Nelle loro allucinazioni paraodissiache1 i Coen Bros. ci ricordano come anche per il blues la triodos sia da sempre un luogo infernale e creativo, seminale da certi punti di vista: un incrocio di simboli e credenze che lega Robert Johnson ad Ecate o a Edipo, ai demoni della classicità e alla luciferina trasgressività della musica dei neri. E se il blues è stata la grande madre di tanta musica prima popolare, poi colta e infine di tendenza, l’heavy metal è stato ed è il suo figlio più impuro e perfetto. In quest’ottica il metal si scontorna come un’evoluzione stilistica importante del rock, soprattutto per la capacità di definirne le forme e di creare diramazioni ordinate di generi e sottogeneri che non farebbero invidia ad un canone letterario classico. Distillare, potenziare e ripulire il sound graffiato e sporco del blues e del rock ‘n roll ha condotto il metal verso sonorità per certi versi più vicine ai fraseggi bachiani che ai tormenti musicali di Leadbelly o Howlin’ Wolf, passando per la lezione imprescindibile degli Zeppelin, fino a fare del rock un’erma bifronte della cultura musicale popolare, con uno sguardo proiettato verso tradizioni e stili del passato e un altro gettato verso forme di trasgressione e rottura: How the West Was Won.2 Il rock più evoluto e raffinato, anche a prescindere dall’heavy metal, non poteva dunque sfuggire ad un colloquio intenso con i miti e le atmosfere del mondo antico: oltre a classici come Tales of Brave Ulysses dei Cream (in Disraeli Gears, Reaction 1967), pensiamo ad episodi di rara intensità come Orestes dei Perfect Circle (in Mer de Noms, Virgin 2000) o alle raffinate riletture orfiche di David Sylvian ( Orpheus in Secrets of The Beehive, Virgin 1987) o di Nick Cave ( The Lyre of Orpheus, associato alle penombre di Abattoir Blues, Mute 2004). Sono però senza dubbio le atmosfere dure ed eroiche del metal e dei suoi sottogeneri a costituire il terreno più fertile per la scrittura di interessanti capitoli della storia della fortuna del mondo greco e latino nella musica contemporanea: che i tempi siano maturi perché anche la filologia classica vi presti attenzione è dimostrato dall’uscita di Da Eschilo ai Virgin Steele. Il mito degli Atridi nella musica contemporanea, Dupress, Bologna 2009, di Elena Liverani. Si tratta di un saggio su un doppio concept album di uno dei più celebri e longevi gruppi epic e power metal, i Virgin Steele appunto, costruito sul materiale eschileo relativo alla saga degli Atridi: The House of Atreus. Act I (T&T/Noise Records 1999) e The House of Atreus. Act II (T&T/Noise Records 2000). Il libro è rivolto soprattutto agli specialisti di antichità classica e, in particolar modo, a chi si occupa di fortuna dell’antico nel mondo moderno e contemporaneo. L’autrice, consapevole di addentrarsi in un terreno quasi vergine, comincia, molto opportunamente, con un capitolo in cui illustra la storia dei Virgin Steele e prende in esame la loro produzione discografica, fornendo anche un profilo molto interessante di David DeFeis, leader della band, autore dei testi e di gran parte della musiche. Segue, per i profani, un capitolo introduttivo all’heavy metal, alle sue estetiche e alla sua storia, con attenzione particolare per i temi affrontati nelle canzoni (atmosfere fantasy, esoterismo, satanismo, alienazione sociale, schiavitù delle passioni, morte, cristianesimo, mitologia). La Liverani è molto attenta nell’indirizzare la sua analisi verso una giustificazione degli elementi ideologici più criticati del metal in quanto espressione del disagio sociale da un lato e tensione catartica dall’altro, spesso non priva di tratti autoironici: questo le serve ad avvicinare le canzoni heavy metal ai temi e alla atmosfere tipiche della tragedia greca, anche se spesso lo stile delle liriche appare più conforme a coloriture senecane. L’argomentazione dell’autrice converge poi verso il sottogenere metal che più la interessa: l’epic, ove, dal punto di vista stilistico, è caratterizzante l’uso massiccio delle tastiere, spesso viste con sospetto dai fans degli altri sottogeneri. Qui il punto di vista con cui vengono trattate le storie ricavate dal patrimonio letterario e mitografico tradizionale è molto particolare: c’è infatti un accento chiaro e deciso sui temi della lealtà guerriera, sugli aspetti più eroici e sanguinari delle battaglie, sulla spietatezza con cui si uccide il nemico, sull’orgoglio del combattente e sulla sua dedizione all’onore anche di fronte ad una morte orribile e violentissima. Come si accennava all’inizio, eroi, vicende e temi del mondo greco e romano hanno spesso fatto la loro comparsa nelle liriche di musicisti rock come strumenti narrativi per affrontare temi anche poeticamente rilevanti, ma nel metal essi sembrano diventare il motore per una rilettura assai particolare e fuori