Questo interessante libro di Wolfgang Polleichtner (“revised version” della sua tesi di dottorato, sotto la guida di Karl Galinsky) verte sul controllo che Enea esercita sul pathos o, se si preferisce, sul controllo che il pathos esercita su Enea e su altri personaggi. L’Autore affronta l’argomento con costante riferimento ai modelli seguiti da Virgilio (soprattutto Omero e Apollonio Rodio) e ai movimenti filosofici diffusi al suo tempo, il cui influsso si riscontra verosimilmente nel poema. L’introduzione (cap. 1, p. 11-20) muove dalla premessa che l’ Eneide non è stata scritta per dimostrare tesi filosofiche, ma non poteva restare estranea all’influenza delle correnti coeve — tanto più che Virgilio coltiva interessi speculativi fin da giovane ed è stato allievo o amico di Filodemo.
Seguono due capitoli propedeutici e metodologici. Nel cap. 2 l’Autore espone “the meaning of emotions” in base alle diverse scuole filosofiche (da Platone ad Aristotele, dagli Stoici agli Epicurei), dal mondo antico fino a oggi (p. 21-52). Tra le fonti relative alle correnti ellenistiche sono citati i frammenti di Panezio e Posidonio, ma anche Cicerone e Seneca. Nel cap. 3 (p. 53-70) si affrontano i problemi teorici riguardanti il genere letterario e i rapporti di Virgilio con i modelli. Ammirevoli le competenze di filosofia, di psicologia e di teoria letteraria dispiegate nella discussione, che tuttavia risulta eccessivamente prolissa. Si tratta di una serie di premesse alla trattazione vera e propria, insomma una sorta di appendice all’introduzione, che probabilmente funzionava bene nella struttura di una dissertazione, ma forse doveva essere ridotta in sede di pubblicazione scientifica, in cui vige l’esigenza di essenzialità, subordinata a sua volta alla più veloce ed efficace fruibilità dell’opera.
Alla p. 71 finalmente comincia la trattazione, che si concentra su alcune scene dell’ Eneide considerate emblematiche per la presenza delle passioni e per la loro incidenza sia nella dimensione interiore che nell’azione. La selezione non è priva di oculatezza, ma è pur sempre parziale e lontana da una rassegna esauriente. Le scene in questione (la tempesta iniziale, l’incontro di Enea con Venere sulla costa libica, l’arrivo a Cartagine, i dipinti nelo tempio di Giunone, la controversa scena di Elena, il duello finale tra Enea e Turno) si prestano bene all’analisi dell’emotività, ma ne sono tralasciate molte altre ugualmente adatte: si pensi agli episodi pregni di pathos e di orrore nel libro III; si pensi al confronto violento e irrisolto di Enea con Didone nel IV (quali sono i sentimenti dell’eroe e da quali segni si evincono?). Inoltre non è proporzionata la distribuzione delle scene scelte nell’ Eneide, dal momento che quattro brani appartengono al libro I, uno al II e uno al XII, nessuno ai libri dal III all’XI. Non è un problema di tipo meramente tassonomico: così è impossibile cercare uno sviluppo diacronico, un percorso evolutivo di Enea, che risulta escluso a priori. Tuttavia l’analisi delle scene è rigorosa e approfondita. L’intertestualità è scandagliata con attenzione puntuale e accurata: le analogie e le differenze sia con l’ Iliade e l’ Odissea che con le Argonautiche sono discusse dettagliatamente, con vasta e varia informazione bibliografica. La valutazione riguardante le passioni è generalmente ben argomentata, anche se non sempre mi pare pienamente condivisibile. Bisogna quindi entrare nel merito dei singoli capitoli.
