Il volume della Macrì raccoglie gli esiti dell’attività di ricerca condotta nel corso del Dottorato in ‘Antropologia del Mondo Antico’ presso l’Università degli Studi di Siena, in cotutela con il Centre Louis Gernet dell’École des Hautes Études en Science Sociales di Parigi. Il lavoro nasce dalla constatazione che la pietra appare alla percezione culturale dei Greci e dei Romani come entità che veicola molteplici e paradossali significati simbolici, legati a mentalità e culture molto differenti dalla nostra.
Il primo capitolo, ‘Dallo stato di inerzia alla dynamis del movimento’ (pp. 5-40), inizia con l’analisi dei valori traslati suggeriti dalla pietra. Nei poemi omerici l’immagine della pietra ricorre come espressione della forza straordinaria che contraddistingue alcune azioni degli eroi. L’eroe omerico è in grado di scagliare contro i nemici massi enormi, imprimendo velocità e agilità alla staticità della pietra. Questa antinomia tra fissità e movimento è rilevata da Eustazio di Tessalonica che, nei commentari ai poemi omerici, afferma che
Molte osservazioni degli antichi sono legate alla spiegazione delle capacità del magnete, la pietra capace di produrre movimento negli oggetti di ferro. Talete affermava che il magnete fosse dotato di anima. Platone paragona la capacità del poeta ispirato di infondere il suo invasamento a coloro che gli sono vicini alle capacità attrattive del magnete. L’azione della calamita, razionalmente inspiegabile per gli antichi, compare in molti esempi in cui si debba dimostrare l’inattendibilità di eventi incomprensibili all’uomo. Agostino ( Civ. Dei 21.4) cita il caso del magnete per indurre a credere nei miracoli divini. Il magnete assume, però, uno statuto straordinario in storie riguardanti il suo reperimento. Plinio ricorda due monti presso il fiume Indo, l’uno con la capacità di trattenere, l’altro di respingere ogni sorta di ferro. Dai racconti antichi si evince che il talento posseduto dalla pietra consiste nella facoltà di ‘muovere forzatamente la volontà altrui’. La seduzione magnetica appare il modo migliore per esprimere l’attrazione irrimediabile dell’amore. La metafora della seduzione del magnete compare anche in Claudiano ( Idilli, 5), che racconta un evento straordinario che riguarda un rito nell’ambito del quale una statua di Venere, di pietra magnetica, attrae a sé una statua di Marte, per sancire il conubium tra le due divinità. La statua, quindi, oltre alla condizione di essere vivente pietrificato, può assumere, grazie al magnete, la condizione di blocco di pietra animato. Il magnete, perciò, oltre alla capacità di innescare un movimento negli oggetti di ferro, ha quella di infondere vita, di vivificare delle statue, di restituirle alla vita.
