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Il volume propone una riconsiderazione stilistica e interpretativa dell’uso euripideo di un singolare espediente tragico, la monodia, scenicamente potente quanto difficilmente definibile.
Come illustrato nell’ Introduzione, gli antichi non fissarono mai le caratteristiche della monodia, canto a solo di intonazione prevalentemente trenodica e generalmente astrofico, ma talora variamente contaminato; e neppure le peculiarità di estensione e autonomia, individuate dai critici moderni, sembrano utili a stabilire i confini del sottogenere. Evidenziando l’impossibilità di rintracciare, all’interno del teatro di Euripide, tendenze più che generali nella collocazione drammatica, nell’evoluzione metrica e nell’attribuzione ai personaggi, De Poli sottolinea la singolare opposizione-contiguità tra monodie e rheseis, discorsi inseriti all’interno di più ampie strutture rispettivamente amebeiche e dialogiche per cui le prime possono considerarsi versioni cantate delle seconde, come pare confermato dall’evoluzione tardoantica del termine μονῳδία ad indicare un sottogenere dell’epidittica funebre.
Ribadendo la stretta interrelazione tra critica testuale e analisi metrica, lo studio prende le mosse dal testo euripideo ricostruito da Diggle, confrontato con quello proposto dalle altre principali edizioni critiche e commentate delle tragedie, prendendo “in esame le varianti conservate dalla tradizione manoscritta, e, di fronte alle principali correzioni moderne”, valutandone “i vantaggi e […] la necessità su piani diversi: grammaticale, sintattico, semantico e metrico” (p. 9), con fondamentale intento conservativo. L’autore tralascia l’esame autoptico e colometrico di manoscritti e papiri. Con l’esclusione del canto a solo della Musa nel sospetto Reso, “le monodie sono intese in senso ampio e comprendono anche eventuali preamboli in anapesti recitativi, affidati allo stesso personaggio che intona la monodia” (p. 10), e di ciascuna viene preliminarmente indagata la funzione drammaturgica e l’articolazione interna.
Si evidenziano, di seguito, alcune delle più interessanti ed originali proposte che De Poli apporta alla constitutio e all’esegesi dei testi delle monodie di Euripide, analizzate nel corpo principale del volume (pp. 13-341): Alc. 244-272: A 252 s. ~ 259 s. il testo che segue a νεκύων è interpretabile come pentemimere giambico con inizio anapestico, come pure 256b ~ 263b, così ricostruibili con i precedenti 256a ~ 263a (asclepiadeo minore acataletto con fine impura o baccheo e gliconeo con base anapestica e chiusa pesante): ἐπείγου˙ σὺ κατείργεις. τάδε τοί με σπερ- / χόμενος ταχύνει ~ τί ῥέξεις; ἄφες. οἵαν ὁδὸν ἁ δειλαι- / οτάτα προβαίνω.
393-415: I versi strofici 396/97 possono essere analizzati come penth ia pros, postulando nell’antistrofe, 409/10, solo un’inversione nell’ ordo verborum, ἐγὼ ἔργα, σύ τε σύγκασί μοι συνέτλας κούρα.
Hipp. 669-679: I vv. 677 s. vanno intesi come ‘il mio male di vivere mi viene appresso, difficile da superare (ovvero da guarire)’, con il genitivo βίου legato in iperbato a πάθος, il participio tràdito παρόν retto da ἔρχεται e ridondante con παρ᾽ ἡμῖν a sottolineare l’intensità del dolore, e l’aggettivo δυσεκπέρατον predicativo rispetto a πάθος.
Andr. 1173-1196: Sul modello dell’inclusione in 1188 dell’esclamazione ὦ παῖ, è opportuno anticipare ὦ πόλις dall’inizio di 1176 alla fine di 1175 e οἰχόμεθ᾽ dall’inizio di 1177 alla fine di 1176, mantenendo a 1177/78 l’anadiplosi οὐκέτι μοι γένος, οὐκέτι μοι τέκνα (AVL). I complessi 1189-1192 vanno intesi riconoscendo in ἀμφιβαλέσθαι una costruzione transitiva (‘cingersi, cingere a sé’), in ἐμὸν γένος il soggetto, in τὸ δυσώνυμον (σῶν λεχέων) il complemento oggetto, in ἐς τέκνα καὶ δόμον il complemento di fine, e in Ἀίδαν un’apposizione all’intera frase (Méridier), a cui sono riferiti sia il genitivo Ἑρμιόνας sia il complemento ἐπὶ σοί.
