Scrittura e falsità è un volume di “intelligente originalità” (come osserva, nella sua “Presentazione”, Paola Biavaschi, p. XI) sulla questione teorica della falsificazione documentale: prima di essere coinvolte in una dettagliata serie di esempi di questo fenomeno, però, complesse categorie (eminentemente linguistiche) vengono chiarite in modo tale da proporsi ad un pubblico non soltanto di linguisti e di studiosi di Restsprachen (sui cui esempi è articolata gran parte della ricerca: Facchetti è un linguista che si è eminentemente occupato di indoeuropeo, minoico ed etrusco).
Su “Scrittura e non scrittura” (pp. 1-34) si concentra il primo capitolo: punto di partenza per l’indagine è il complesso e molteplice concetto di ‘scrittura’, espressione del sommarsi di elementi di falsità. Si tratta di una riflessione che approfondisce quella che Facchetti aveva cominciato a sviluppare con il suo “Antropologia della scrittura”, pubblicato alla fine del 2002. Riattraversando significative tappe nella storia degli studi e rilevando l’insufficiente concentrazione sulla questione terminologica, l’attenzione è volta alla discussione sulla nascita della scrittura ex nihilo (in modo assolutamente autonomo) ed ex novo (“per indicare la creazione per copia d’idea generica di scrittura”, p. 14) e al delinearsi di pittografia, iconismo e prescrittura. Passa, poi, alla differenziazione tra il codice della lingua e quello della scrittura e alla definizione dei requisiti del sistema scrittorio, fino a delineare le cosiddette “scritture imperfette” (dalle protoscritture a casi di non perfezionamento del processo per copia di un modello preesistente). Esaminare la scrittura nella sua origine e nella sua diffusione significa, per Facchetti, innanzitutto, analizzare il valore di grafema, non solo in relazione all’(allo)grafo, ma anche in contrapposizione con il fonema e con l’(allo)fono: il grafema viene analizzato nelle sue differenti tipologie, dal fonogramma, che esprime una sequenza fonica della lingua, fino all’ideogramma, che indica il significato di una parola, e al logogramma, che rappresenta significante e significato di una parola.
I tipi di sistema di scrittura vengono, così, divisi tra sematografici e fonografici ed una serie di esempi viene funzionalizzata alla rivalutazione di problemi come quello della fonograficità di lineare A e B (pp. 32-34).
Il tecnicismo terminologico del volume di Facchetti è unito ad un’assoluta linearità delle definizioni (di chiara fruibilità didattica), nate dalla constatazione della “mancanza di una riflessione tassonomica generale a livello sistemico” (p. 31) in molti dei precedenti studi sulla scrittura (in particolare egli si riferisce a V. Valeri, La scrittura. Storia e modelli, Roma: 2009). L’uso di schemi, del resto, meglio mette sotto lo sguardo del fruitore (non necessariamente un linguista, ma un qualsiasi studioso o studente) gli elementi costitutivi di processi complessi (è il caso, ad esempio, dello schema sulla creazione del sistema scrittorio di p. 15; di quello della sua classificazione tipologica di p. 28; del quadrato semiotico della falsificazione documentale di p. 49). È con il secondo capitolo, “Scrittura falsa e scrittura falsificata” (pp. 35-68), che ci si sposta verso il fulcro del volume, e cioè l’inesplorata questione teorica della falsificazione documentale. Sempre espressione di un intento per lo più fraudolento, la falsificazione documentale può essere quella di un testo scritto in una lingua nota o in una lingua ignota (o poco nota) o in una lingua (e/o una scrittura) inesistente (e l’Autore menziona l’esemplarità del caso di Annio da Viterbo, pp. 37-38); a tale questione si aggiunge l’analisi di altri “atti di non-scrittura” (p. 42), quelli, cioè, della ‘telescrittura’ (o creazione grafica in stato di trance, dal caso di suor Maria Crocifissa della Concezione a quello dei ‘telescrittori’ di alcune dirette televisive) e della ‘pseudoscrittura’ (o meglio, della ‘pseudoepigrafia’, data la circoscrizione dell’indagine di Facchetti; e qui esemplari sono l’ideazione del sillabario cherokee e del rongorongo). Seguono, poi, riconsiderazioni sul valore di alcuni reperti da ricollegare alla cultura di Vinča e a sue manifestazioni scrittorie che non hanno avuto seguito (i cocci da Obrenovac e Rudnik, la placca d’argilla di Gradešnica, l’enigmatico caso delle tavolette di Tărtăria). Viene ideato dall’Autore un quadrato semiotico della falsificazione documentale, adattamento di quello di Greimas sull’essere ed il sembrare (pp. 48-49): la schematicità del quadrato e le sue componenti costituiscono il parametro per le definizioni di un documento autentico (o originale), di una copia fedele, di un documento autentico con elementi di falsità ab origine, di un documento autentico con elementi di falsità insitici, di una inscriptio aliena, di una pseudotraduzione, di una falsificazione documentale in senso stretto, di una pseudodecifrazione, della pseudosaggistica, di un’imitazione scrittoria decorativa o commerciale, della pseudoscrittura, della telescrittura non fraudolenta, della lingua artificiale, di una crittografia, della scrittura (e/o lingua) dimenticata (pp. 48-56). Da tutti questi “casi collaterali” (p. 58) la falsificazione documentale in senso stretto, però, si distacca perché è espressione di un intento completamente falsificatorio che non può prescindere dal grado di abilità del falsario stesso, come dimostrano gli esempi delle iscrizioni siciliane di Ottavio d’Arcangelo o di quelle di Pirro Ligorio. Chiariti i “criteri di individuazione del carattere falsificatorio” (pp. 65-66: indagini tecniche, sull’aspetto formale del documento, sul suo contenuto, sulla fonte di provenienza) Facchetti si sofferma sulle falsificazioni epigrafiche – uno dei due grossi filoni, accanto a quello delle falsificazioni letterarie (cui si fa cenno, ma che costituirebbero lo spunto per ulteriori ricerche metodologiche) – realizzate in età moderna o contemporanea e geograficamente circoscritte all’Europa e al bacino Mediterraneo.