Nel secondo capitolo, ‘Il dolore della pietra e le rocce dell’oblio’ (pp. 41-62), la studiosa indaga sui legami simbolici che la roccia intrattiene con la sfera delle esperienze emotive e sensoriali umane, in particolare con il sema del ‘dolore’ e dell’ ‘oblio’. Linee guida del saggio sono la persistenza di un segmento narrativo, quello del personaggio che giace immobile su una roccia o un sedile di pietra e l’idea di un assorbimento dell’umano nel minerale. La litomorfosi rappresenta, in questi casi, l’avvento di una dimensione disumanizzante, caratterizzata da un dolore ineludibile, dalla caduta nell’oblio eterno, da una morte intesa come condizione inamovibile. L’idea di una sofferenza inflessibile può essere espressa attraverso la metafora del ‘dolore di pietra’. È il caso dell’Arianna ovidiana ( Heroides 10.49-50), che afferma di essere invasa da un freddo glaciale, di sedersi sulla pietra, divenendo quasi simile alla pietra stessa, a causa del dolore scaturito dall’abbandono. Ovidio, per indicare lo sguardo vitreo della donna, utilizza il verbo prospicere (v. 49), che indica lo sguardo immobile proprio delle statue.1 Nel repertorio paremiografico greco è riportata un’espressione, che recita ‘una pietra che non ride’, una pietra Agelasto, che indica una situazione che implica sofferenza. Demetra, infatti, conosciuto il destino toccato alla figlia, si sedette affranta su una roccia che, da quel momento, fu detta
Il maggior punto di forza del volume, però, è senza dubbio il terzo capitolo, ‘Le non-pietre dei lapidari’ (pp. 63-104), che prende in esame le pietre ritenute preziose dagli antichi. La studiosa dedica la sua attenzione prima di tutto al corallo, che la tassonomia antica, a partire dal I sec. d. C., considera come suscettibile di una duplice classificazione: vegetale e animale. Plinio, riportando le opinioni dei naturalisti antichi, classifica il corallo come elemento della flora marina e ne imputa la solidificazione al passaggio della pianta nell’aria. Altri racconti antichi riportano il singolare fenomeno di piante che cambiano aspetto nell’oltrepassare la linea di confine del mare. Nella mentalità greca il corallo, nato nel mare infecondo, non occupa nemmeno il gradino più basso di quella scala gerarchica, secondo la quale le piante sono classificate in base alla loro prossimità al calore solare e alla loro trasformabilità da parte dell’uomo. I vegetali marini, dislocati nell’elemento acquatico, sono esclusi da questa classificazione e sono il duplicato di ciò che l’uomo ha già ordinato e catalogato in superficie.2 Transitando dai fondali alla riva, il corallo da pianta di mare diventa entità minerale, passando da uno stato umido e flessuoso ad uno secco e rigido e, inoltre, da uno stato di invisibilità (poiché sprofondato nell’abisso) ad uno di visibilità. Il corallo, con la sua parvenza di pianta dalla consistenza litica, costituisce un paradosso ed è spiegato dagli antichi ora con argomenti razionali, ora con percorsi legati alla sfera dell’immaginario. Uno dei nomi del corallo è gorgonia, che rimanda al mito di Medusa, dal contatto con la quale i coralli sarebbero nati imbevendosi del sangue della testa mozzata. Il corallo, inoltre, non si limita a subire la vis gorgonica, ma la carpisce così da poterla trasmettere ad altre piante. Diviene, perciò, un doppio di Medusa.
La studiosa arriva, infine, ad individuare una ‘fisionomia culturale’ delle gemme che, generate dai raggi del sole o della luna, custodite da animali con vista prodigiosa, dislocate nelle cavità oculari di simulacri, sono rappresentate per analogia con la forza dello sguardo. Queste pietre assumono la funzione di occhi supplementari, capaci di conferire uno sguardo capace di travalicare i limiti consentiti all’umana natura. In primo luogo la studiosa tratta dei racconti in cui si mette in evidenza la difficoltà del reperimento delle gemme. Uno di questi, riportato anche da Plinio ( N. H. 37.107-8), riguarda l’Isola dei Topazi: Diodoro (3.39.6) riferisce che i preziosi minerali non sono visibili di giorno ma segnalano la loro presenza di notte con un’incredibile luminosità; possono, quindi, essere raccolti solo con determinati accorgimenti. Un’altra pietra, la draconzia, nasce dal cervello dei serpenti ma si trasforma in pietra solo se è raccolta uccidendo i rettili mentre dormono. Posta nella cavità degli occhi dei serpenti, ne aguzza la vista, fornendo agli animali uno sguardo terribile. L’associazione tra pietre e occhi ricorre anche a proposito delle callaine, che sporgono dalle rocce in forma di globo oculare e sono difficilmente reperibili. Altre gemme, come a volte anche le callaine, si rinvengono nei nidi dei volatili. Il picchio, secondo le credenze degli antichi, conosce una pietra capace di sgretolare ostacoli posti dinanzi alla sua tana e, quindi, in grado di condurre verso luoghi e tesori reconditi, persino in grado di leggere i sogni di un uomo.
