Nato come tesi di dottorato sotto la supervisione di N. Richardson (uno studioso che ha saputo felicemente coniugare, fin dal commento all’inno omerico a Demetra, la prospettiva letteraria e quella storico-religiosa), questo libro d’esordio di Bruno Currie è un’ampia e dotta indagine sul ruolo e la funzione che l’idea o statuto di ‘eroe’ e di culto eroico hanno, esplicitamente o implicitamente, nel mondo di Pindaro.
C. ricorda che l’argomento non ha ricevuto alcuna trattazione sistematica dopo le 28 pagine ad esso dedicate di una dissertazione tedesca del 1865,1 ma le 414 pagine di testo (esclusi indici e bibliografia) del suo libro non intendono offrire un resoconto esaustivo dei culti eroici nelle odi Pindaro quanto la verifica, questa sì puntigliosa e approfondita, di un’ipotesi: se cioè le numerose allusioni al culto eroico nei carmi del poeta tebano possano ricondursi alla prospettiva di onori altrettanto eroici per i destinatari delle singole odi.
Con questo proposito C. ha deciso di analizzare nella seconda parte del libro non più di cinque componimenti (pp. 201-405), mentre la prima intende dar conto dei diversi aspetti e problemi legati al culto eroico nella cultura e nella religione della Grecia arcaica e classica e, a un livello generale e provvisorio, nello stesso Pindaro. Sulla base di una vasta documentazione e di una sicura capacità di confrontarsi con diverse impostazioni critiche C. si inoltra nell’intreccio di problemi letterari, linguistici, archeologici, storico-religiosi, antiquari che si annodano intorno a questo tema in relazione ai motivi della morte in Pindaro e in Omero, della nozione di hêrôs e di kleos, della eroizzazione dei caduti per la patria e degli atleti nel V secolo a.C.: una densa panoramica da cui emerge con grande evidenza quanto la preoccupazione per la timê in vita e in morte fosse largamente sentita e trovasse espressione nelle più diverse aree del mondo greco in offerte sacrificali, agoni, statue, epigrafi commemorative.
In ambito più specificamente pindarico C. ha senz’altro ragione a negare una netta distinzione fra epinici e thrênoi, tanto più che con un ragionamento pericolosamente circolare una serie di frammenti è stata assegnata ai thrênoi semplicemente perché essi offrono una visione ‘positiva’ della morte.2 Quello che lascia perplessi è invece il fatto che C., pur così attento alla problematica storico-religiosa, accenni solo fugacemente a un’altra, e fondamentale, distinzione: quella tra la fede e il culto collettivo della polis da una parte e le credenze e pratiche misteriche dall’altra (a loro volta suscettibili di differenziazioni interne in relazione ai diversi contesti in cui furono elaborate). C. cita a p. 32 n. 14 il motto orfico “Ora sei morto e ora sei nato” in relazione alla Olimpica 2, ma questa ode non è poi, stranamente, fra quelle da lui analizzate, né i culti misterici trovano altro spazio nella prima parte del volume.3 Analogamente, non interessano a C. i contatti di Pindaro, pur innegabili, con figure di intellettuali come Senofane4 o Parmenide, quest’ultimo a sua volta legato a implicazioni iniziatiche (la via lontana dal cammino degli uomini, l’opposizione fra Essere e Doxa) che, dopo gli studi di Pugliese Carratelli e di altri,5 non possono essere messe in dubbio.
Questo, d’altra parte, è un limite che non intacca la solidità del quadro tracciato da C. nella prima parte del suo libro. Ciò che davvero non convince e che pregiudica l’attendibilità di un contributo pur così ricco di dati e di osservazioni è invece la tesi centrale: l’idea che nelle odi di Pindaro (o almeno in alcune di esse) sia vitale e centrale la preoccupazione per la eroizzazione del laudando e per la prospettiva di un culto postumo in suo onore. Viene da chiedersi, candidamente: se questa idea o preoccupazione era così importante, e così sentita tanto da Pindaro quanto dai suoi committenti e dal suo uditorio, quale ostacolo o inibizione vietava al poeta di esprimerla? Perché questa nozione (una sorta di Grundidee alla Dissen) emergerebbe solo attraverso fili sottili annidati in parallelismi, richiami a distanza, omeometrie e tautometrie e non invece attraverso affermazioni esplicite o, almeno, allusioni trasparenti? Evidentemente è più agevole pensare che questa idea non affiora perché non c’è o non è importante, e non lo è perché ciò che i committenti si aspettavano dai compositori di un epinicio era quasi sempre la lode delle loro benemerenze (sportive, civili, politiche), l’augurio di nuove vittorie, l’attesa di una vita serena per sé e per i loro figli, il favore degli dei, e raramente il loro sguardo si spingeva oltre questo orizzonte.