Il cedimento di Enea durante il naufragio nel libro I (vv.92 ss.), oggetto del cap. 4 (p. 71-124), non significa che egli “distrusts his alleged heroic destiny”: il confronto con Omero e Apollonio Rodio mostra che si tratta di un topos del genere epico, in cui l’eroe virgiliano appare in fin dei conti “less fearful” rispetto a Odisseo e a Giasone. Il suo comportamento sarebbe stato ritenuto umanamente normale, non biasimevole, da filosofi di diverso orientamento come Aristotele e Filodemo. La sua debolezza è riscattata successivamente, quando Enea rivolge ai compagni un discorso d’incoraggiamento, comprimendo nel cuore il proprio sgomento e infondendo loro un rassicurante ottimismo (vv.195 ss.). Un problema interessante, che si poteva prendere in esame, è per quale motivo Virgilio presenti Enea al lettore (alla sua prima apparizione, che assume una valenza speciale per la caratterizzazione della sua figura!) in uno stato d’animo così poco eroico (per quanto comprensibile e non biasimevole), a prescindere dal confronto con Odisseo e Giasone, il secondo dei quali non è affatto un eroe nel senso tradizionale.
Nell’incontro di Enea con Venere sulla costa libica (cap. 5, p. 125-145), la sua reazione di rabbia e delusione alla rivelazione della madre “can be called somewhat pubertal”: una sorta di regressione all’infanzia, spia di “problematic relationship between a son and his parent”. Poi però egli desiste da questo sentimento immaturo e controproducente, per seguire le indicazioni di Venere senza esitazione, come si addice a un uomo saggio e padrone di sé. All’arrivo a Cartagine (cap. 6, p. 146-158) Enea prova un sentimento di ammirazione per i Fenici intenti alla costruzione della città, un sentimento misto al desiderio di fare lo stesso, di trovare cioè la nuova patria. Si tratta di aemulatio (un impulso costruttivo a eguagliare gli altri, a conseguire il loro stesso obiettivo), da non confondere con l’ inuidia, quella che manifesterà Didone quando tenterà di trattenere Enea che sta per lasciare Cartagine. Ma proprio questo sentimento di per sé tutt’altro che negativo (“Aeneas’ wish to build a city”) induce l’eroe nell’errore di trattenersi nel posto sbagliato, da cui lo dissuaderà l’intervento di Mercurio.
I dipinti nel tempio di Giunone (cap. 7, p. 159-191) suscitano in Enea un intenso turbamento, che si traduce però in uno stato d’animo di sollievo. L’estetica platonica e aristotelica fornisce una chiave di lettura nella prospettiva metaletteraria (come interpretare un’opera d’arte e, per analogia, come interpretare la poesia epica). L’arte svia l’attenzione dalla realtà, di cui è imitazione inadeguata, secondo Platone, che però non esita a servirsi di Omero a scopo emblematico, per veicolare e inculcare precetti morali. La sua non è dunque una condanna categorica dell’arte, la cui fruizione diventa plausibile e finanche utile per finalità didascaliche ed edificanti: è controproducente invece una lettura puramente emotiva dell’opera d’arte, che turba la sensibilità e ostacola la condotta razionale. Proprio questo accade a Enea, che interpreta i dipinti sotto un forte pathos e ne fraintende il significato, traendone un messaggio rassicurante che non coincide affatto col loro scopo (celebrare Giunone, la nemica mortale di Troia). Enea si trova così nel ruolo dell’eroe tragico sancito da Aristotele: il personaggio sfortunato che si rovina (o corre il rischio, in questo caso) per un errore, un fraintendimento, “a personal mistake”.
Sulla scena di Elena (cap. 8, p. 192-222) Polleichtner muove dal recente contributo di J. Fish, Anger, Philodemus’ Good King, and the Helen Episode of Aeneid 2.567-89: a New Proof of Authenticity from Herculaneum, in D. Armstrong, J. Fish, P. A. Johnston, M. B. Skinner (eds.), Vergil, Philodemus, and the Augustans, Austin 2004, p. 111-138, a cui conviene rivolgere un rapido sguardo. La scena, la cui paternità virgiliana è presupposta più che dimostrata, si inserisce in maniera coerente nelle vicende dell’ultima notte di Troia, in cui Enea si degrada moralmente fino a toccare il fondo, in preda a passioni negative e autolesioniste. L’epifania della madre Venere lo spinge a desistere dall’ira, da condannare in chiave filosofica perché “self-destructive, stained with pleasure, and connected with the pursuit of glory”. L’eroe intraprende così un percorso di maturazione, “almost a kind of conversion”, che un giorno lo porterà a incarnare un modello di re ideale, secondo gli insegnamenti epicurei di Filodemo. Fin qui Fish. Polleichtner considera decisivi questi argomenti e li corrobora mediante un ulteriore confronto dell’episodio virgiliano con i modelli. Al conflitto tra Achille e Agamennone nel libro I dell’ Iliade e all’ Oreste di Euripide, egli aggiunge Apollonio Rodio, I, 1280-1344, dove Telamone inveisce contro Giasone (ritenendolo responsabile di aver abbandonato Eracle e Ila) e sta per aggredire il timoniere Tifi, se non comparisse il dio marino Glauco a calmarlo, spiegando che l’accaduto rispecchia i piani di Zeus. Da un ponderato esame comparativo emerge che Virgilio combina gli elementi attinti dai modelli “in a way that is very much in tune with the therapeutical approach to emotions”, che trova riscontro negli insegnamenti di Filodemo.
