Il volume di Claudia Giontella si inserisce in una nutrita serie di studi che ha conosciuto grande fortuna tra la fine degli anni ’90 e l’inizio di questo secolo e che tratta nello specifico l’importanza dell’elemento idrico nell’ambito dei culti dell’Italia preromana. Vi si possono riferire in particolare le mostre di Imola del 1997 e di Chianciano Terme del 2003 — incentrate l’una sulla Romagna, Marche ed Emilia1 e l’altra sull’area etrusca2 —, il volume di Riccardo Chellini sulle acque sorgive, salutari e sacre in Etruria apparso nel 2002 3 e il convegno I riti del costruire nelle acque violate, edito nel 2010.4 Lo studio di Claudia Giontella, nato come Tesi di Specializzazione in Archeologia presso la Sapienza – Università di Roma, è confluito in una prima versione a stampa nel volume I luoghi dell’acqua “divina”, Complessi santuariali e forme devozionali in Etruria e Umbria fra epoca arcaica ed età romana, uscito per i tipi dell’Aracne Editore nel 2006. Il libro che qui si recensisce si configura dunque come un’edizione aggiornata e rivista di quel primo lavoro, che l’Autrice sceglie di non citare nell’opera di cui qui si dà conto.
Il volume si apre con una nota introduttiva, nella quale la studiosa dichiara esplicitamente che “scopo precipuo del lavoro è di coniugare l’esame delle manifestazioni cultuali rivolte all’acqua con l’analisi di eventuali resti strutturali o materiali, proponendo, laddove possibile, interpretazioni del culto e delle divinità ad esso presumibilmente, e più o meno esplicitamente, correlate” (p. 14). Viene precisato che lo studio è incentrato sulle acque interne, con l’esclusione dei fiumi. A livello geografico, così come dichiarato già nel titolo, si prendono in considerazione i territori che poi confluiranno in epoca romana nelle regiones VI e VII. Scegliendo un approccio topografico basato sulla strutturazione della penisola italiana di età romana, ma considerando lo studio anche il periodo preromano, si sono resi inevitabilmente necessarie delle calibrazioni rispetto a quanto dichiarato nel titolo del volume. Esse riguardano soprattutto l’area umbra, per la quale, come giustamente ricordato dalla studiosa, non è possibile per l’epoca preromana limitarsi ai confini della regio VI augustea. Sempre per questioni di omogeneità culturale e per fornire un quadro complessivo della fase preromana la ricerca ha preso in considerazione anche altre aree della penisola italiana, che, se si optasse per adottare rigidamente l’ordinamento topografico dichiarato nel titolo del volume, dovrebbero a rigore rientrare nelle regiones VIII e I. Ci si riferisce ai contesti dell’Etruria padana – per la quale la studiosa sceglie di adottare la tutto sommato inusitata definizione di Etruria nova (Serv., Aen., X 202) – e quella campana.
A livello cronologico lo studio si concentra sui secoli dall’Arcaismo all’età romana. Claudia Giontella sottolinea comunque la persistente tenacia delle “consuetudini religiose” (p. 16), —anche se forse sarebbe preferibile parlare della persistenza della scelta dei luoghi di culto —, destinate in alcuni casi specifici a valicare anche l’epoca romana. Si veda, a titolo d’esempio, quanto accade nei casi della Buca di Castelvenere a Lucca, dove l’utilizzo della struttura è attestato anche in epoca medioevale, o gli assai interessanti casi di continuità devozionale sino ad epoca moderna della Grotta Lattaia di Cetona, della Grotta delle Pocce Lattaie e della Fonte del Latte di Villaccia di Monte San Savino in Val di Chiana. Utili deroghe al periodo su cui si focalizza lo studio sono il paragrafo dedicato alle cavità naturali e al loro utilizzo in chiave sacra dal neolitico all’età del bronzo e quello dedicato all’area di culto in località Banditella di Canino, il cui uso è attestato dall’Età del Bronzo sino all’epoca arcaica. Quest’ultima scelta è motivata dalla studiosa per dimostrare che “per le manifestazioni devozionali sembrano non registrarsi modificazioni sostanziali in senso diacronico” (p. 30).
