Il Colosseo, monumento inaugurato nell’80 d.C., nel regno del successore e figlio di Vespasiano, Tito, racchiude in uno spazio istituzionalizzato la violenza e il selvaggio, scatenati nella civitas dalle lotte intestine. All’interno di questo spazio metaforico, la caccia e l’uccisione di animali feroci ( venationes), le esecuzioni di condannati, i combattimenti tra gladiatori ( munera) consumano ritualmente la guerra e lo spargimento di sangue umano, celebrando nel contempo il dominio ecumenico dell’imperatore.
Secondo Walter Burkert “tutti gli ordinamenti e le forme di potere della società umana si fondano su una violenza istituzionalizzata”.1 Il valore fondante della caccia, l’omicidio istituzionalizzato, l’aggressione e la violenza vengono messi in campo nella società romana antica nel corso di munera e venationes, già vitali nelle città dell’Italia repubblicana e celebrati a Roma in epoca imperiale come un atto spettacolare di rifondazione dell’assetto e della distribuzione di ruoli e poteri sociali, nel rapporto tra imperatore e popolo.2
Questi i valori culturali messi in luce dal libro di M. Beard e K. Hopkins, che ci offre una lettura lucida del Colosseo come fatto culturale, monumento divenuto nella modernità l’icona stessa della romanitas.
Il libro si propone di comprendere interrogativi che condizionano la nostra percezione di questo celebre monumento: lo scopo per cui venne fabbricato; il suo complesso significato culturale, per noi problematico in virtù del fatto che in esso si svolgevano spettacoli sanguinari; la sua celebrità.
Il Colosseo viene interpretato nel suo valore di luogo intensamente coinvolto nella vita sociale e di forte significato politico, privilegiando una prospettiva fenomenologica degli eventi che vi accadono; come metafora della distanza tra noi e l’antichità romana, per il suo essere parte vitale di un rito che per noi è il simbolo stesso della crudeltà e della morte.
I primi due capitoli del libro ricostruiscono un percorso di fruizione di questo monumento dall’età moderna, a ritroso, verso l’età antica: il primo traccia un’immagine del Colosseo nata in seno alla cultura anglosassone di metà 800. La visione di partenza ci viene offerta allo sguardo dalle parole del pocketbook vittoriano Murray’s Handbook to Central Italy, 1843. Tra le critiche allo stile di vita italiano, il Colosseo, immagine della passata grandezza di Roma, suscita nello scettico visitatore inglese dell’epoca, pur turbato dall’approssimazione temporale e dalla difficoltà di trovare un alloggio conveniente alle proprie esigenze, un’impressione che supera ogni immaginazione. Raggiunto il livello più alto con una scala appositamente costruita il visitatore vittoriano pote ottenere quella “scene … is one of the most impressive of the World” e spaziare con lo sguardo, fino a comprendere elementi essenziali della topografia dell’epoca di Roma antica: l’Arco di Costantino, il Palatino e il Foro Romano.
Come nel Manfred di Byron, lo spettatore veniva raccomandato di visitarlo al chiaro di luna: un approccio emozionale, cui contribuiva il gioco tra illuminazione al chiaro di luna e quella artificiale, riservata ad alcuni spettatori o limitate ad eventi cittadini particolarmente significativi, come il Natale di Roma. Il paesaggio ha comunque un suo valore ideologico: piccoli luoghi di culto cristiani erano disposti ai margini e una croce troneggiava nel mezzo. Il problema centrale, anche per il viaggiatore dell’800 era il rapporto tra la magnificenza della struttura e il sangue che in essa era stato versato per secoli, di gladiatori, criminali, animali (tre categorie di esseri viventi comunque escluse dalla civitas / civilitas): mescolanza di sfarzo e decadenza, lussuria e sangue, come Lord Oswald Nelvil dice a Corinne (nella novella Corinne di Madame de Staël). Luogo di crudeltà, sadismo e trasgressione nella visione romantica e iperbolica di Byron e Dickens, la sua struttura vuota, cui l’archeologia ha infuso un nuovo valore tipicamente moderno, quello di monumento archeologico, ci rivela un problema essenziale ai nostri occhi: come colmare l’enorme distanza tra noi e gli antichi, come annullare la differenza tra due diversi sistemi di valori, che prevedono pratiche nettamente divergenti sullo spargimento del sangue e sulla violenza.
