Ci si è chiesti se il commento agli Epigrammi dello pseudo-Seneca, pubblicato nel 2009 da Breitenbach,1 servisse a molto dopo quello di Dingel del 2007: e la risposta è stata giustamente positiva,2 perché punti di vista diversi hanno prodotto lavori diversissimi e non sovrapponibili. Mancava però tutto il lavoro che sempre accompagna esplicitamente o implicitamente un commento, a cominciare dalla costituzione del testo—ed è proprio in questo nuovo volume che Breitenbach fornisce una sorta di prolegomeni al suo lavoro esegetico, esaminando la questione della trasmissione manoscritta e della storia editoriale, nonché dell’(in)autenticità e dell’attribuzione e datazione del corpus di questi epigrammi.
Il lavoro è pregevolissimo e dimostra uno studio attento dei fatti materiali e testuali da un lato, e della questione ‘pseudo-Seneca’ dall’altro. È dunque soprattutto al filologo e allo studioso della tradizione che si rivolge la prima parte del libro, ma forse ancor di più suggestioni sul problema dell’autenticità rendono il libro utile anche agli studiosi di storia letteraria e teoria dei generi.
Procedo all’esame per capitoli, seguendo il percorso logico di Breitenbach, che è sempre dettagliato ma anche molto chiaro; raccomando però di tenere sempre a portata di mano il Kommentar, giacché in molti casi Breitenbach non si ripete (scelta che molti dovrebbero imitare) e ci rimanda al precedente lavoro.
Il primo capitolo dà brevemente le coordinate di base del problema dello pseudo-Seneca e dell’ Anthologia Vossiana ( AVoss.). Le discussioni a cui qui Breitenbach allude verranno tutte riprese nei capitoli successivi, e risolte almeno in parte nelle conclusioni a fine introduzione.
Nel capitolo 2 sono passati in rassegna tutti i mss. che contengono gli Epigrammi (nessuno trasmette la serie completa). Quello più diffusamente analizzato è naturalmente il Voss. lat. Q.86 (‘V’), unico testimone dell’ AVoss. e testimone principale per la maggior parte degli Epigrammi; Breitenbach fornisce un elenco dettagliato di tutti i testi (non solo gli Epigrammi) contenuti nel ms., indicando per ognuno le opportune fonti e risorse bibliografiche; inoltre esamina la prassi del copista e/o dell’escertore in maniera molto approfondita. Le considerazioni finali permettono di sostenere che, all’interno di V, almeno due gruppi di epigrammi (6-17 e 18-52a) costituiscono insiemi omogenei. Vale la pena di ricordare qui che, alla fine del libro, 14 tavole in b/n riproducono le cc. 93r.-99v. di V, cioè tutta la parte con gli Epigrammi. Breitenbach esamina poi gli altri codici. A tutta la discussione avrebbe giovato la presentazione di uno stemma, che però non viene disegnato sebbene la situazione a grandi linee sembri schematizzabile con qualche certezza. La fine del capitolo riporta i pochi casi di tradizione indiretta (citazioni e allusioni, evidentemente non dichiarate, da parte di altri autori, tutti di età medievale). Chiudono il discorso sulla trasmissione una storia delle edizioni fino a quelle recenti di Zurli (2001) e di Dingel (2007), e una ricca e aggiornata bibliografia sui codici e la tradizione indiretta.
Con il terzo capitolo Breitenbach si sofferma lungamente sulla “struttura”: è infatti attraverso lo studio degli eventuali rapporti interni fra i singoli carmi che si può cercare di capire se si tratti dell’opera di un singolo autore, o di una raccolta eseguita da un ‘terzo’ sulla base di una o più opere di uno o più autori. Questo studio è sicuramente uno dei punti di forza del libro. Secondo Breitenbach abbiamo davanti un libro, o parte di un libro, ad opera di un unico autore; per dimostrare però la natura unitaria di questo liber, serve esaminarlo secondo certi aspetti che sembrano avere peso in altri libri di epigrammi noti (in particolare Marziale): l’estensione generale; il numero di versi degli epigrammi; l’uso dei metri; la posizione strategica di certi epigrammi più marcati da un punto di vista concettuale. Breitenbach continua con l’analisi della “struttura esterna”: all’interno delle due sezioni ravvisabili nel corpus (“poesie dell’esilio” e “ vita quieta ”) sembra ravvisabile un’altra suddivisione, fra gli epigrammi di argomento storico (più o meno in ordine cronologico) e quelli di argomento privato; questo tipo di struttura sembra trovarsi anche altrove, ma può restare pesante l’ombra di una sistemazione ad hoc da parte di un escertore. Breitenbach va quindi oltre con l’analisi della “struttura interna”, cioè della concatenatio tematica, ideologica e spesso anche lessicale che pare svilupparsi in ognuna delle due macro-sezioni. È proprio su questo punto che credo si possano avanzare dubbi: siamo sicuri che uno stesso autore possa ripetersi, spesso autocitandosi, continuamente sullo stesso argomento e con parole simili? Ad ogni modo la conclusione di Breitenbach è che si tratta di un solo poeta, e che questo è un libro unitario con due temi principali.
