Il libro di K. Clarke (da qui in avanti C.) si prefigge di studiare la costruzione e misurazione del tempo nelle poleis greche tra IV e I secolo a. C.
C. parte da due presupposti: (1) ogni maniera di misurare il tempo corrisponde a una diversa maniera di concepirsi a livello identitario da parte di una comunità di esseri umani; (2) le problematiche connesse con la misurazione del tempo non erano appannaggio di una ristretta cerchia di sapienti, ma erano note a larghi strati della popolazione delle poleis.
Nel cap. 1 C. tratta dei concetti cui ricorrerà nelle pagine successive. C. si sofferma sulle molteplici maniere di articolare e calibrare il tempo nel mondo ellenico, trattando soprattutto della differenza tra tempo naturale (segnato dal succedersi delle stagioni, delle varie età della vita umana, delle generazioni) e tempo culturalmente costruito (segnato per esempio dal ripetersi delle Olimpiadi) (pp. 29-33).
Dopo ciò C. tenta di chiarire quale sia la differenza tra tempo ciclico o calendariale (segnato da ricorrenze ben precise che si ripetono con regolarità) e tempo lineare. Quest’ultimo è visto come un continuum in cui si possono individuare degli eventi-chiave: ogni altro evento viene situato nel tempo a seconda della anteriorità o posteriorità rispetto a tali punti-cardine (la guerra di Troia; il ritorno degli Eraclidi; la Guerra del Peoloponneso; la morte di Alessandro il Macedone ecc.).
Nel cap. 2 C. tratta dei frammenti di cronografia ellenistica inserendoli nel quadro della “culture of scholarly competition which characterized the Hellenistic period” (p. 66). La trattazione delle diverse strategie adottate dagli autori ellenistici interessati alla cronografia inizia con Eratostene di Cirene, considerato erede delle ricerche di Ippia di Elide (p. 65): è con Eratostene che i giochi olimpici divengono il temporal framework cui i cronografi greci ricorrono con più frequenza. Accanto alle Olimpiadi compaiono però nei frammenti di Eratostene altri importanti chronological frameworks : in un frammento si menziona contemporaneamente la caduta di Troia, il ritorno degli Eraclidi, la prima colonizzazione ionica, lo spartano Licurgo e la prima Olimpiade (p. 68).1
Oltre alla Olympiadic structure C. analizza un altro temporal framework, le liste di re o dinasti: si prende in esame il contributo di Apollodoro di Atene, Castore di Rodi e soprattutto il grande contributo che alle nostre conoscenze fornisce Porfirio di Tiro (pp. 73-74).
Infine C. si sofferma su un altro importantissimo temporal framework, vale a dire la lista degli arconti ateniesi (pp. 77-89): C. menziona le testimonianze del P.Oxy. 12, di Castore di Rodi e di Apollodoro (del quale si riporta un interessantissimo frammento relativo alla vita di Aristotele).2
Nel cap. 3 C. si sofferma sulla costruzione e misurazione del tempo nelle storie generali e universali (pp. 167-168). C. si dilunga sulla necessità che gli autori di storie greche affrontarono nel trovare un supra-polis time che permetesse loro di coordinare e sincronizzare gli accadimenti relativi al mondo ellenico tenendo conto delle specifici calendari vigenti a livello locale.
C. affronta la discussione in merito alle soluzioni e alle strategie adottate da Tucidide ed Eforo nel porre rimedio a una aporia già notata dallo stesso Tucidide, cioè a dire la reciproca incompatibilità dei calendari cittadini basati sulle magistrature locali. Nel caso di Eforo si affronta altresì la complessa questione del rapporto tra spatium mythicum e spatium historicum (pp. 92-94).3
La soluzione accolta dalla storiografia greca a partire dal IV sec. fu quella proposta da Eratostene di Cirene (e adottata in sede storiografica da Timeo di Tauromenion), ovvero il ricorso al sistema olimpico che, grazie alla regolare ricorrenza quadriennale di un evento panellenico, forniva un chronological framework entro cui collocare i singoli accadimenti e grazie al quale sincronizzarli (pp. 109-121). Tale strategia venne recepita da Polibio e Diodoro e, in minor misura, da Strabone.
