BMCR 2007.11.10

Per i Convivia Mediolanensia di Francesco Filelfo Messina: Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici. Quaderni di Filologia medievale e umanistica, 11

, Per i Convivia mediolanensia di Francesco Filelfo. Quaderni di filologia medievale e umanistica ; 11. Messina: Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2005. 145 pages, xv pages of plates : illustrations ; 22 cm.. ISBN 8887541256. €25.00.

Il volume che Daniela Gionta (= G.) sottopone all’attenzione della comunità scientifica contiene i Prolegomena all’edizione critica dei Convivia Mediolanensia di Francesco Filelfo, che la studiosa ha in preparazione e che comparirà presso il medesimo editore nella collana “Biblioteca umanistica”. I Convivia filelfiani, che ebbero una circolazione manoscritta (19 codici fra XV e XVIII secolo) e a stampa (tra gli anni Ottanta del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento), non erano mai stati studiati a fondo né per quanto concerne la loro trasmissione, né per ciò che riguarda la loro valutazione sul piano letterario e il loro significato nella politica culturale del primo umanesimo. Lo studio della G., dunque, viene incontro a un desideratum della filologia umanistica e lo soddisfa assai brillantemente.

Il libro si compone di due parti distine e sostanzialmente autonome, pur con le ovvie relazioni che riguardano la circolazione dell’opera filelfiana. Nella prima (pp. 7-72, Il manifesto della nuova cultura) G. affronta tutte le questioni relative alla datazione, al titolo, alla struttura, al contesto storico-culturale, alle fonti dei Convivia filelfiani. Nella seconda (pp. 73-127, La tradizione) la studiosa espone i risultati della recensio e dell’ eliminatio codicum descriptorum, ponendo le basi documentarie su cui fondare la futura edizione critica. Completano il volume un corpus di 15 tavole, quasi tutte di buona qualità e una serie di indici compilati con acribia: un indice delle tavole, un indice delle fonti manoscritte e un indice dei nomi, che comprende, senza distinzione, i nomi antichi, quelli medievali e moderni, nonché quelli degli studiosi citati.

Nella prima parte la studiosa, grazie a un’intelligente analisi dell’epistola prefatoria di Leonardo Giustinian e di alcuni cenni presenti nelle chiose filelfiane ai Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, riesce a collocare la data di composizione dei due dialoghi che compongono i Convivia fra il 1442 e il 1444; l’epistola di Giustinian, unitamente all’esame della tradizione manoscritta, consente, inoltre, alla studiosa di sgomberare il campo da un equivoco che ebbe una certa fortuna nella tradizione erudita su Filelfo: la presunta esistenza di un’opera autonoma intititolata De quarundam ortu et incremento disciplinarum. Si tratta in realtà del titolo che Filelfo avrebbe dato, secondo Giustinian, al Convivium I, che ebbe anche una circolazione autonoma nella tradizione manoscritta e che, presente anepigrafo nel manoscritto Lat. Add. 361 della John Rylands University Library di Manchester, trasse in inganno Jacopo Filippo Tommasini, autore del catalogo seicentesco della biblioteca patavina. Fra le acquisizioni più importanti raggiunte dalla G. in questa parte del libro si può sottolineare, oltre al vivace e documentatissimo quadro dei rapporti del Filelfo con gli ambienti dotti veneziano e lombardo, anzitutto l’individuazione, in un’opera che spesso dagli studiosi è stata considerata un ammasso farraginoso di erudizione greco-latina, di una meditata struttura corrispondente a una precisa strategia politica e culturale. Dopo il fallimento dell’esperienza ‘democratica’ fiorentina, affacciandosi al nuovo ambiente cortigiano milanese, Filelfo intende presentarsi come campione della nuova cultura, probabilmente in diretta concorrenza con Pier Candido Cecembrio (come suggerisce in maniera convincente G.), autore di un De inventoribus septem artium liberalium, e offre una sorta di summa enciclopedica delle arti liberali (selezionate nell’ambito delle arti del trivio e del quadrivio): da un lato fra le maglie delle discussioni che costituiscono il Convivium I risulta visibile con chiarezza la trattazione di alcuni temi che reggono il filo della trama, quali l’astronomia, la medicina, la musica e la grammatica (alla quale si connette la questione dell’invenzione dell’alfabeto), dall’altro l’esposizione di più ampio respiro del Convivium II verte interamente sulla filosofia, sulla sua invenzione e sulle sette filosofiche. Opportunamente la G. coglie nel De inventoribus decembriano il precedente più vicino ai Convivia filelfiani: la struttura saldamente ancorata alla tradizione tardo-antica e medievale delle arti liberali è, infatti, l’elemento che più chiaramente distingue i dialoghi del Filelfo dai classici greci e latini della letteratura simposiale, come Gellio, Plutarco e Macrobio (si può aggiungere anche Ateneo, autore riscoperto dall’Aurispa).1 Un’ulteriore fecondo risultato delle indagini della G. è, mi pare, l’analisi, condotta con maestria, delle fonti utilizzate da Filelfo e della tecnica con cui il Tolentinate le combina. Ne risulta con evidenza il metodo (filologicamente spesso eccepibile) con cui Filelfo utilizza la propria formidabile erudizione greca (acquisita grazie a una non comune conoscenza dell’idioma ellenico e puntellata dal possesso di una formidabile biblioteca di codici greci) per completare il quadro delle discipline offerto dalle fonti latine (alle quali, per esempio, si era limitato il Decembrio), non soltanto classiche, ma anche medievali (Boezio, Alberto Magno). Notevoli le pagine (rispettivamente 43-46, 67-70) in cui la G. dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio l’utilizzo da parte di Filelfo degli Hieroglyphica di Horapollo e dei materiali di commento alle Epistole paoline composti da Pietro Lombardo.

