Il volume, ampliamento delle ricerche condotte per il conseguimento del dottorato dall’Autrice, rientra nella Collana Scientifica, edita dall’Università di Cassino. Lo studio si inserisce all’interno del progetto internazionale di ricerca sulle Declamazioni maggiori pseudo-quintilianee, diretto dal prof. Antonio Stramaglia, del Dipartimento di filologia e storia dell’Università di Cassino. Il volume offre testo critico, traduzione e commento delle Declamazioni maggiori 14 e 15, con il corredo di un’ottima introduzione e di un cospicuo commento. L’esposizione chiara ed efficace persegue l’intento di raggiungere un pubblico che non sia soltanto quello degli specialisti. Sotto la direzione di Stramaglia, nella Collana Scientifica, sono state pubblicate negli ultimi anni edizioni commentate di altre Declamazioni Maggiori, pseudo-quintilianee: A. Stramaglia, [Quintiliano], I gemelli malati: un caso di vivisezione, (Declamazioni maggiori, 8), Cassino 1999; id.,[Quintiliano], La città che si cibò dei suoi cadaveri, (Declamazioni maggiori, 12), Cassino 2002; C. Schneider, [Quintilien], Le soldat de Marius (Grandes Déclamations, 3), Cassino 2004; G. Krapinger, [Quintilian], Die Bienen des armen Mannes (Grössere Deklamationen, 13), Cassino, 2005; id., [Quintilian], Der Gladiator (Grössere Deklamationen, 9), Cassino 2007.
Già Ulrico di Bamberg, contemporaneo di Giovanni di Salisbury (XII sec.), consigliava ai discenti di leggere, nel campo della retorica, insieme al trattato Ad Herennium e al ciceroniano De Oratore, anche le causas Quintiliani, una serie di Declamazioni, suddivise in maiores e minores, in realtà non ascrivibili al retore spagnolo, ma tramandate sotto il suo nome. Le due declamazioni sono strutturate in base allo stesso schema e presentano la classica quadripartizione del discorso: exordium, narratio, argumentatio, peroratio.
La declamazione 14 è il discorso di un giovane, che accusa la meretrice che amava di veneficio, dal momento che la donna gli ha propinato una pozione dell’odio. Quest’ultima ha sconvolto la vita del giovane compromettendone le future relazioni sentimentali. Nell’ exordium (1, 1- 2, 4) il giovane accusatore espone ai giudici la gravità della situazione in cui versa a causa dell’ odii potio. Nella narratio (2, 5 — 4, 4) il giovane racconta le vicende che lo hanno indotto ad essere sedotto dalla donna e ricostruisce il momento della somministrazione del veleno. Nell’ argumentatio (5, 1 — 9, 8) scredita l’attendibilità dell’imputata e confuta le possibili obiezioni. Nella peroratio (10, 1- 12, 5) il giovane ribadisce il potere devastante della pozione che ha distrutto la sua esistenza felice. La declamazione 15 è il discorso di difesa dell’avvocato della meretrice, che ha, sì, fatto ingerire al giovane la pozione dell’odio, ma per troncare la loro relazione sentimentale, dannosa per entrambi. Nell’ exordium (1, 1—4) l’avvocato difensore qualifica l’azione dell’assistita come beneficium; nella narratio (2, 1 – 3, 7) si analizzano i precedenti comportamenti del giovane e la necessità della somministrazione della potio. Nell’ argumentatio (4, 1 — 13, 6) l’avvocato ribadisce che non si tratta di veneficio e qualifica come magnanima l’azione della meretrice. La peroratio (14, 1-7) contiene l’esortazione all’imputata perché assuma la propria difesa e l’invocazione agli dei perché concedano la vendetta sull’accusatore. Si tratta di uno dei pochi esempi antichi di antilogie, ossia di discorsi giudiziari su uno stesso tema sviluppati prima in favore di una parte, poi dell’altra.