L’univocità autoriale a questo punto permetterebbe considerazioni generali su fatti di natura letteraria e stilistica. Così, nel capitolo 4, rapporti intertestuali e tematici spiccano soprattutto con Ovidio: la sua lingua poetica è senz’altro la base dello pseudo-Seneca (come già di Seneca poeta); inutile dire che Seneca (quello vero) è spesso presupposto; alcuni contatti, ma non molti e non tutti strettissimi, si ravvisano con Lucano e Catullo, mentre non sono convinto di quelli con autori come Petronio (p. es. la coincidenza dell’emistichio tellus habitata colonis di 2.1 con quello di Petr. sat. 5.10, può ben essere casuale o non essere determinante); molto interessanti sono poi i riferimenti ad autori greci, fra cui soprattutto Callimaco e Filodemo. Utilissima la sinossi (95s.) di tutti i passi con le riprese testuali più evidenti dagli autori pre- e post-senecani, soprattutto Marziale e Silio, dopo i quali va senz’altro datato il corpus.
Breitenbach ci consegna dunque l’immagine di un unico autore, venuto dopo Ovidio e Silio Italico, che impersona Seneca, e il cui libellus ci è giunto più o meno completo. Purtroppo, in simili casi deve ridursi a poche pagine il capitolo in qualche modo più interessante, quello sulla lingua e lo stile di un autore ignoto. Il dettaglio stilistico più originale nello studio di Breitenbach è l’indagine sull’uso di acrostici. Non tutti quelli rilevati sono secondo me intenzionali: IDAEOS (= Idaeus) a 7a è certamente suggestivo e merita di essere segnalato; a 21+21a AIO.QVI.FLEO può anch’esso sorprendere e risultare forse più verisimile di quanto non sia (anche da un punto di vista grammaticale); difficoltosa è la lettura retrograda di SPES a 18, 50-47, dove pure si configurerebbe come un ‘acrostico a gamma ’ compreso fra speravit e spe; sono invece del tutto dubbioso su CENA a 15, ATER a 19 e ERAT a 51 (telestico).
Si arriva infine all’epilogo. Breitenbach ricorda opportunamente che nel periodo di cui parliamo si ha conoscenza di epigrammi di Seneca, e di dettagli sulla sua vita che non provengono dalle sue opere; è inoltre in voga una ‘poetica del falso’ che produsse almeno l’ Octavia (70-120) o il terzo libro del corpus Tibullianum o ancora parte dell’ Appendix Vergiliana. Ma il capitolo si conclude in maniera inaspettata: la proposta inquietantissima di Breitenbach è che l’autore possa riconoscersi in Anneo Floro. Gli indizi sarebbero diversi: una consonanza fra epigr. 12.5s. e Floro epit. 4.2.6; a 20.5s. l’unica testimonianza sopravvissuta fino a noi sul Mausoleo di Cleopatra oltre a Marziale (4.59.5) è Floro (2.1.1, 12.1); Floro epitomatore sarebbe vissuto nel periodo a cui Breitenbach data gli Epigrammi; inoltre Breitenbach crede che Lact. inst. 7.15.14 non inscite Seneca Romanae urbis tempora distribuit in aetates vada riferito a Floro (‘ Seneca ’ avrebbe sostituito un ‘ Annaeus ’, cioè Annaeus Florus !). Questi e altri ragionamenti meno cogenti ma tutti molto ben congegnati porterebbero dunque all’identificazione dell’autore degli Epigrammi con Floro; naturalmente Breitenbach ammette da ultimo che si tratta solo di suggestioni, e che, allo stato delle cose, l’opera non può che attribuirsi ad anonimo autore incerto.
Ai ‘prolegomeni’ tengono dietro il testo in latino e la traduzione tedesca a fronte in prosa. La traduzione è paziente con un testo che richiede spesso pazienza, ed è perfettamente godibile anche per chi non sia di madrelingua tedesca. Trovo però sbagliata la scelta di non tradurre i titoletti attribuiti ad alcuni epigrammi nei codici e giustamente riportati nel testo latino: non è inutile tradurli perché talora sono proprio queste epigrafi a chiarire di cosa parla il testo, e non sempre il latino dei titoli è felicissimo. Se la scelta è dovuta al fatto che Breitenbach non li ritiene autentici, sarebbe bastato espungerli nel testo latino.
