore merito è quello di aver sottolineato il ruolo importante della piccola plastica in terracotta come un “contesto” in cui il gusto artistico di una comunità si forma e si modifica, e attraverso il quale possiamo leggere gli influssi delle diverse tradizioni stilistiche, senza necessariamente ricorrere a un rapporto di dipendenza e riproduzione della grande plastica.
Notes
1. Si veda per tutti: “Description et analyse des productions moulées. Proposition de lexique multilingue, suggestions de méthode”, in A. Muller ed., Le moulage en terre cuite dans l’Antiquité. Création et Production Dérivée, Fabrication et Diffusion, Actes du XVIIIe Colloque du Centre de Recherches Archeologiques, Lille 1995, (Lille 1997) 437-463)
2. In Muller, cit., p.451, la “serie” comprende un insieme di prodotti realizzati a matrice che derivano dallo stesso prototipo, espresso nella maggior parte dei casi da un albero genealogico.
3. Sui significati e gli equivoci del termine “dedalico” si vedano ora le puntuali osservazioni di Hèlene Aurigny, “Une notion encombrante dans l’histoire de la sculpture grecque: le “dédalisme”, RevArch 2012, pp.3-40.
4. Ad esempio le osservazioni di François Croissant, “Crotone et Sybaris. Esquisse d’une analyse historique de la koinè culturelle achéenne”, in Gli Achei e l’identità etnica degli Achei d’Occidente, Atti del Convegno di Studi Paestum 2001 (Paestum 2002)397-423, ma anche Oliver Pilz, Frühe matrizengeformte Terrakotten auf Kreta. Votivpraxis und Gesellschaftsskultur in spätgeometrischer und früharchaische Zeit, (Möhnesee 2009); per la Sicilia, Emma Meola, “Terrecotte orientalizzanti di Gela (Daedalica Siciliae III)”, MonAnt misc.I, XLVIII, (Roma 1971-1973) 7-92; Marina Albertocchi, “Daedalica Selinuntia II. Osservazioni sulla coroplastica selinuntina d’età tardo –orientalizzante”, in Temi selinuntini, a cura di C.Antonetti, S.De Vido (Pisa 2009) 9-27
5. Gesche Olbrich, “Sybaritica”, PP 47 (1992) 183-224.
6. Per cui sarebbe stato utile un più preciso confronto con il volume di Fabienne Coudin, Les Laconiens et la Méditerranée à l’époque archaïque, Collection J. Bérard 33 (Napoli 2009).
7. Ágnes Bencze, “Symposia Tarentina. The artistic sources of the first Tarentine banqueter terracottas”, BABesch 85 (2010) 25-41.
8. In particolare, Gina Salapata, “Female triads on Laconian terracotta plaques”, BSA 104, (2009) 325-340,
9. C. Letta, Piccola coroplastica metapontina (Napoli 1971).