Infine C. tratta dei sistemi cronologici non-greci cui fanno riferimento le nostre fonti trattando di realtà diverse dal mondo ellenico. Nei testi greci relativi a Babilonia, Fenicia e soprattutto Egitto appare evidente il grande interesse per le problematiche di cronografia. A ciò corrisponde il ricorso a key-events estranei alla cultura greca: eventi naturali; personaggi storici non-greci; liste regali locali.
Nel cap. 4 C. affronta la discussione sul rapporto tra storiografia locale e storiografia generale. In particolare C. parte da una discussione sulle tesi contenute nell’ Atthis di F. Jacoby.4 Le ricerche condotte da Jacoby sulla storia locale attica ebbero grande importanza nel collocare le storie cittadine nel contesto dello sviluppo della grande storiografia greca tra V e IV sec. a. C. secondo una concezione per cui dalle storie generali sarebbero derivate le storie particolari delle singole poleis. Oltre a ciò, sempre partendo dalle tesi di Jacoby, C. si dilunga sul rapporto, assai difficile da definire, tra storiografia locale e letteratura antiquaria.
Accanto al contributo di Jacoby, C. passa in rassegna le opinioni che sul rapporto tra grande storia, storia locale e antiquaria furono espresse nel corso del secolo scorso, a partire dalle lezioni tenute a Oxford da U. von Wilamowitz-Moellendorff (1908) fino agli studi di G. Schepens (pp. 175-193).
In definitiva secondo C. la storia locale non era solo un’espressione erudita di orgoglio campanilistico, ma aveva lo scopo di presentare “a polis as an integral part of a wider world” (p. 230). I frammenti esaminati mostrano che gli storici locali miravano a usare “non-polis chronological frames to set the past of each city into a larger chronological context”. Di qui il ricorso a sincronismi tra particolare tempo della polis e generale tempo della Grecia, benché il sistema cronologico olimpico risulti pressoché assente nei frammenti di storia locale esaminati.
Trattando della storiografia locale C. assegna un posto particolare a quella siciliana (Timeo, Filisto, Antioco) che si distinguerebbe per “its claim to be part of the Panhellenic discourse” (p. 242): ciò pone la storiografia siciliana, come notava già Walbank,5 in parallelo al filone degli Hellenikà.
Nel cap. 5 si affronta il modo in cui gli oratori attici di IV secolo presentavano il passato glorioso di Atene. C., partendo dal classico studio di M. Nouhaud,6 volge la propria attenzione a Isocrate, Demostene ed Eschine e a quella sorta di patrimonio storico condiviso da tutti gli abitanti della città attica (pp. 245-251).
La storia di Atene (in genere quella di VI-IV sec., raramente il periodo mitico) poteva fornire agli oratori exempla che non erano soltanto espedienti retorici, ma costituivano una risorsa parenetica, uno strumento con cui convincere il pubblico delle assemblee o dei tribunali. L’oratore diveniva durante la sua performance drammatica una sorta di storico che rievocava per il suo pubblico i momenti ritenuti più salienti o più utili da rammentare nella storia attica. Ciò avveniva sia in discorsi ufficiali come gli epitaphioi logoi, sia nella oratoria assembleare, sia in quella giudiziaria, sia infine nelle orazioni pamphlettistiche di Isocrate. C. analizza anche le forzature che gli oratori potevano operare sui dati storici.
Nel cap. 6 C. affronta il rapporto tra la polis e la sua storia e l’uso politico e / o diplomatico che una città poteva fare del proprio passato. C. si sofferma sui due casi celebri della cosiddetta Cronaca di Atena Lindia e del Marmor Parium. Ciò porta inevitabilmente C. a interrogarsi sul ruolo dello storico nelle poleis : divenuto un professionista incaricato di raccontare pubblicamente il passato delle città, lo storico perde contatto con la propria polis d’origine e diviene una figura itinerante. Sulla sua importanza sociale ci sono varie testimonianze epigrafiche analizzate nel dettaglio da C. anche nel contesto dell’avanzata di Roma nel Mediterraneo orientale.
Sulla base di tutti questi elementi C. ritiene che la storiografia locale ellenistica promuovesse, grazie al ricorso alla memoria storica, l’immagine della polis e che, lungi dall’essere soltanto il prodotto di ricerche erudite, partecipasse alla scena politica.