Ma vediamo in breve come C. si addentri nello studio delle odi scelte come oggetto del suo studio nella seconda parte del libro.
Discutendo nel cap. 10 (pp. 205-225) l’Istmica 7, composta da Pindaro per la vittoria di un atleta tebano (Strepsiade), C. punta l’attenzione non tanto sul laudandus quanto sul suo omonimo zio caduto per la causa tebana. In particolare, si sofferma sul v. 25, dove si dice che “ai valorosi sta di fronte l’onore” e, pur riconoscendo che la frase è ambigua potendo riferirsi sia a un onore secolare per un vivo sia a un culto eroico, sostiene che questa affermazione non può essere limitata ai vivi dal momento che al v. 30 Pindaro aggiunge “da vivo o da morto”. Ma l’alternativa “da vivo o da morto” il poeta la introduce chiamando a testimone chiunque abbia conosciuto la bufera della mischia guerresca incrementando la gloria alla stirpe dei cittadini. Non si capisce come nella frase astôn geneai megiston kleos auxôn (v. 29) C. possa separare astôn da geneai e intendere “he increases to the utmost the repute of his family among the citizens” (a p. 207 n. 14, C. rimanda per la sua esegesi a sch. 37a, che però chiosa astn con para astn, intendendo che costui incrementa la fama di cui la sua famiglia potrà godere da parte della comunità cittadina, cioè la sua pubblica fama). In realtà a v. 29 s. si parla di un onore che coincide appunto con la fama che dal singolo si espande all’intera collettività. È vero che il valore di Strepsiade zio è assimilato subito dopo a quello di Meleagro, di Ettore, di Anfiarao, ma questi eroi sono chiamati in causa non in quanto oggetto di un culto eroico ma perché caddero combattendo in prima fila per la patria. Invece per C. anche Strepsiade nipote sarebbe coinvolto nella prospettiva di futuri onori eroici sulla base di un presunto parallelismo fra il suo successo sportivo e l’ardimento dello zio. Ma il percorso dell’ode sfocia nella sottolineatura dei limiti dell’uomo in quanto mortale e sull’opportunità di non mirare lontano o troppo in alto, come fece Bellerofonte in groppa a Pegaso: il futuro a cui il testo si apre non è un culto eroico quanto, più modestamente, un successo sportivo a Delfi (vv. 48-51).
L’ampia analisi della Pitica 5, composta per Arcesilao IV di Cirene (cap. 11: pp. 226-257), si apre con la ripresa della vecchia tesi, che sembra risalire K.O. Müller (1844), secondo cui l’ode fu eseguita nel corso della festa apollinea delle Carnee, alla quale indubbiamente rinviano i vv. 79-81. D’altra parte, poiché il testo fa esplicito riferimento al viridario di Afrodite (v. 24) come luogo in cui Arcesilao viene celebrato e poiché, come C. stesso ricorda, questo giardino è da collocare, dopo le ricognizioni sul campo di S. Stucchi, nell’area sacra a nord della città, non lungi dal tempietto arcaico di Afrodite,6 una tale indicazione spaziale non sembra compatibile con una festa che aveva il suo fulcro, come si ricorda a v. 89 ss., nella processione che si snodava attraverso la via sacra lungo una direttrice ovest-est che collegava l’acropoli all’agora, sede della tomba dell’eroe fondatore di Cirene (Batto).7 Poi, dopo essersi preparato il terreno diffondendosi sul culto di Batto e dei Battiadi e sulla sua presumibile ascendenza spartana — un culto a cui in effetti sembrano alludere i v. 98 ss. con l’immagine di questi sovrani defunti che ascoltano con infero cuore il flusso degli inni — C. vorrebbe additarci quello che nel testo non c’è: l’annuncio o l’attesa di un culto eroico per lo stesso Arcesilao, riconoscibile a suo avviso in base alla omeometria fra i v. 15 s. (elogio di Arcesilao) e 97 s. (elogio dei Battiadi) e a una serie di parallelismi fra Arcesilao e lo stesso Batto (entrambi devono la loro fortuna ad Apollo, entrambi sono stati o sono ricchi e fortunati etc.), fino alla conclusione dopo aver messo in campo anche i legami fra Batto e l’auriga Carroto e la rifondazione ad opera di quest’ultimo della città libica di Euesperides, secondo cui “intimation of heroization for Arkesilas plays a fundamental role in Pythian 5”. Peccato che anche questa ode trovi la sua meta nell’augurio di una nuova vittoria (questa volta un successo olimpico) e che questo augurio sia preceduto dalla preghiera che le raffiche dei venti autunnali (allusione ai recenti contrasti con il ribelle Damofilo) non fiacchino ad Arcesilao il tempo del suo regno (come invece sarebbe avvenuto: il re fu assassinato): un punto di vista sostanzialmente secolare e politico rispetto al quale le imprese di Batto e dei Battiadi e gli onori ad essi riservati giocano un ruolo di legittimazione dinastica.