L’Introduzione (pp. 9-45), oltre ad affrontare le spinose questioni della datazione e paternità delle declamazioni, è uno dei punti di forza del volume poiché fornisce un interessante quadro sulla frequenza e sulle attestazioni letterarie di siffatte pratiche magiche nel mondo antico, sulle influenze letterarie e sul reato di veneficio. Nell’antichità era frequente il ricorso a riti magici destinati a produrre effetti nocivi sugli avversari, con formule di maledizione e pozioni, nel campo erotico, atletico, commerciale, giudiziario. In ambito amoroso si ricorreva spesso all’incantesimo vincolante, quando due rivali si contendevano la stessa persona (un esempio è la defixio 1 del IV a. C. rinvenuta a Nemea, che contiene riferimenti alle parti del corpo dell’amato di cui si desidera l’allontanamento). Tra gli incantesimi più famosi di separazione nella tradizione letteraria antica le parole ingannatrici con cui Didone, nell’ Eneide, spiega alla sorella di voler compiere un rito magico per liberare il suo animo dall’ amor che prova per Enea. Anche Properzio, ad es., nell’elegia I, 12, attribuisce la sua separazione da Cinzia sia all’ostilità di un dio sia ad una pozione. In ambito greco Luciano ( Dialoghi delle cortigiane, 4, 5) descrive un incantesimo per l’odio con cui la cortigiana Bacchide potrà avvincere a sé il giovane che ama e respingere i tentativi di una rivale di sottrarglielo.
La Longo fornisce un dettagliato excursus sul crimine oggetto della contesa giudiziaria. Il reato di veneficium fu molto diffuso nella storia romana. Livio documenta il primo caso nel 331 a. C., per il quale furono condotte in giudizio alcune matrone accusate di tramare una congiura, grazie ai loro veleni, contro l’ Urbs. La presenza di questo reato è ancora più diffusa nella tarda repubblica e in età imperiale. Cicerone, nel discorso In difesa di Celio, accusa Clodia di aver tentato di avvelenare Celio e insiste sulla responsabilità di chi prepara il veleno. Anche Seneca il Vecchio, Giovenale, Tacito, Svetonio riferiscono numerosi casi di veneficium. Quintiliano2 fa riferimento più volte al reato di veneficium, convinto che il futuro oratore debba ricevere insegnamenti utili per fronteggiare anche un tal genere di processi.
La disposizione legislativa di riferimento è la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis che, emanata in età sillana, regolamentava anche i casi di omicidio compiuto per mezzo di sostanze venefiche. La norma, probabilmente, puniva non solo la somministrazione di veleni e di sostanze che causassero accidentalmente la morte, ma anche quella di sostanze diverse, propinate senza l’intento di uccidere. Nella causa in questione il giovane accusatore insiste sul concetto che qualunque sostanza propinata contro la volontà di chi la riceve è veleno. La difesa indaga sulla natura del veleno giungendo alla conclusione che un avvelenamento richiede un cadavere o un corpo prossimo alla morte.
In un interessante paragrafo, L’eredità letteraria (pp. 27-35), l’autrice mette in luce la cospicua ripresa, nelle declamazioni, di topoi e lessemi del lessico erotico. L’amante, indossando quasi le vesti del poeta elegiaco, si definisce miser, credulus, securus, afferma di essere stato abbandonato per la sua povertà (uno dei topoi della poesia erotica è appunto la povertà dell’amante, rivale in amore del dives). Il furor amatorius è descritto con i suoi sintomi, come uno squilibrio psichico. Furor, da termine medico, entra nel lessico amoroso. La prostituta è descritta come avida e spietata nel discorso d’accusa, come onesta e generosa nel discorso di difesa: entrambe le immagini hanno precedenti nel linguaggio comico. Dalla lettura emerge, quindi, una stratigrafia di tradizioni letterarie.