Fin qui si è visto il contenuto del libro di C.. Consideriamo ora brevemente alcuni aspetti del volume che, a diverso livello, sono criticabili:
(1) Anzitutto si avverte una non perfetta integrazione, quasi uno stacco, tra la prima parte del libro (capp. 1-3), dedicata alla costruzione e misurazione del tempo nelle poleis e nei trattati di cronografia tra IV e I secolo, e la seconda parte (capp. 4-6), dove si affronta il rapporto tra grande storia e storia locale, il rapporto tra quest’ultima e la letteratura antiquaria ed erudita, l’importanza della storia per l’auto-rappresentazione delle poleis e il ruolo sociale che gli storici ricoprivano nella vita cittadina.
(2) C. fa riferimento più volte nel corso della sua opera alla specificità della storiografia siciliana, tendente a una prospettiva non strettamente localistica. Si tratta di osservazioni condivisibili, anche se forse è eccessivo il rilievo dato solo a una delle spiegazioni possibili, quella secondo cui gli storici siciliani avrebbero mirato a ribadire la piena appartenenza della Sicilia al mondo culturale greco. Piuttosto sarebbe stato bene sottolineare che la tendenza ad andare oltre i limiti della storiografia locale per giungere a una prospettiva più ampia non è propria solo della storiografia e degli storici siciliani: anche la storiografia rodia, in particolare il filone delle Chronikai syntaxeis, pare porsi volutamente nell’ampio quadro della storia politica del Mediterraneo orientale e sottolineare così il ruolo di potenza che lo stato rodio ricopriva tra III e II secolo. In verità C. si mostra consapevole in una nota del caso rodio e fa anche riferimento a un importante studio di P. Funke del 1994 (p. 243 nt. 324); lo fa però senza sviluppare adeguatamente il parallelo tra storiografia siciliana e storiografia rodia e senza mettere a frutto le recenti ricerche sulla storiografia rodia, in specie quelle di Wiemer.7
(3) Infine alcune brevi notazioni su singoli punti del volume:
(3-a) al cap. 4 C. fa riferimento all’opera di Zenone di Rodi definendola un trattato di cronografia e “not a work of local history” (p. 227). In realtà l’opera di Zenone, anche se intitolata Chronikai syntaxeis e strutturata secondo un criterio annalistico, era in realtà un’opera di storia locale con caratteristiche di storia generale: si veda in proposito la definizione di entopios historia fornita da Diogene Laerzio8 e le ricerche di Funke e Wiemer menzionate prima;
(3-b) nell’ultima pagina del cap. 6 C. trattando della valenza politica della storiografia locale, afferma di dissentire su questo punto da E. Gabba e ne riferisce le parole in merito all’attenuarsi di ogni “political element” nella storiografia ellenistica (p. 369).9 In verità Gabba (che altrove, in studi divenuti imprescindibili, si mostra consapevole della valenza politica della storiografia locale)10 inseriva tale affermazione nel contesto di una discussione sui moduli storiografici: Gabba si soffermava non sulla totale scomparsa di qualsiasi risonanza politica nella storia locale di epoca ellenistica, bensì sulla progressiva emersione in epoca ellenistica, dietro la spinta di nuovi interessi e pulsioni culturali, di modelli storiografici che erano alternativi a quello di matrice tucididea (e polibiana) e non erano più incentrati su una narrazione pragmatica e direttamente politica;
(3-c) trattando delle liste regali fornite da Porfirio (pp. 75-77), C., in relazione al periodo successivo ad Alessandro Magno, sembra distinguere—o perlomeno non è sufficientemente chiara da evitarlo—tra re greci e macedoni (Argeadi e Antigonidi) da una parte e re non-greci (d’Egitto o Siria) dall’altra. Si tratta di una distinzione inadeguata, giacché è largamente noto che i sovrani tolemaici e quelli seleucidici si consideravano (e venivano considerati dalle popolazioni epicoriche) come greci. Inoltre è noto che in particolare i sovrani seleucidici regnanti in Siria vennero ritenuti, dopo la provincializzazione del loro regno, semplicemente come Macedoni, come mostra l’abbondantissimo materiale raccolto nel classico studio di C. F. Edson;11