dagli schemi, seppur attenta, a suo modo, ai testi originali.3 E’ questo il terreno in cui affondano le radici i Virgin Steele, sin dagli esordi alle prese con dei e demoni terribili, con battaglie sanguinose e piene di eroi indefessi, con atmosfere cupe e corrusche, condite da quelle evoluzioni funamboliche delle tastiere di DeFeis che si stampano sull’epic come un marchio di fabbrica: la Liverani è molto precisa nel definire il rapporto esatto fra le architetture musicali immaginate dal gruppo e le scelte lessicali nei testi. Si può però dire che il libro entri nel vivo solamente a partire dal terzo capitolo (p. 33), intitolato Orestea: da Eschilo a DeFeis. Qui l’autrice dimostra che ogni canzone dei Virgin Steele è una specie di episodio tragico in nuce, con tanto di commenti corali esterni e dialoghi fra personaggi, come, ad esempio, in Great Sword of Flame, che vede Clitennestra ‘dialogare’ in musica con Egisto; inoltre tenta spesso un paragone fra le parti in cui si articolava la tragedia attica e la strutturazione del concept e delle singole canzoni, ma l’analisi sembra qualche volta un po’ forzata, perché ci sono troppi passaggi culturali fra testo di partenza e testo di arrivo, che finiscono per sfumare fortemente anche l’approccio diretto dei Virgin Steele al testo eschileo (sarebbe molto interessante valutare l’impatto — in quanto mediatore culturale — della traduzione inglese usata da DeFeis, qualora fosse possibile identificarla). Le parti monologiche e commatiche sono ovviamente meglio raffrontabili: un kommos è perfettamente plausibile nell’ottica di una canzone, ove forti accenti patetici sono legittimamente di casa. Abbiamo già detto che, per ragioni fin troppo ovvie, non sono per nulla comparabili la struttura narrativa della tragedia e quella del concept album; tuttavia la Liverani fa notare che qualche traccia è riscontrabile, se è vero che, come la tragedia, The House of Atreus ha un prologo ed un epilogo e, sottolineerei io, è un’opera divisa in due parti che, parateatralmente, vengono chiamati Acts. Bisogna però dire che la forma canzone riprende e approfondisce il mito soprattutto per allusioni che implicano un confronto da parte dell’ascoltatore con uno sviluppo narrativo che egli deve già possedere o che gli può essere fornito dalle le note esplicative che DeFeis inserisce nei booklets che accompagnano i dischi. La distanza dall’opera rock e da una dimensione teatrale (recuperata in futuro, come sappiamo, grazie al lavoro con Walter Weyers) è poi ulteriormente marcata dalla scelta del frontman di interpretare da solo tutte le canzoni e quindi anche tutti i personaggi che in esse si trovano ad agire esprimendosi in prima persona. Lo sviluppo dei personaggi è abbastanza coerente con il modello antico, con qualche interessante eccezione: l’Oreste dei Virgin Steele, ben diversamente da quello eschileo, sarà più tormentato e psicologicamente complesso, incapace di accettare giudizi, anche assolutori, che non vengano dalla propria coscienza e quindi incamminato verso scelte ben più estreme rispetto a quelle che gli vengono ascritte dal mito greco. La Liverani cerca di motivare questa e altre scelte innovative di DeFeis e centra, credo, il bersaglio quando mostra come l’artista abbia lavorato sul personaggio di Oreste trasportando il suo dramma negli schemi culturali e nella psicologia dell’uomo a noi contemporaneo.4
Il quarto capitolo è un’attenta analisi della distribuzione delle parti fra i personaggi che DeFeis ha conservato rispetto alla trilogia eschilea, secondo una metodologia puramente comparativa. Appare evidente che le scelte di costruzione della scaletta dei brani sono dettate dall’estetica dell’epic metal, che, ‘traducendo’ in musica rock l’ Orestea, ne rimodella anche le forme del contenuto, per mettere in primo piano elementi forti come la ferocia della battaglia a Troia e la violenta fierezza di Agamennone vincitore, rispetto alla più oscura e inquietante vicenda del suo drammatico ritorno in patria, non trascurato, ma riletto fra le luci e le ombre della furia guerriera dell’eroe. In particolare, come emerge dalle pagine della Liverani, il destino di Agamennone è segnato anche dalle conseguenze ineluttabili della sua hybris, preannunziata nei toni musicalmente potenti del brano d’esordio Kingdom of the Fearless. A partire però da Blaze of Victory, dal ritmo più calmo (e più declamata che cantata da DeFeis), i Virgin Steele cominciano a seguire più da vicino il testo eschileo. Interessante è lo studio sulle parti affidate al Coro, che vengono elaborate in modo veramente originale da DeFeis, riprendendo tratti del testo eschileo, ma mutandone la funzionalità in strofe di sostegno alle parole dei singoli personaggi: unica eccezione la cupa, ominosa e marziale And Hecate Smiled, tutta affidata al coro degli anziani.