L’ultimo capitolo (p. 223-276), che riguarda il duello finale tra Enea e Turno, è il più consistente e può essere considerato il punto d’arrivo dell’intero libro. L’Autore investe il massimo impegno per dimostrare che, in base all’analisi dell’intertestualità e alla luce delle principali teorie filosofiche antiche, Enea non può essere condannato moralmente per il fatto che uccide Turno dopo averlo sconfitto. Non a caso, lo stesso esito a cui perviene il maestro Karl Galinsky in un contributo meritatamente famoso, The Anger of Aeneas, in “AJPh” 109, 1988, p. 321-348 (dello stesso autore cf. pure How to be philosophical about the End of the Aeneid, in “ICS” 19, 1994, p. 191-201). Tra le fonti filosofiche discusse da Polleichtner spicca Seneca, De ira, I, 12, 1, secondo cui la vendetta di sangue per l’uccisione del proprio padre non è una conseguenze nefasta dell’ ira, ma è una manifestazione di pietas. Lo stesso vale per Enea, che uccide Turno per vendicare l’omicidio di Pallante, a lui unito da un vincolo sentimentale e morale paragonabile a uno stretto legame di sangue. Al contrario, Turno è “the one constantly driven by his emotions and not able to reconsider his behavior”: secondo il giudizio di Aristotele, “he deserves punishment”. L’atto omicida di Enea “is therefore not only unmotivated, but even plausible”. Fin qui si può concordare. Polleichtner aggiunge però che Enea non uccide Turno in quanto si trova in uno stato emotivo di furore, di accecamento (umanamente comprensibile e filosoficamente giustificabile): egli esercita un relativo controllo di sé e, nel compiere l’omicidio, rievoca esplicitamente Pallante come in un gesto rituale, spiegando agli spettatori (il futuro popolo romano) per quale motivo il nemico deve morire. In tal modo sembra quasi che Enea commetta l’omicidio a sangue freddo: non credo che sia così; tanto meno è possibile deresponsabilizzare un tale gesto. Sarebbe stato preferibile fermarsi un passo indietro, al fatto che Enea ha un buon motivo per adirarsi e, quando il dolore è riacceso in lui dal brillio fatale del balteo di Pallante, cede all’impulso di uccidere Turno. A un giudizio di buon senso (non strettamente filosofico, ma applicabile all’uomo di ogni tempo) tale cedimento è molto meno biasimevole di un omicidio a sangue freddo.
Il bilancio conclusivo (p. 277-283) ribadisce che Enea, nelle diverse scene esaminate, “ultimately succeeds in not letting his feelings get in the way of his care for his people”. Dal confronto con i suoi predecessori epici emerge che l’eroe virgiliano “is not always perfect, but often comes close to perfection”. Per quanto riguarda lo scopo esemplare attribuito da altri all’epos omerico e da Virgilio al proprio poema, dispiace il paragone banalmente attualizzante con odierni prodotti di basso consumo: “today’s movies or television series” (comune sarebbe la funzione didascalica, “as a platform for the presentation of role models and patterns of behavior in everyday life”). Seguono un’ampia bibliografia e un utile index locorum.
Nonostante lo spazio eccessivo concesso al discorso propedeutico, il criterio selettivo non proprio equo e qualche punto di dissenso nel merito dell’esame critico, il libro è ricco di stimoli, complessivamente apprezzabile e interessante.