Sul testo stesso, purtroppo, devo limitarmi ai fatti generali, pur con un appunto più serio: infatti, in un libro che si configura di fatto come un’ edizione critica originale preceduta da un’introduzione altrettanto originale, non può e non deve mancare l’apparato critico. La scelta è stata invece di ristampare il testo dell’ AVoss. pubblicato da Zurli nel 2001, senza l’apparato; Breitenbach ha apposto un asterisco dopo ogni singola parola su cui diverge, o dopo l’intero verso se discorda sull’assetto di più lezioni. Ciò potrebbe (forse) bastare se Breitenbach non ritenesse di poter migliorare il testo che in pochi punti; ma i suoi interventi sono molti, spesso sostanziali, e presuppongono spesso dati della tradizione manoscritta di cui nessuna traccia resta senza l’apparato. In realtà Breitenbach discute ogni innovazione (rispetto a Zurli, non per forza rispetto alla tradizione ms.) nel Kritischer Anhang in calce al libro: per ogni passo asteriscato c’è o una spiegazione spesso molto dettagliata, oppure un riferimento al commento del 2009 dove già l’argomento è stato discusso. Bisognerà dunque ricorrere di frequente al primo volume—com’è naturale, in un ‘ Buchpaar’ —ma non basteranno due libri, perché bisognerà sempre ricorrere a Zurli per sapere la verità su ogni singola lezione.
Le discordanze maggiori rispetto a Zurli si trovano: a) dove Zurli ha innovato il testo ope ingenii, e Breitenbach preferice il ms. o altra soluzione; b) dove Zurli ha lasciato il testo tràdito o la vulgata e Breitenbach ha accolto interventi altrui o proposto proprie congetture. Quasi mai le molte cruces sono risolte, se non talora sulla scia di proposte per lo più già note (a 6.1, 18.15, 33.10 , 36.5, 37.10, 47.4, 48.8, 49.3); tuttavia non farei di questo una colpa a Breitenbach, visto che si tratta di problemi spinosi. Avrei invece letto volentieri una ricostruzione dell’ epigr. 22, dove le censure moraleggianti di un monaco hanno occultato il dettato: il lavoro di commento avrebbe forse potuto permettere, tramite le varie riprese e i vari ‘tic’ metrici rilevati, un nuovo tentativo.
Un altro appunto si può forse rivolgere all’estromissione completa degli epigrammi ritenuti ‘spuri’ (che cioè non appartengono all’antologia originale o al liber), cioè il 4 e il 53. Del primo, che poteva ben essere riportato ed espunto, viene però data un’edizione commentata in una seconda appendice ( Appendix 2. Anth. Lat. 238-238a (4), 222-228), mentre il 53 è del tutto obliterato. Sono scelte ‘eroiche’ perché tradiscono una grande sicurezza interpretativa; tuttavia bisognerebbe forse sacrificare nettezza agli argomenti del dubbio e ammettere anche le parti spurie, riportandole fra graffe di espunzione.
Concludono il libro la bibliografia, gli indici e le concordanze fra le edizioni maggiori; infine le tavole di cui si è già parlato. I refusi sono rari: 45tit. zelotipa per zelotypa; p. 192: ‘preferabile’ per ‘preferibile’ e ‘piu’ per ‘più’. Sul piano tipografico è veramente fastidiosa l’assenza del numero di pagine dove cominciano non solo nuovi capitoli, ma anche sezioni interne ai capitoli stessi, al punto che a volte bisogna andare avanti e indietro per capire dove ci si trova. Nessuna colpa, s’intende, per l’autore, ma si può invitare l’editore a rivedere questa prassi tipografica.
Da ultimo non posso che ribadire l’incredibile importanza di questo libro, in associazione al Kommentar, per comprendere a fondo non solo il caso specifico, ma anche le dinamiche di creazione di falsi e di personatio, basate prima sulla considerazione dei fatti materiali e poi su brillanti osservazioni di carattere letterario. Inevitabilmente non si potrà concordare su tutto, sia per quanto riguarda il testo (secondo me meritevole di nuove discussioni), sia per quanto tocca la datazione, l’attribuzione (a Floro?) e l’interpretazione generale degli epigrammi e la loro collocazione entro una sola opera unitaria. Ma resta che, allo stato delle cose, difficilmente si poteva fare meglio.
Notes
1. Kommentar zu den Pseudo-Seneca-Epigrammen der Anthologia Vossiana., Hildesheim 2009 (v. la recensione di Rita Degl’Innocenti Pierini su BMCR 2011.01.41).
2. V. p. es. la recensione di Regina Höschele su Class. Rev. 60.2, 2010, 459 s.