Dopo l’analisi comparativa fra il testo eschileo e la caratterizzazione dei personaggi, la Liverani inserisce un capitolo di riflessione sulle riscritture dell’ Orestea nelle epoche successive, con particolare attenzione per un confronto con la traduzione scenica realizzata da Pasolini per il teatro di Siracusa nel 1960.5
Le pagine più lucide e convincenti sono però quelle delle Conclusioni, dove l’autrice, utilizzando molto l’intervista da lei realizzata con DeFeis e riportata integralmente in appendice al libro, ci mostra come il frontman dei Virgin Steele abbia inteso risemantizzare il materiale mitologico eschileo e uno dei suoi temi più potenti, la maledizione ineludibile del sangue, per una riflessione artistica molto ampia sulle colpe degli uomini che da sempre si abbandonano alla furia della guerra (nel ’99, l’anno di uscita della prima parte dell’opera, esplodeva la situazione nella ex-Jugoslavia e nel 2007, anno dell’intervista rilasciata alla Liverani, DeFeis considerava ancora The House of Atreus uno strumento valido per una lettura della guerra in Iraq). Credo che non si possano non condividere le considerazioni finali della studiosa, soprattutto tenendo conto del portato propulsivo dell’ Orestea nel produrre, anche in ambiti diversi, opere di pregnante riflessione sulla nostra storia e sulla nostra cultura: pensiamo solo al dialogo fitto con Eschilo di Ismail Kadaré per parlare della sua Albania sia nel bellissimo saggio/racconto Eschyle ou le Grand Perdant (Paris 1988) sia in opere narrative come La Fille d’Agamemnon (Paris 2003) o il fondamentale Avril brisé (Paris 1982), all’esperienza unica di Pier Paolo Pasolini negli Appunti per un’Orestiade africana (Italia 1970), ove il mito antico diventa una chiave di lettura filmica della storia dell’Africa contemporanea, al cupo affresco cinematografico su un’ Orestea ambientata tra le spire della camorra in Luna rossa di Antonio Capuano (Italia 2001).
Il libro di Elena Liverani è importante, non solo come tappa originale nell’indagine sulla fortuna dell’ Orestea, ma anche e soprattutto per aver intrapreso in modo serio un filone di ricerca assolutamente nuovo e stimolante. Veramente notevoli sono gli apparati bibliografico, sitografico, filmografico e discografico.
Notes
1. O Brother Where Art Thou?, USA 2000.
2. How the West Was Won, oltre ad essere il titolo del grande epos western di John Ford, Henry Hathaway, George Marshall e Richard Thorpe (USA 1962), è anche il nome di un album triplo dei Led Zeppelin, uscito nel 2003 per la Atlantic, ma contenente registrazioni inedite da una serie di strepitosi concerti tenuti dalla band in America nel 1972, una specie di manuale della transizione dal blues all’hard ‘n heavy.
3. Da questo punto di vista sono pionieristici gli studi di Eleonora Cavallini (non a caso prefatrice del volume della Liverani), la quale si è occupata della rivisitazione della figura di Achille nel metal, con particolare attenzione per la produzione dei Manowar, ma partendo — guarda caso — dal vecchio Zimmie ( Mythimedia).
4. Lo stesso DeFeis dichiara alla Liverani: “He is forgiven by everyone else, but he can’t forgive himself” (p. 152).
5. Incomprensibile quanto riportato dalla Liverani a p. 130: “la più blasonata Orestiade pasoliniana (1960, Urbino)”. Sulle vicende della travagliata traduzione di Pasolini per Gassman vedi il lavoro di Monica Centanni e Margherita Rubino, “Gassman, Pasolini e i filologi” ( Engramma).