Più complesso il caso della Pitica 2, discussa nel cap. 12 (pp. 258-295), dove indubbiamente a Ierone è attribuita un’aura eroica e dove il canto dei cittadini di Cipro in onore del mitico Cinira è richiamato a confronto con quello che in onore del tiranno siracusano si leva dalla bocca della vergine locrese (vv. 15-20). E C. è abile e attento nel ricostruire la possibile dimensione pragmatica in cui collocare le relative esecuzioni corali a Cipro e a Locri (e questo anche se mi sembra difficile assegnare a pro domôn di v. 18, privo di ulteriori specificazioni, il valore di “davanti al tempio”). Ma è chiaro altres che Cinira e le vergini locresi sono accomunati come esempi di gratitudine ( charis 18) e che il vero compenso per le benemerenze acquisite non è il culto (in vita o in morte) ma il canto dei poeti (C. trascura che questa sequenza è tutta sotto il segno della premessa di v. 13 s.: “Chi per un sovrano, chi per un altro compose inni sonanti a compenso della virtù”). Ed è poi singolare che, in relazione a questa ode, C. taccia di un dato religioso-cultuale rilevante, che avrebbe potuto trovare uno spazio significativo nella sua prospettiva, e cioè che, secondo gli scoli, l’epinicio fu inviato a Ierone unitamente al cosiddetto Kastoreion, nel cui attacco (fr. 105) il tiranno era apostrofato, sulla base del bisticcio fonico Hierôn / hierôn, come “padre eponimo di riti divini” nel quadro di quella ierofantia ereditaria dei Dinomenidi, nota ad Erodoto (7.153.2), a cui allude lo stesso Pindaro in Ol. 6.94 s.8
Perfino per il giovanissimo Sogene di Egina, vincitore nel pancrazio (categoria juniores), si schiuderebbe già al momento di composizione della Nemea 7 (cap. 13: pp. 296-343) una prospettiva di immortalità e di culto eroico. Questa conclusione (che poi è invariabilmente la stessa per tutti i laudandi da lui presi in esame) viene preparata da C. attraverso un esame minuzioso di una serie di problemi: l’esistenza di un culto di Neottolemo a Delfi (che sembrerebbe smentita per la prima metà del V secolo a.C. da Paus. 1.4.4), i parallelismi fra Neottolemo e Sogene, e la famosa ipotesi apologetica, risalente agli scoliasti, secondo cui Pindaro nella Nemea 7 si giustificherebbe di fronte agli Egineti per il presunto taglio censorio dato al racconto della morte di Neottolemo a Delfi nel Peana 6. Questioni intricate e dibattutissime che C. riprende spesso alla radice e su cui offre analisi attente e giudiziose (tuttavia, a proposito di vv. 31-35, riesce difficile capire quale nesso potesse intercorrere tra il fatto che l’onore arride a coloro ai quali il dio dispensi fama e l’arrivo di Neottolemo a Delfi,9 e a proposito dell’espressione di v. 46 s. hêroiais . . . pompais non si vede come essa potesse riferirsi al ruolo di Neottolemo quale sorvegliante di processioni in onore di un singolo eroe che non sarebbe altri che lui stesso10). Ma tutto questo, al solito, C. lo propone per poi introdurci a una verità segreta di cui il testo tace ma che sarebbe nascosta sotto la superficie (a quale profondità?) e che dovrebbe essere riportata alla luce valorizzando parallelismi come quello fra i vv. 38-47 e i vv. 93-101. La più semplice e forse banale idea di interpretare questo parallelismo nel senso, come ha scritto L. Kurke (1991), che “the god has given victory to Sogenes and heroic cult to Neoptolemus, and for a brief moment Pindar equates the two” riesce inaccettabile a C. perché tima di v. 31 sarebbe cosa diversa da logon di v. 21 e di v. 32 e il dono di un dio cosa diversa dal dono di un poeta (ma l’onore di cui si parla consiste appunto in un habros logos e il dio di v. 32 è verosimilmente Apollo che, in quanto nume tutelare di Delfi, prende il posto e la funzione della Musa, o delle Muse, e assicura alla fama una stabilità che, come mostra l’esempio di Omero e di Odisseo richiamato a v. 20 ss., resterebbe esposto in ambito umano al rischio della menzogna; in altre parole, il dio, analogamente al tempo, è garante di verità11).