Hec. 59-97: Il testo manoscritto di 77/78 può essere interpretato come coppia di hemiepes, cioè il pentametro dattilico tipico della struttura epodica del distico elegiaco, che efficacemente esprime l’inquieta angoscia di Ecuba.
154-174 e 197-215: Mantenendo, a 207a, il tràdito εἰσόψῃ si può ipotizzare una responsione libera tra questo molosso ed il ferecrateo di 164; la successiva pausa sintattica sottolineerebbe l’atteggiamento esitante di Polissena.
1056-1106: Scandendo 1093 come prosodiaco docmiaco con inizio dattilico si può conservare l’iniziale esortazione formulare ὢ ἴτε, tràdita dalla maggioranza dei manoscritti e tipica di contesti dattilici e coerente con la caratterizzazione del brano. Sulla base del confronto con Bacch. 165 e 169, 1102/4 può essere inteso come sequenza eptadattilica scomponibile in un dimetro e un pentametro catalettico.
Suppl. 990-1030: Nei versi strofici 992-994 “il primo gliconeo è distinto dal secondo per la presenza di brevis in longo, il secondo è distinto dal terzo mediante lo iato e il terzo termina con fine di parola, con chiusa pesante e in corrispondenza con pausa sintattica”, mentre nell’antistrofe, 1014-1017, “i tre gliconei sono legati al colon successivo mediante sinafia verbale” (p. 110): tale irregolare responsione rispecchia il mutamento nello stato d’animo di Evadne, dalla quieta rievocazione delle nozze alla furiosa decisione di morire con il coniuge. Analogamente potrebbe spiegarsi la responsione libera tra ἁνίκα γάμων del verso strofico 995, interpretabile come metro giambico, e – δήσασα πυρὸς ἔσω del verso antistrofico 1018, docmio lungo o prosodiaco docmiaco (ma per ristabilire la corrispondenza si potrebbe, con Murray, ripetere il γάμων della strofe). La responsione di 1003-1006 ~ 1026-1028 può essere ripristinata postulando che in 1004 il posto del baccheo sia occupato da un molosso, a creare un nicarcheo, o faleceo catalettico, in libera responsione con il ferecrateo di 1027a; spostando, poi, ἐν Ἄργει all’inizio di 1027b e ὁ σὸς all’inizio di 1028, basta correggere τέκνοισιν in τέκνοις, e, a 1026, integrare un altro <εὐναί>, a formare un ferecrateo come quello strofico di 1003, o semplicemente ipotizzare che la misura dell’ipodocmio soluto tràdito fosse aggiustata con fenomeni di protrazione vocalica o ‘tempi vuoti’. Infine, l’aggettivo σός di 1028 può spiegarsi come autoesortazione del personaggio, con espediente tragico sovente associato ad imperativi alla seconda persona singolare (cfr. Tr. 98-104, 279 s.; Hec. 736 s.).
El. 112-166: In 122 la vocale iniziale della trisillabica correzione Ἀίδα (Hermann) va considerata lunga, perché con la scansione breve o la variante bisillabica del nome si avrebbe responsione tra un ferecrateo e il gliconeo di 137. Analogamente la responsione libera postulata da L tra il gliconeo acefalo di 120 e quello con base spondaica di 135 può essere ricomposta ipotizzando nel primo un fenomeno di protrazione. In 142 l’ hapax ἐπορθροβοάσω può essere mantenuto sulla base del confronto coi sostantivi ὄρθρος e ὀρθροβόας e i verbi ὀρθρεύω e ἐπιβοάω, e ammettendo la libera responsione tra questo docmio e quello catalettico di 159. Interpretazione docmiaca è preferibile anche per i controversi 143 s. ~ 160 s. A 162 il dativo μίτραις può modificarsi in μίτραισίν, per ottenere un dimetro polischematico acefalo.
Tro. 308-340: Il τὸν di 335 può essere emendato in θ᾽ ( vel δ᾽), congiunzione che, in contrasto con l’asindeto della serie di imperativi precedenti, potrebbe dipendere dal passaggio delle forme verbali dal singolare al plurale (se, invece, si preserva l’articolo, il verso e quello strofico 319 vanno analizzati come due gliconei con il terzo elemento soluto).