Il volume è poi ordinato cronologicamente, con una prima sezione dedicata all’età arcaica e classica (pp. 33-94), una seconda all’età ellenistica (pp. 95-118) e infine una terza all’età romana (pp. 119-131). All’interno di ogni capitolo si segue un ordinamento topografico a partire dall’Etruria propria ed agro falisco-capenate, allargandosi poi all’Etruria padana, a quella campana e per finire all’Umbria. Per l’età arcaica vengono censiti in totale 22 contesti sacri (11 per l’Etruria propria, 3 per il comprensorio falisco, 2 per l’Etruria padana, 1 per quella campana e 5 per l’area umbra). Per l’Etruria propria i siti sono dislocati tra Cerveteri, Vulci, Orvieto, Chianciano Terme, Perugia, Lucca, Arezzo e il Monte Falterona. L’analisi del territorio falisco – più che non falisco-capenate — prende in considerazione Falerii e Narce. Il santuario fontile di Marzabotto e Monte Bibele sono le aree analizzate per l’Etruria padana e il contesto sacro in loc. Pastini a Pontecagnano per quella campana. Per l’Umbria sono infine considerati la Grotta del Re Tiberio a Riolo Terme, la Grotta Bella a Terni, Assisi, Foligno e Montefortino di Arcevia. Per l’età ellenistica vengono analizzati nel dettaglio 8 contesti: 3 per l’Etruria, 1 per il comprensorio falisco e 4 per l’area umbra. Si osserva invece che il territorio che fu soggetto all’espansione etrusca in Campania “come già constatato per l’epoca precedente [quella arcaica] appare interessato in maniera assai marginale da culti legati all’acqua” (p. 106). La studiosa ricorda tuttavia come vi sia una continuità di vita per il santuario in località Pastini a Pontecagnano e si dedica poi all’analisi del santuario di Diana Tifatina nel territorio di Capua. Infine per il periodo romano dei cinque luoghi di culto presi in considerazione 3 sono pertinenti alla Regio VII e 2 alla Regio VI.
Una piccola osservazione deve essere riservata all’ordinamento cronologico scelto, che, se da un lato fornisce chiarezza all’esposizione, rischia per certi versi di essere fuorviante. A supporto di questa affermazione si può portare l’apparato cartografico, che, diviso per epoche arcaica e classica (fig. 16), ellenistica (fig. 20) e romana (p. 131), rischia di dare l’impressione al lettore che vi sia una completa soluzione di continuità tra i tre periodi. In altri termini, molti dei luoghi di culto che compaiono nella prima carta di distribuzione dovrebbero essere presenti anche nella seconda e nella terza, essendo ancora del tutto attivi in periodo ellenistico e oltre, come d’altro canto ricordato espressamente nei paragrafi dedicati alle singole aree di culto dalla studiosa. Le carte di corredo al testo devono pertanto essere considerate come indicatori del momento di attestazione dei luoghi di culto trattati nel capitolo di riferimento e non come vere e proprie carte di fase dei singoli periodi.