Eliano ( N. A. 3.13) registra la notizia di una pietra, ingoiata dalla gru passa e rigettata in prossimità dei porti, in grado di testare l’autenticità dell’oro. Anche l’aetite, posta dalle aquile nel nido per salvaguardare i piccoli dagli altri rapaci, ha una capacità particolare, quella di contrastare il potere del fuoco. Altro racconto riportato è quello secondo il quale nel deserto della Scizia vi fosse una valle profondissima e inaccessibile, ricca di pietre preziose che i re di quelle regioni si procuravano con la complicità delle aquile. Le gemme, quindi, si presentano spesso in luoghi inaccessibili all’uomo, senza l’ausilio di animali. Queste gemme, trasportate da animali, compiono un ‘tragitto demineralizzante’ e si rivestono di poteri straordinari, assumendo connotati ossimorici: ‘nell’immaginario dei lapidari antichi la natura delle gemme appare celeste e terrestre, fredda e ignea, comprensibile e misteriosa, materica ed evanescente’ (p. 89). La straordinarietà di una pietra, tuttavia, si segnala con un potenziamento della propria luminosità. L’idea che la pietra possa simulare lo sguardo deriva dalla convinzione degli antichi Greci che l’organo della vista sia una sorgente luminosa, dotata di una luce propria. Il caso più evidente è quello dell’asteria che, secondo gli antichi, racchiude in sé la luce in una specie di pupilla. Secondo Artemidoro ( Onirocritica 2.5) la perdita dei gioielli corrisponde alla cecità. Alcune di queste gemme, secondo gli antichi, hanno anche la virtù di guarire i disturbi della vista. Gemma interessante è la ieracite, rinvenibile nel cranio o sotto la fronte dello sparviero, che è in grado di rendere più acuto lo sguardo. La ienia, ricavabile dagli occhi delle iene, avrebbe il potere di spalancare lo sguardo sull’ignoto e di permettere all’uomo sotto la cui lingua è posta, di predire il futuro. L’ossidiana, nel riflettere le cose in maniera imperfetta, sembra consentire la visione delle ombre. I requisiti meravigliosi di queste gemme sembrano spalancare le porte verso l’aldilà, verso ciò che normalmente sfugge alla percezione umana. Nelle riscritture del racconto erodoteo di Gige e Candaule, caratterizzato dalla continua disgiunzione tra il vedere e l’essere percepiti, che coinvolge i tre personaggi in gioco, gli elementi che determinano o neutralizzano l’invisibilità di Gige sono un anello (posseduto da Gige) capace di rendere invisibili, e la pietra dracontite (posseduta da Candaule), in grado di conferirle una vista acutissima. Ultimo suggestivo esempio citato dalla studiosa è quello di Linceo (Igino, Fabulae 14), dotato di una vista davvero sovrumana, che gli consente perfino di riconoscere le vene aurifere che giacciono sotto terra. L’invisibilità e la vista sovrumana, qualità per cui eccelle Linceo, si legano alla dimestichezza che il personaggio intrattiene con l’intero regno dei minerali. La vista straordinaria, quindi, va di pari passo con la conoscenza esperita nel mondo minerale.
Il volume, estremamente interessante e ricco di osservazioni illuminanti, è corredato di un ricco apparato di ‘Note’ (pp. 105-54), di un’esauriente ‘Bibliografia’ (pp. 155-71) e di un ‘Indice dei nomi e delle cose notevoli’ (pp. 173-81).
Notes
1. La studiosa riprende le riflessioni di M. Bettini ( Antropologia e cultura romana, Roma 1986, pp. 167-78): il rapporto d’amore è in primo luogo scambio di sguardi: Anassarete, che non ha ricambiato lo sguardo di Ifi, innamorato di lui, è punito da Venere con la statuificazione e condannato ad avere per sempre lo sguardo fisso.
2. M. Detienne, Les jardins d’Adonis, Paris 2007 (1972), pp. 17-20.