Ion 82-183: I vv. 98-101 vanno intesi ponendo sullo stesso piano sintattico l’imperativo φρουρεῖτ᾽ e l’infinito ἀποφαίνειν, che, in contesti precettistico-religiosi come questo, può esprimere un comando categorico: ‘pura conservate la bocca in silenzio e pure parole con la propria lingua bisogna rivolgere a chi desidera interrogare l’oracolo’. Il confronto con Aesch. Ch. 568 e Pind. Ol. I 92 e VI 58 consente di ipotizzare in 174- 176 la costruzione del participio χωρῶν col dativo semplice δίναις, coordinato con variatio all’accusativo νάπος Ἴσθμιον.
859-922: Il v. 916 può intendersi come an ia, o, meno probabilmente, an tr; per ottenere un dimetro anapestico regolare bisogna immaginare una pausa tra σός e ἀμαθής, che sottolinea la colpa del dio e la commiserazione verso il figlio abbandonato.
Hel. 164-178: Si può supporre che in 171b il tràdito αἰαινοῖς sia frutto di un errore di diplografia: l’espressione φόρμιγγας αἰνοῖς κακοῖς potrebbe analizzarsi come dimetro ia cr (la lezione manoscritta potrebbe invece rispecchiare un prolungamento vocalico). In 174 μουσεῖα può intendersi come ‘cori’ (cfr. l’aggettivo ξυνοιδός in Or. 132 s., Suppl. 73, Phoen. 1515-1518); di tale termine non è apposizione il φόνια di 176, invece aggettivo neutro plurale con valore avverbiale, che potrebbe riferirsi a πέμψειε (175) o a λάβῃ (178), in anastrofe rispetto a ἵν᾽ in ossimorico accostamento a χάριτας, da considerasi apposizione di παιᾶνα (178).
Phoen. 1485-1538: Nei vv. 1515-1519, dopo la pausa logica e sintattica con cui si chiude 1514, ἄρα conferisce particolare enfasi alla seconda interrogativa, in cui ὡς può avere valore consecutivo, mentre τάλαινα concorderebbe col soggetto di ἔτλα, se Ἑλλάς e βάρβαρος si considerano femminili: ‘quale altra donna greca o barbara o tra le nobili di un tempo, soffrì simili evidenti dolori a causa di sventure tanto grandi, misera, così da piangere … Quale uccello […]?’. A 1517 è preferibile la variante di A ( priore loco) μονομάτρος, genitivo dell’ hapax μονομάτηρ, da intendersi – sulla scorta del confronto con i composti euripidei μονόπαις e μονότεκνος, come enfatizzante la solitudine di Antigone, orfana dell’unica madre; si ottiene, così, un ferecrateo acefalo.
1567-1581: In 1570-1576 il genitivo αἵματος va legato non a λοιβάν, quanto a ἐπὶ τραύμασιν, con valore descrittivo o di qualità: infatti l’insolita natura della libagione è già chiarita dal tràdito φοινίαν, da conservarsi riconoscendo in 1575 una veste docmiaca, che conferisce alla scena un pathos contrastante con la solennità delle sequenze di sillabe lunghe, specchio dell’ineluttabilità del destino dei figli di Giocasta ben espresso dall’avverbio ἤδη.
Or. 174-186 ~ 195-207: L’ἅτε di 206 non va inteso come neutro plurale di ὅστε, bensì quale nominativo femminile singolare del pronome relativo, il cui antecedente, ricavabile dall’ἐμὸν di 201, presuppone lo stesso referente degli aggettivi ἄγαμος e ἄτεκνος, con cui costituisce un tricolon irregolare. La libertà di responsione tra 185 s. e 206 s. può spiegarsi immaginando una pausa prima di ἥσυχον o il prolungamento della vocale iniziale della parola, che rispecchierebbero la tranquillità del sonno di Oreste.
960-1011: Αἰωρήμασι può considerarsi autonomo colon 983a, docmiaco o giambo-trocaico ( sp cr), con valore di apposizione del successivo ἀλύσεσι (cfr. Hel. 353). I vv. 987-989 vanno intesi considerando τὸ πτανὸν … δίωγμα sintesi e anticipazione della frase temporale 990-994, rintracciando l’oggetto di ἀναβοάσω in ἄτας – che induce ad accogliere la correzione ἅς di Bruges – e segnando una virgola prima di δόμων, con ἐμέθεν collegato al precedente γενέτορας; il soggetto di κατεῖδον, da intendersi come prima persona singolare, è quindi Elettra. I complessi vv. 1001-1006 vanno interpretati considerando come soggetto di μετέβαλεν il carro del sole, a cui si riferisce anche il participio maschile προσαρμόσας, in virtù di un anacoluto o di una concordanza logica; Zeus è invece soggetto di μεταβάλλει, nonché di ἀμείβει (1007).