La lettura condotta da C. della Pitica 3 (cap. 14: pp. 344-405) è forse la più sofisticata (e sofistica) del libro. Di fronte a un’ode notoriamente incardinata sul contrasto fra vicino e lontano, praticabile e velleitario (con la superiorità del primo polo sul secondo) e sulla rinuncia a una immortalità letterale a favore di una immortalità attraverso il canto, C. si è dovuto infatti cimentare, per scoprire sotto il velame una dimensione escatologica, in un tour de force particolarmente audace. Egli comincia col richiamare, giustamente, il ruolo religioso svolto da Ierone a Siracusa e a Etna e, altrettanto giustamente, rifiuta sulle orme di H. Pelliccia (1987) l’idea che la protasi di v. 2 abbia come predicato implicito ên, non esti (si tratta in effetti di un inciso parentetico: si fas est…), come se questa precisazione bastasse a cancellare il dato, sottolineato dallo stesso Pelliccia, che la frase avviata con êthelon . . . ke introduce comunque un desiderio irrealizzabile (vorrei se potessi). Poi C. ricorda che Asclepio non era generalmente sentito nel V secolo come una figura negativa (ma nell’ode pindarica questo allievo di Chirone si distingue per sete di lucro ed è fulminato da Zeus nel momento in cui viene colto a ridestare dalla morte un defunto in cambio di molto oro), ci avverte che il fuoco non solo uccide ma conduce a un piano divino o semidivino (Semele, Achille, Eracle etc.) e che la morte volontaria nel fuoco poteva rappresentare, in Grecia come altrove, la porta dell’immortalità e del culto eroico (Empedocle, Melqart, Elissa alias Didone, Amilcare dopo la disfatta di Imera del 480 e molti altri), analizza la preghiera alla Madre (Cibele) che la persona loquens dichiara di voler levare in Tebe per Ierone (vv. 77-79: “ma io voglio invocare la Madre, la dea augusta che spesso davanti al mio atrio insieme con Pan fanciulle cantano di notte”) — una preghiera, si badi, che il poeta introduce subito dopo aver detto che sarebbe venuto di persona a Siracusa se avesse potuto recare al suo ospite l’aurea salute —sostenendo che essa non significa ciò che ha significato per tutti gli interpreti (la speranza di una miracolosa guarigione del tiranno malato) ma sottintende una richiesta di immortalizzazione; infine si concentra sull’inciso di v. 80 (“ma se delle parole, o Ierone, sai intendere il vertice”) per sospettare che la preghiera avesse un contenuto segreto, anzi iniziatico,12 e cioè — eccoci finalmente al traguardo — una dimensione escatologica. Se poi uno sbocco oltremondano sembrerebbe escluso anche dagli esempi mitici addotti ai vv. 84-106, dove le vicende di Cadmo e di Peleo sono considerate solo nell’alternanza di fortune e disgrazie che questi personaggi sperimentarono nel corso della loro esistenza in questo mondo, per C. il fatto che circolassero nel V secolo tradizioni relative all’approdo di Cadmo e Peleo nelle Isole dei Beati ne farebbe dei modelli di immortalità per l’afflitto tiranno. Pindaro, insomma, avrebbe taciuto non solo sul contenuto esoterico della preghiera alla Madre ma anche su ciò che veramente doveva contare, agli occhi di Ierone, relativamente a personaggi che gli venivano proposti come esemplari. Ma allora davvero non si capirebbe perché mai il poeta abbia tanto insistito sulla limitatezza della condizione umana e sulla vanità dell’andare a caccia di fantasmi sedotti da vane speranze e perché abbia concluso anche questa ode col motivo della persistenza della virtù attraverso il canto.