Rimangono fuori dall’ordinamento sin qui analizzato alcune aree di culto, trattate nel Capitolo 4, per le quali viene ipotizzato un legame particolare con l’elemento idrico (pp. 133-140), quattro per l’area etrusca (Cerveteri, loc. S. Antonio e Valle Zuccara, Veio-Portonaccio e Vulci-Musignano) e due per quella umbra (Amelia-loc. Montecampano e Foligno-loc. Nocette di Pale). Tra questi spiccano in particolar modo i due grandi complessi santuariali di loc. S. Antonio a Cerveteri e quello di Portonaccio a Veio. È soprattutto la presenza di apprestamenti idrici particolarmente rilevanti a fare propendere la studiosa per l’accostamento di questi complessi ai culti delle acque. Le aree santuariali citate sono indubbiamente caratterizzate dalla presenza di strutture che fanno pensare a un utilizzo massiccio dell’elemento idrico. Tuttavia rimane, a mio modo di vedere, aperta la questione – qui come altrove nel volume – di che cosa si intenda esattamente con la definizione di “culti idrici”. Claudia Giontella ricorda correttamente già nel paragrafo introduttivo la rilevanza avuta dall’acqua nell’antichità e come “al pari degli altri elementi naturali, se non in maniera più percettibile, l’acqua dovette apparire sempre animata, viva” (p. 13) e forse il titolo stesso del volume è una spia del pensiero della studiosa: l’utilizzo della glossa serviana “… nullius enim fons non sacer…” implica di per sé già una scelta di metodo. È però bene ricordare che essa è dedicata al termine fons in ambito romano e peraltro per un periodo ben diverso da quello oggetto dello studio in questione.5 Se queste osservazioni colgono nel segno, non è del tutto chiaro però per quale ragione si è optato per sospendere il giudizio su alcuni dei contesti inseriti nello studio e per i quali è piuttosto evidente che la studiosa propende per la presenza di culti delle acque. Chi scrive parte in questo caso da un’opinione diversa, che non assimila la presenza, pur massiccia, di strutture idriche in un contesto santuariale a un culto delle acque.6 In altri termini questi apprestamenti sono solidi indicatori dell’utilizzo dell’elemento idrico nell’ambito delle pratiche svolte all’interno del santuario, ma necessita una contestualizzazione di volta in volta dell’uso dell’elemento idrico, con lo scopo di discernere il piano rituale da quello cultuale. Per questa ragione e a semplice titolo d’esempio, non concordo con l’introduzione di siti quali Veio Portonaccio, Falerii Celle o ancora Narce – Le Rote nella categoria di “culti delle acque”. Questi santuari presentano infatti caratteristiche articolate e complesse, e, pur essendo massiccia la presenza di elementi strutturali destinati alla captazione e alla conseguente fruizione dell’elemento idrico, si fa fatica a riconoscere, almeno a mio modo di vedere, una connessione diretta con un “culto delle acque”, mentre l’utilizzo dell’elemento idrico per questioni rituali è ben più assodato.
Chiudono il volume due capitoli di sintesi incentrati sull’analisi dei tipi di materiali votivi (pp. 141-162) e delle divinità connesse a questi luoghi di culto (pp. 163-189) e uno dedicato ad alcune considerazioni conclusive (pp. 191-203). Il quadro tracciato per i materiali votivi restituiti da questi contesti non depone a favore della possibilità di riconoscere un’unitarietà nelle forme devozionali. Interessante appare l’osservazione che le offerte metalliche, sia sotto forma di piccola bronzistica sia sotto forma di aes rude, costituiscono un elemento comune nei depositi votivi di questi luoghi di culto. La studiosa pone giustamente l’accento sulla rilevanza anche “economica” di questo tipo di offerte. Ed è questo, a mio modo di vedere, un filone di ricerche che potrebbe essere proficuamente approfondito in futuro in relazione ai contesti santuariali dell’Italia preromana.
In conclusione il volume di Claudia Giontella si configura come un utile repertorio, che fornisce un quadro di sintesi sui culti legati all’elemento idrico nell’Italia preromana e romana e che tocca ambiti geografici più ampi di quelli ricordati nel titolo dell’opera.
Notes
1. Marco Pacciarelli ( ed.), Acque, grotte e Dei, 3000 anni di culti preromani in Romagna, Marche e Abruzzo, Catalogo della mostra, Imola 1997.
2. L’acqua degli dei, Immagini di fontane, vasellame, culti salutari e in grotta, Catalogo della mostra, Montepulciano 2003.
3. Riccardo Chellini, Acque sorgive, salutari e sacre in Etruria (Italia, Regio VII), Oxford 2002.
4. Helga Di Giuseppe, Mirella Serlorenzi ( eds.), I riti del costruire nelle acque violate, Atti del Convegno Internazionale 12-14 giugno 2008, Roma 2010.
5. Lucia Romizzi, “ Fons (mondo romano)”, in ThesCRA, IV, p. 242.
6. Annamaria Comella, “ Fons (Etruria e mondo italico)”, pp. 241 s.