Nella seconda, più tecnica, parte del volume la G., dopo una tavola delle sigle (p. 75), offre al lettore una descrizione dei 19 manoscritti (pp. 77-93; alle pp. 93-94 la G. fornisce notizie relative a un paio di manoscritti oggi irreperibili), nonché dell’incunabolo e delle Cinquecentine (94-99; a pp. 97-98 la G. getta luce sull’equivoco di un inesistente secondo incunabolo), ed espone i risultati della recensio (pp. 100-127, I modi della trasmissione). I manoscritti superstiti, se si eccettuano due codici legati all’umanesimo tedesco della prima metà del secolo XV e pochi altri di provenienza fiorentina, sono quasi tutti in stretto rapporto con l’avanguardia culturale lombardo-veneta della seconda metà del secolo (p. 78). Novità di rilievo è l’identificazione da parte della G. (pp. 77, 82, tavv. IV-V) della mano di Pagano da Rho, collaboratore del Filelfo negli anni milanesi, nel Laur. Pl. 53, 6, a lungo ritenuto autografo filelfiano (alla mano del Tolentinate sono, comunque, da attribuire alcuni marginalia e l’aggiunta dei Graeca : p. 82 e tav. V). Sgomberato il campo dai codices descripti (pp. 100-101), la G. si concentra sui testimoni primari, distinti in due gruppi: ( a) i 5 manoscritti che tramandano soltanto il Convivium I, cioè Bergamo, Biblioteca Civica, Delta VI 16 (= β Manchester, John Rylands University Library, Lat. Add. 361 (= μ Parma, Biblioteca Palatina, Fondo Parmense 206 (= δ Pavia, Biblioteca Universitaria, Fondo Aldini 395 (= P) e Treviso, Biblioteca Comunale, ms. 57 (= τ( b) i 6 manoscritti che tramandano entrambi i Convivia, cioè Augsburg, Staats-und Stadtbibliothek, 2 Cod. 109 (= γ Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1665 (= ὀ, Firenze, Biblioteca Medicea Laureziana, Plut. 53, 6 (= F2), Firenze, Biblioteca Medicea Laureziana, Plut. 90 sup. 9 (= F3), Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, VIII 19 (= N) e London, British Library, Arundel 5 (= ἀ, ai quali bisogna aggiungere, codicis instar, l’incunabolo (IGI 3881 = E). Grazie a una convincente analisi stemmatica la G. giunge a tracciare uno stemma codicum dal quale emergono interventi e modifiche autoriali, effettuate a più riprese dal Filelfo. Di tali interventi non abbiamo una diretta attestazione autografa (parziale e scarsamente rilevante eccezione è costituita dal Laur. 53, 6), ma le loro tracce (utilmente confrontabili con quanto si può documentare per le Commentationes Florentinae de exilio nel codice Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II II 70: vd. pp. 114-115) sono ravvisabili non soltanto grazie al confronto tra i codici che tramandano il solo Convivium I (primo gruppo = a) e quelli che trasmettono entrambi i Convivia (secondo gruppo = b), ma anche all’interno del secondo gruppo sia grazie all’esame del manoscritto V (il solo codice a tramandare soltanto Convivium II), che rappresenta l’unico testimone superstite della seconda parte della prima redazione dei Convivia (ampia circolazione di questa prima redazione ebbe soltanto il Convivium I), sia attraverso le successive modifiche subite dal perduto idiografo y (padre dell’intero secondo gruppo a eccezione di V), fino alla forma confluita nell’ editio princeps (E) che, con le sue aggiunte, costituisce “il prodotto ultimo di un archetipo in movimento e il testimone cronologicamente più recente, ma non per questo il meno importante. È da essa che bisognerà prendere le mosse per la finale constitutio textus“. Queste le parole, del tutto condivisibili, con cui si chiude il bel libro della G.