Ad una serie di esempi, infatti, è dedicato il terzo capitolo “Analisi di alcuni casi concreti” (pp. 69-126): dall’idoletto di Roccacasale (indagine, in realtà, già presentata altrove precedentemente dall’Autore) alla biscritta della collezione privata Giamalakis falsamente ritenuta eteocretese, alla lamina di Anversa degli Abruzzi, fino a ridiscutere sull’autenticità della defixio etrusca di Poggio Gaiella e sull’enigmaticità della tavoletta della Grotta del Frassino e del masso di Castagneto, per poi chiudere con il complesso epigrafico falsificato per esaltare la casata degli estensi (opera di Girolamo Falletti). Le pagine di Facchetti non solo risultano di lettura chiara (e piacevole, con le sue tonalità vivaci e, a tratti, narrative) ad un pubblico di non specialisti, ma, soprattutto, costituiscono l’applicazione puntuale di tutti quei criteri necessari per individuare falsificazioni documentarie che egli stesso aveva delineato metodologicamente nella prima sezione del volume; il risultato, così, è quello di rivestire di scientificità e rigore storico-archeologico e linguistico-testuale pagine che, nella maggior parte dei casi, avevano precedentemente attirato l’attenzione di studi qualificabili come ‘pseudosaggistica’.
È “Falsificazione e pseudosaggistica” il titolo del quarto ed ultimo capitolo del volume (pp. 127-165): con particolare riferimento agli studi su Restsprachen spesso caratterizzati da un gusto “folkloristico e curioso” (p. 129), analizzare i concetti di ‘decifrazione’ e di ‘pseudodecifrazione’ è basilare per riflessioni che si propongono di “seguire il processo falsificatorio e perturbativo nei confronti della ricerca scientifica” (p. 130) e di problematizzare su “ciò che io chiamo ‘perturbazione della scienza’” (p. 131). Le riflessioni nascono dalla preoccupazione per la manipolazione di studi linguistici ad opera di regimi – o, comunque, questioni – politici (è il caso delle teorie sulle parentele dell’albanese con l’etrusco sotto il regime di Enver Hoxha) e dalla possibilità di ingresso nel sistema scientifico di studi riusciti, “per ‘agganci’ di varia natura, a inserirsi nel circuito della grande presse (o di altri mass media)” (p. 134): sono riportati gli esempi dei dizionari etimologici di Giovanni Semerano (pp. 134-136) e della notizia della decifrazione del disco di Festo (pp. 136-137). Da ciò nasce la necessità non solo di una maggiore concentrazione scientifica su determinate questioni, ma anche di far circolare tali risultati tra un pubblico di “appassionati” (p. 131): le osservazioni di Facchetti hanno tutte le prerogative per non ritenersi circoscritte alla linguistica ma possono essere considerate una chiave a livello metodologico. Egli, infatti, ripercorre il meccanismo responsabile della “perturbazione della scienza” (pp. 138-139) – con qualche punta polemica: il volume si chiude con la secca allusione a “cortesie dovute tra stimati colleghi” (p. 165) – e analizza il complesso processo di divulgazione scientifica, con quel “linguaggio ‘iniziatico’” (p. 141), di cui spesso si rivestono “conoscenze diffuse” (pp. 142-150) con pretese di una scientificità (ed è l’essenza della pseudosaggistica) che potrebbe indurre a “perdere la capacità critica di distinguere ciò che è logico e ragionevole da ciò che è assurdo e pazzesco” (p. 152). L’“Appendice” (pp. 152-165) è l’ampliamento di un articolo già pubblicato e si propone di dimostrare cosa possa essere generato dalla circolazione di pseudosaggistica: è il caso della discussione su James Churchward e della pretesa esistenza del continente di Mu e delle sue “tavole Naacal” (che guidano alla riflessione su quelle di Niven, pp. 159-162).1
Notes
1. Il volume si chiude con una “Nota bibliografica” (pp. 167-170); è da segnalare la completa assenza di indici (al di fuori di quello del volume stesso delle pp. VII-VIII).