In sintesi: un contributo ricco di molte analisi pregevoli, ma viziato da una tesi di fondo ben poco plausibile, tenacemente perseguita a prezzo di molte inverosimiglianze.
Notes
1. C. Ohlert, De heroologia Pindarica, diss. Jena 1865.
2. Ad es. Lavecchia ha di recente assegnato dubitativamente a un ditirambo, e precisamente all’Eracle o Cerbero, il fr. 137 M., già da molti ascritto ai thrênoi. S. Lavecchia (ed.), Pindari dithyramborum fragmenta, Roma-Pisa 2000, 212-214.
3. Ma nella seconda parte essi giocano un certo ruolo, limitatamente al culto della Madre degli dei, nel capitolo sulla Pitica 3 (vedi pp. 387-397).
4. Rimando in proposito al mio La sapienza acerba e il dio-tutto: Pindaro e Senofane, Prometheus 30 (2004), 139-147.
5. L’opera di Pugliese Carratelli (i cui contributi più importanti in ambito storico-religioso sono raccolti in Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia civile e religiosa dei Greci d’Occidente, Bologna 1990) viene del tutto ignorata da C. Sulla dimensione iniziatica in Parmenide vedi anche M.M. Sassi, Parmenide al bivio, La Parola del Passato 43 (1988), 383-396. G.B. D’Alessio, Una via lontana dal cammino degli uomini (Parm. frr. 1+6 D.-K.; Pind. Ol. VI 22-7; Pae. VIIb 10-20), SIFC 13 (1995), 143-181, L. Battezzato, Le vie di Ade e le vie di Parmenide, SemRom 8 (2005), 67-100.
6. Vedi P. Giannini in B. Gentili et al. (edd.), Pindaro, Le Pitiche, Milano 1995, 317.
7. Ne ho discusso in Intorno all’ombelico del mondo: le prospettive del rito nelle Pitiche di Pindaro, SemRom 3 (2000), 217-242 (229 s.).
8. Che gli scoliasti si fondassero su notizie attendibili o fabbricassero un episodio di cronaca letteraria interpretando nel senso stretto di un omaggio senza pagamento il charin che qualifica il Kastoreion in Py. 3.70, il vincolo fra i due componimenti appare confermato dalla convergenza nel disegno metrico (coriambico-cretico-giambico), vedi B. Gentili, Pindarica III. La Pitica 2 e il carme iporchematico di Castore (fr. 105 a-b Maehler), QUCC n.s. 40 (1992), 49-55 (52). Della ierofantia di Ierone C. tratta solo in relazione alla Pitica 3.
9. È probabilmente da accogliere, con Hermann e altri, la lezione molon registrata dagli scoli, da intendere come prima persona singolare piuttosto che, come pure si è fatto, come terza plurale (cfr. Ol. 9.83 e 14.18, Pae. 6.13).
10. Sarà invece da accogliere l’esegesi, trascurata da C., di sch. 68a hêrôsi xenia. Su questa linea D. Loscalzo nella sua recente edizione ( La Nemea settima di Pindaro, Viterbo 2000), traduce appunto i v. 46 s.: “… e abitasse sorvegliante giusto delle processioni ricche di vittime in onore degli eroi”.
11. Sulla necessità, per il poeta, dell’ausilio divino cfr. Pae. 7b.18-20 e vedi il mio La carraia di Omero e la via degli dei: sul Peana VIIb di Pindaro, SemRom 5 (2002), 197-212.
12. Ma logôn koryphan di v. 82 non denota segretezza (a p. 389 C. chiosa il nesso come “the true import of the utterance”), bensì il “chief point” (Slater, Lexicon Pindaricum, s.v. korypha b.a), il succo di un ragionamento (cfr. Ol. 7.68, Pae. 8A.13). E il succo è qui, come viene chiarito subito dopo, che bisogna rassegnarsi a una condizione umana in cui a due mali si abbina un bene. Invece, secondo C., occorre segnare pausa forte in fine di v. 80 (e pausa debole in fine di v. 79) e far cominciare ex abrupto la gnome di v. 81 s. Ma l’asindeto è legittimo in quanto asindeto esplicativo che comunica il contenuto del precedente oistha (tu sai questo: per un bene ci sono due mali); non si capisce altrimenti che cosa Ierone dovesse sapere.