1369-1502: I vv. 1385-1387 possono essere intesi correggendo il tràdito τᾶς nel domostrativo τᾶσ<δ᾽>, che anticiperebbe il successivo Δυσελένας enfatizzando il ruolo di costei.
Iph. Aul. 1279-1335: Correggendo il ῥοδοέντ’ di 1296/97 nella forma piena ροδοέντα può ottenersi un esametro, analogo a quelli di 1294/95 e 1298/99. L’ordine con cui a 1301 s. sono presentate le divinità (Atena, Afrodite, Era e infine Ermes) doveva rispecchiare l’iconografia vascolare dell’episodio, in cui la successione delle dee può variare (come qui nei successivi 1303-1306), ma, leggendo l’immagine da sinistra verso destra, l’ultima figura è quella di Ermes, che guida il corteo; rispettando, dunque, il testo dei codici, 1301 consta di un ipodocmio e un docmio (ma, in virtù delle soluzioni del docmio, può essere analizzato anche come 2hypod), 1302 di an dochm (o an hypod). Ai vv. 1331 s. va conservato il testo tràdito, da intendersi – sulla scorta delle precedenti considerazioni sulle molte sofferenze della stirpe umana – ‘è inevitabile scoprire un infausto destino’; 1331 è analizzabile come cho 2da, con sinizesi tra le vocali di χρεών.
In conclusione, il lavoro di De Poli si segnala per accuratezza e chiarezza metodologica ed espositiva. L’attenta valutazione della storia critica ed interpretativa dei testi e l’equilibrata considerazione dei vari aspetti linguistici e performativi del fenomeno tragico, che sostanziano le riflessioni e congetture di cui si è dato esempio, rendono il volume un utile punto di riferimento per gli studi sulle monodie euripidee.
Indice generale
Introduzione, p. 1; Abbreviazioni metriche, p. 11; Alcesti, p. 13: vv. 244-272 (Alcesti-Admeto), p. 13; vv. 393-415 (Eumelo), p. 21; Ippolito, p. 27: vv. 669-679 (Fedra), p. 27; vv. 817-851 (Peleo), p. 35; vv. 1347- 1388 (Ippolito), p. 48; Andromaca, p. 57: vv. 103-116 (Andromaca), p. 57; vv. 846-865 (Ermione), p. 60; vv. 1173-1196 (Peleo), p. 66; Ecuba, p. 75: vv. 59-97 (Ecuba), p. 75; vv. 154-174 (Ecuba) e vv. 197-215 (Polissena), p. 84; vv. 1056-1106 (Polimestore), p. 95; Supplici, p. 105: vv. 990-1030 (Evadne), p. 105; Elettra, p. 115: vv. 112-166 (Elettra), p. 115; vv. 175-189 ~ 198-212 (Elettra), p. 129; Troiane, p. 133: vv. 98-152 (Ecuba), p. 133; vv. 279-291 (Ecuba), p. 142; vv. 308-340 (Cassandra), p. 147; Ifigenia fra i Tauri, p. 157: vv. 143-177 (Ifigenia), p. 157; vv. 203-235 (Ifigenia), p. 163; vv. 869-899 (Ifigenia), p. 167; Ione, p. 175: vv. 82-183 (Ione), p. 175; vv. 859-922 (Creusa), p. 187; Elena, p. 197: vv. 164-178 (Elena), p. 197; vv. 191-210 (Elena), p. 205; vv. 229-252 (Elena), p. 209; vv. 348-385 (Elena), p. 215; Fenicie, p. 225; vv. 182-192 (Antigone), p. 225; vv. 301-354 (Giocasta), p. 232; vv. 1485-1538 (Antigone), p. 243; vv. 1567-1581 (Antigone) p. 256; Oreste, p. 261; vv. 174-186 ~ 195-207 (Antigone), p. 262; vv. 960-1011 (Elettra), p. 271; vv. 1302-1310 (Elettra), p. 290; vv. 1369-1502 (Frigio), p. 293; Ifigenia in Aulide, p. 319: vv. 1279-1335 (Ifigenia), p. 319; vv. 1475-1496 (Ifigenia), p. 333; Bibliografia, p. 343; Indice dei principali temi discussi, p. 361; Indice dei passi citati e discussi, p. 364.