(3-d) chi scrive questa recensione ha rilevato delle mancanze bibliografiche, alcune delle quali sono notevoli in uno studio che, a partire dall’esame delle problematiche cronografiche punta ad affrontare le differenze e i punti di contatto tra storia locale e storia generale: S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I-II (1-2), Bari 1962-1966; W. Leschhorn, Antike Ären. Zeitrechnung, Politik und Geschichte im Schwarzmeerraum und in Kleinasien nördlich des Tauros, Stuttgart 1993; L. Porciani, Prime forme della storiografia greca. Prospettiva locale e generale nella narrazione storica, Stuttgart 2001;
(3-e) per maggiore chiarezza sarebbe stato meglio, nel citare i frammenti storici della raccolta di Jacoby, esplicitare in nota non solo la numerazione dei Fragmente, ma anche il nome dell’autore. Inoltre nell’indice dei passi discussi posto in fondo al volume può creare confusione la scelta di distinguere tra literary texts, inscriptions, papyri e fragmentary texts. Questi ultimi sono tutti i frammenti raccolti da Jacoby menzionati nel testo: essi sono distinti dalle fonti letterarie (Polibio, Strabone ecc.) e sono ordinati non alfabeticamente, ma secondo la numerazione dei Fragmente. In particolare andava forse evitata la distinzione, a mio avviso fuorviante, tra literary texts e fragmentary texts.
Nel complesso il libro di C. è un ottimo strumento per comprendere le problematiche connesse con la costruzione e la misurazione del tempo all’interno della polis. Si tratta di un’opera che nella prima parte (capp. 1-3) chiarisce quale fosse l’importanza della cronografia in ambito cittadino in quanto mezzo per esprimere l’identità della polis. Nel contempo C., con equilibrio e soretta da una buona conoscenza delle fonti antiche, intende mettere in luce le strategie adottate dagli storici (dal V al I sec. a. C.) nel costruire e strutturare il tempo (presente e passato) in cui collocare gli eventi storici narrati.
Nella seconda parte (capp. 4-6) si procede con l’analisi dettagliata della storia locale e dei suoi rapporti con la grande storia. Oltre a ciò C. tenta di delineare le relazioni tra tale genere storiografico e la letteratura antiquaria ed erudita di età ellenistica e tardorepubblicana discutendo con competenza le tesi che sull’argomento sono state espresse nel corso dell’ultimo secolo.
In particolare C. riesce a tratteggiare, nell’ultimo capitolo, un vivido e preciso quadro del posto che la storia locale aveva nella società delle poleis, evidenziando, grazie a un accurato esame delle fonti epigrafiche disponibili, il ruolo ricoperto dalla figura dello storico itinerante nel mondo delle città greche.
Nel complesso si tratta di un contributo utilissimo che partendo dalla misurazione del tempo nelle poleis arriva a fornire un quadro dettagliato e originale sulla storiografia locale tra IV e I secolo.
Notes
1. Eratostene, FGrHist 241 F 1.
2. P.Oxy. 12 = FGrHist 255 F 1, 4; Apollodoro, FGrHist 244 F 38.
3. Tucidide V, 20.
4. F. Jacoby, Atthis. The Local Chronicles of Ancient Athens, Oxford 1949.
5. F. W. Walbank, “Timaeus’ Views on the Past”, in Idem, Polybius, Rome and the Hellenistic World. Essays and Reflections, Cambridge 2002, pp. 165-177.
6. M. Nouhaud, L’utilisation de l’histoire par les orateurs attiques, Paris 1982.
7. P. Funke, ”
8. Diogene Laerzio VII, 35 = Zenone, FGrHist 523 T 1.
9. L’affermazione di E. Gabba è tratta da “True History and False History in Classical Antiquity”, JRS 71 (1981), pp. 50-62: 52.
10. Cfr. E. Gabba, “Storiografia greca e imperialismo romano (III-I secolo a. C.)”, RSI 86 (1974), pp. 625-642 e Idem, “Sulla valorizzazione politica della leggenda delle origini troiane di Roma (III-II secolo a. C.)”, in M. Sordi (ed.), I canali della propaganda nel mondo antico, Milano 1976, pp. 84-101.
11. C. F. Edson, “Imperium Macedonicum: The Seleucid Empire and the Literary Evidence”, CPh 53, pp. 153-170.