Per quanto riguarda la datazione gli studiosi collocano le Declamazioni maggiori 14 e 15 tra l’inizio del II sec. d. C. e la fine del III sec. d. C.. La studiosa, sulla base di argomentazioni linguistiche, suggerisce di assegnare le due declamazioni al III d. C., dal momento che nei discorsi compaiono usi morfologici e lessicali che hanno i loro termini di riferimento in Apuleio e Minucio Felice; le declamazioni, inoltre, sono un riflesso dell’intenso dibattito che si svolse nel III sec. d. C. tra i giuristi riguardo alle cause di veneficio. Altri due problemi importanti sono la paternità unica per i due discorsi e la priorità relativa di composizione tra le declamazioni 14 e 15. Reitzenstein3 e Deratani4 ritengono, sulla base di confronti puntuali tra i due discorsi, che vi sia una dipendenza della 14 dalla 15. La Longo, tuttavia concorda con la Hömke5 nel ritenere insufficienti le prove addotte dai due studiosi poiché è l’impiego dei medesimi topoi che dà ragione del medesimo impiego lessicale. Le discrepanze riscontrabili tra i due testi escludono, tuttavia, a parere della studiosa, che l’autore possa essere lo stesso. L’autore della Declamazione 14 mostra una certa abilità argomentativa, laddove il discorso di difesa ha un’organizzazione e una capacità persuasiva notevolmente inferiori.
La traduzione è estremamente precisa e le note di commento, puntuali e rigorose, particolarmente attente a problemi di carattere testuale, contengono anche rigorose notazioni linguistiche e denotano attenzione puntigliosa nel cogliere i riferimenti alla tradizione erotica latina e nell’analisi del lessico giuridico. Segnalo, nelle note di commento alla Declamazione 14, l’attenzione dedicata alla spiegazione di termini che hanno una lunga storia nell’elegia latina come miser (n. 12 p. 74), insanabilis (n. 24 p. 80), contentus (n. 27 p. 82), e all’analisi della locuzione costruita con nox e verbi come dare, concedere, poscere (n. 77 p. 103); apprezzabile l’acribia con cui sono illustrati i valori semantici di ardor, aestus (n. 40 p. 87) e di carmen (n. 41 p. 88); accurate sono le note dedicate a lemmi del linguaggio giudiziario, come contentio (n. 12 p. 74) queror (n. 61 p. 96), la locutio veneficii ago (n. 48 p. 91) e, nella Declamazione 15, periclitor (n. 10 p. 152), subscriptio (n. 23 p. 157), substantia (n. 72 p 175). Particolare attenzione è riservata a costrutti grammaticali particolari e tipici del latino tardo; ben segnalate, nella Declamazione 14, la costruzione di implico con ad + accusativo (n. 25 p. 80), non altrimenti attestata, e, nel discorso di difesa, quelle di arguo con l’oggetto diretto (n. 29 p. 159), anziché con genitivo o de + ablativo, come nel latino classico, e di deposco con completiva introdotta da ne + congiuntivo, costrutto infrequente e tipico dell’età tarda.
Il volume, corredato di un’utile bibliografia, si presenta estremamente apprezzabile per il rigore con cui è condotto il lavoro filologico e soprattutto per l’accuratezza con la quale le due declamazioni vengono contestualizzate all’interno di una tradizione letteraria che è punto di riferimento imprescindibile.
Notes
1. SEG XXX, 353.
2. IV, 2, 27; V, 7, 37; 9, 11; 10, 25; 13, 30; VII, 2, 25.
3. R. Reitzenstein, Studien zu Quintilianus grösseren Deklamationem, Strassburg 1909.
4. N. Deratani, De rhetorum Romanorum declamationibus. II: Quaestiones ad originem maiorum, quae sub nomine Quintiliani feruntur, declamationum pertinentes,“Revue de philologie, de littérature et d’histoire anciennes”, s. III, 1 (1927), pp. 289-310.
5. N. Hömke, Gesetzt den Fall, ein Geist erscheint. Komposition und Motivik der ps. Quintilianischen Declamationes maiores X, XIV und XV, Heidelberg 2002.