Faccio seguire alcune puntuali osservazioni alla prima parte (pp. 7-72). P. 16 n. 2: il Laur. 55, 21 di Senofonte, copiato da Pietro Cretico per conto di Vittorino da Feltre, che lo donò a Sassolo da Prato, è stato studiato da D. Speranzi,2 il quale, oltre alla mano di Francesco Filelfo (già identificata da P. Eleuteri), ha individuato annotazioni della mano di Gian Pietro da Lucca (cioè quello scriba G cui accenna la G. a p. 57 n. 2 con riferimento agli studi di S. Gentile e M. Cortesi). P. 21 n. 1: non mi è chiara la ragione per cui vengono citati i Placita pseudo-plutarchei nella vecchia edizione di H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin 1879, dato che ne esistono due più recenti che, pure non del tutto, la superano: quella di J. Mau, Leipzig 1971 (βτ e quella di G. Lachenaud, Paris 1993 (BL).3 P. 39 n. 1: la traduzione dei Placita pseudo-plutarchei non fu realizzata da Budé tra il 1503 e il 1505, ma verso la fine del 1502 e terminata il 1 gennaio 1503, come risulta dalla dedica a Germain de Ganais, per essere poi pubblicata da Josse Bade il 18 marzo del 1505 o del 1506.4 P. 41 n. 2: il manoscritto filoniano, già noto come di Filelfo grazie all’ ex libris e sul quale S. Gentile ha identificato per la prima volta note autografe del Tolentinate, non è il Laur. Pl. 10, 23, ma il Laur. Pl. 10, 20.5 P. 56: del tutto esatta l’affermazione della G., secondo la quale la ‘paternità’ plutarchea del De musica era assicurata agli umanisti “dall’originaria inclusione dell’operetta nel corpus dei Moralia di Plutarco tramandato da Massimo Planude”; meno chiara mi pare, tuttavia, l’aggiunta “e della ( lege dalla) sua analoga e sucessiva tradizione”. Se, infatti, nell’ambito della tradizione testuale dei Moralia plutarchei tutti i codici dell’opuscolo risalgono all’edizione planudea, non bisogna dimenticare che il De musica ebbe anche una tradizione parallela (che sembra risalire, a quanto sembra, alla medesima fonte dalla quale attinse anche Planude) nei manoscritti dei musici scriptores, dove l’opuscolo poteva circolare anepigrafo (così, p. es. nel Marc. Gr. App. Class. VI 10).6

Ecco, invece, alcune riflessioni sulla seconda parte (pp. 73-127): benché la documentazione proposta da G. avalli pienamente le sue conclusioni stemmatiche, che condivido in toto, non mi trovo del tutto d’accordo sulla presentazione di una parte di questo materiale. Non trovo molto funzionale, p. es., l’utilizzo di sigle con numeri in apice per identificare manoscritti (p. 75), poiché si crea una certa ambiguità con l’usuale tecnica con cui si indicano le stratificazioni diortotiche. Non c’è coerenza tra la spiegazione fornita a p. 75 della sigla ω e l’uso effettivo che ne viene fatto: della sigla si dice che significa consensus codicum, ma nel corso della trattazione essa viene utilizzata nel senso di reliqui codices o ceteri codices (cfr., p. es., pp. 102-103, 107, 110). A p. 75 è opportuno aggiungere all’elenco delle sigle anche quella utilizzata per indicare l’ editio princeps (= ἐ, che viene considerata, giustamente, codicis instar (cfr. pp. 101, 122-123). A pp. 108-109 le tre omissioni comuni ai testimoni della famiglia b causate da omoteleuto non sono in se stesse probanti: è la serialità del fenomeno che conferisce loro un peso stemmatico. A p. 110 la descrizione dei rapporti fra A G e F3 indurrebbe a ritenere che ci sia un rapporto più stretto fra A e G rispetto a F3, ma i dati presentati e lo stemma proposto a p. 111, permettono di capire che le cose stanno diversamente: sono tutti e tre derivati da un comune antigrafo, ma F3 presenta un numero maggiore di innovazioni singolari. Alle pp. 123-127 G. propone una ricostruzione globale della tradizione, sinteticamente rappresentata dallo stemma codicum di p. 126. Lo stemma proposto mi convince totalmente, ma non trovo esplicitato dalla G. nella sua trattazione un dato importante, che ricavo soltanto dagli stemmata tracciati alle pp. 125 e 126: a p. 125 non viene detto apertis verbis che le lezioni della famiglia a che confluiscono in y (l’idiografo perduto in cui si uniscono i due Convivia), non sono caratteristiche di tutta la famiglia a (τ βμπδ ma sono quelle di x1 (modello di BMPD). Ciò significa che le lezioni poziori di T rispetto a BMPD sono del tutto isolate rispetto al resto della tradizione (a pp. 103-104 la G. le presenta come isolate nell’ambito della prima famiglia, senza dire che BMPD condividono la lezione inferiore con il resto dei manoscritti, anche della seconda famiglia). Se questo fatto non viene esplicitato il lettore potrebbe anche ritenere che la confluenza dalla prima famiglia con la seconda (= y) sia avvenuta non all’altezza di x, non di x1 (il che implicherebbe l’eventualità, teoricamente possibile anche se improbabile, che le lezioni buone di T non siano state ereditate da f1 per il tramite di x, ma da una Zwischenstufe copiata da x e corretta dal Filelfo).

Il volume è nel complesso molto ben curato e sono assai pochi gli errori materiali in cui capita di imbattersi.7 Per esempio: p. 16 n. 2 linea 16, dopo “I, 170” bisogna chiudere la parentesi; p. 40 linea 12, in luogo di “e a” leggi “e”; p. 40 n. 3 linea 2, in luogo di “o della” leggi “o la”; p. 46 colonna 1 linea 14, in luogo di ” προς” leggi “” πρὸς“; p. 47 linea 3, in luogo di “avrebba” leggi “avrebbe”; p. 47 linea 13, in luogo di “due” leggi “duo”; p. 63 nota 1 ultima linea, in luogo di ” cultura” leggi ” memoria“; p. 77 linea 1, in luogo di “18” leggi “19”; p. 80 linea 18, in luogo di “Gattametata” leggi “Gattamelata”; p. 96 linea 27, in luogo di ” ante” leggi ” post“; p. 111 linea 15, in luogo di “discendono” leggi “sembrano” (?).

Il libro della G. costuituisce, insomma, un eccellente esempio di alta filologia umanistica, di quella filologia, cioè, che non si limita all’approfondimento delle istanze culturali latine, ma che si apre con profitto allo studio della trasmissione e della circolazione manoscritta dei testi greci; premessa metodologica ineludibile, soprattutto in un caso come quello di Francesco Filelfo, che della propria competenza come grecista fece il proprio punto d’onore. Un libro, quindi, la cui lettura è auspicabile per gli studiosi di filologia classica e umanistica, anche in virtù della lezione di metodo che se ne ricava.

Notes

1. Vd. A. Franceschini, Giovanni Aurispa e la sua biblioteca. Notizie e documenti, Padova 1976, 135-136.

2. Vd. D. Speranzi, ”Codici greci appartenuti a Francesco Filelfo nella biblioteca di Ianos Laskaris”, Segno e testo 3 (2005), 467-496: 475-476 (cfr. anche tav. 2-3).

3. Per una valutazione delle tre edizioni vd. J. Mansfeld – D. T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, vol. I, The Sources, Leiden – New York – Köln 1997, 175-181.

4. Vd. G. Geudet, “État présent des recherches sur Guillaume Budé”, in Actes du VIII congrès de l’Association G. Budé, Paris 1969, 597-626: 604 e n. 4, dove vengono corrette alcune imprecisioni presenti sia nel lavoro di McNeil, citato da G., sia in quello, non menzionato da G., di L. Delaurelle, Guillaume Budé. Les origines, les débuts, les idées maitresses, Paris 1907, χ 75. Delle traduzioni plutarchee di Budé si occupa ora L. A. Sanchi in un articolo che comparirà presso l’editore Honoré Champion negli Atti di un Congresso tenutosi a Tolosa nel maggio del 2005 ( Budé et Plutarque: des traductions de 1505 aux Commentaires de la langue grecque): cfr. L. A. Sanchi, Le Commentaires de la langue grecque de Guillaume Budé, Genève 2006, 11-12 n. 13.

5. Cfr. Speranzi, ”Codici greci appartenuti a Francesco Filelfo nella biblioteca di Ianos Laskaris”, cit., 470 n. 11.

6. Cfr. E. Mioni, Codices Graeci manuscripti Bibliothecae Divi Marci Venetiarum, vol. II, Roma 1960, 13. Sulla tradizione del De musica vd. la chiara sintesi di K. Ziegler nella praefatio alla sua edizione teubneriana (Leipzig 1953), nonché, per i manoscritti musicali, la ricca prefazione all’edizione teubneriana dei musici scriptores graeci di C. Jan (Leipzig 1895).

7. Paradossale è che un recensore debba correggere propri errori grazie alla lettura del libro recensito, ma questo è proprio ciò che mi è accaduto. A p. 49 n. 1 la G. afferma, giustamente, che A. Rollo e S. Gentile hanno indipendentemente identificato marginalia autografi di Filelfo nel Barb. gr. 182 dei Moralia di Plutarco; in S. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione testuale del De tranquillitate animi di Plutarco, Firenze 2006, 7, 10, ho erroneamente riferito la scoperta di A. Rollo (il contributo di S. Gentile mi è sfuggito) all’Urb. gr. 100.