Nel Capitolo II fa il suo ingresso lo spettatore antico. Monumento grandioso anche per gli abitanti di Roma nell’antichità e per i viaggiatori provenienti da luoghi lontani dell’impero: dal poeta latino Marziale all’imperatore Costanzo II, ormai distante dal popolo e ieratico come una statua al momento del suo ingresso a Roma, nel 357 d.C. Nello spazio dell’anfiteatro si metteva in scena il rapporto privilegiato tra l’autocrate, il monarca, e il popolo di Roma, la capitale dell’Impero: l’imperatore si offriva nella sua immagine al popolo; i giochi gladiatori e le cacce, con il loro per noi incomprensibile contenuto di sangue, morte e violenza, portavano in superficie quel confine culturale materializzato nello spazio metaforico dell’anfiteatro, nella divisione tra arena e spalti, tra barbarie, guerra, morte, e civilitas dell’imperatore che guidava il suo popolo (anzi la sua parte migliore, costituita dall’élite aristocratica); tutti i corpi sociali, vestiti delle insegne del proprio rango, assistono allo spettacolo della lotta tra civilizzazione e barbarie.3
Nel capitolo III veniamo introdotti nella fitta trama di eventi che rappresentavano la vita sociale nel monumento. Sugli spalti si metteva in scena lo status dei cittadini, nell’arena avvenivano i combattimenti tra gladiatori e venationes, che coinvolgevano migliaia di animali e uomini.4 Marziale nel Liber de Spectaculis descrive la folla esotica e poliglotta che assiste agli spettacoli: Greci, Sarmati, Germani ed Etiopi. Le uccisioni vengono trasposte in eventi mitici.5 Un elefante si inginocchia come un supplice davanti all’imperatore: l’animale riconosce il potere imperiale: rappresentazione del dominio, del dominato e dei dominanti. L’unico poema di Marziale che descrive un combattimento tra gladiatori, Priscus e Verus, costituisce una metafora della clementia dell’imperatore.
Il IV capitolo si propone di indagare i pensieri, le opinioni, la mentalità della folla, la sua reazione alla vista del sangue e la sua reale composizione sociale, la luctatio più o meno velata tra imperatore e potere autocratico e l’élite aristocratica. Il gladiatore, simbolo culturale cruciale, mette in luce i confini etici, suscitando diverse e contrastanti valutazioni. Marginalizzati, privati del diritto di disporre del proprio corpo, eppure citati da Seneca come esempi di approccio filosofico alla morte; disprezzati dai cittadini, nonostante le case romane fossero popolate dalle loro immagini; infine simboli di virilità, coinvolti nella pratica della manifestazione carismatica del potere da parte di autocrati particolarmente brillanti come l’imperatore Commodo, quasi concepito, secondo una versione della storia, con il sangue di un gladiatore. Gladiatori e munera focalizzano valori sociali chiave: coraggio e disumanità; potere e sessualità; autocontrollo; violenza e morte.
Gli animali che morivano nell’arena erano comunque molto più numerosi degli uomini; e venivano utilizzati come strumento per giustiziare i condannati. Per questa funzione di luogo di giustizia dei condannati, il Colosseo venne interpretato dagli scrittori cristiani come un santuario di martiri. Nelle Lettere di S. Ignazio, vescovo di Antiochia condannato ad bestias a Roma nel II secolo, l’idea pagana della morte nell’arena viene sovvertita nei suoi valori essenziali: crudeltà e sofferenza diventano ora strumento di salvezza.
Negli spalti erano i ranghi serrati del popolo nell’arena, disposti gerarchicamente in base allo status, di fronte all’imperatore. Il Colosseo costituiva il contesto chiave per giudicare le qualità del monarca: buoni e cattivi imperatori erano trasgressori o meno dei confini della logica dello spettacolo. Lo storico Dione Cassio è testimone delle esibizioni di Commodo nell’arena, come uccisore di animali: metafora del conflitto latente tra imperatore (uccisore-cacciatore) e aristocrazia (popolo-gregge, animali da pascere ma anche da domare)?
Frequentati come evento tradizionale delle pratiche sociali della Roma antica, i giochi erano soggetti a critiche dalle frange intellettuali dei cittadini. Seneca esprimeva il suo orrore per le esecuzioni ma si trovava nell’anfiteatro in queste occasioni e considerava i gladiatori come modelli etici. Gli antiquari ricercavano l’origine dei munera: si individuava il primo spettacolo gladiatorio nel 264 a.C. per celebrare i funerali di un aristocratico.6 Filosofi, come l’imperatore Marco Aurelio, e teologi, come S. Agostino, si interrogavano sugli effetti della vista del sangue sugli spettatori. Altri si domandavano se uccidere un malfattore fosse diverso dall’uccidere un cittadino romano. Dettagli tecnici di pianta, alzato, e il problema della lettura dei resti del monumento e di una sua ricostruzione archeologica vengono forniti nel V capitolo, che dalle emergenze materiali del monumento ci conduce alle funzionalità delle singole parti: sedili, ingressi, passaggi destinati agli imperatori e alla corte. Viene trattata inoltre la controversa funzione delle strutture poste sotto l’arena, dibattuta già in epoca napoleonica e ancora attuale per l’odierna interpretazione archeologica del Colosseo. Sistema di drenaggio e fondazioni ci restituiscono la visione della complessità tecnica dell’opera, per progettazione, realizzazione e utilizzo. La totale assenza di un autore, di un nome di architetto cui legare l’opera, messo in rilievo dagli autori, non ci sorprende, ma accomuna questa realizzazione ad altri celebri monumenti politici significativi di Roma, come la Colonna Traiana, o l’Arco di Costantino, per noi moderni opere d’arte, per gli antichi espressioni di ingegno e dignità del populo romano e del potere del suo imperatore.
Dopo gli ultimi munera, attestati intorno al 430 d.C., il Colosseo diviene per i viaggiatori medievali di Roma il tempio del Sole. Più che per l’intervento degli imperatori cristiani, i giochi gladiatori si estinsero sotto la pressione di guerre civili, invasioni barbariche e per le necessarie limitazioni applicate alle evergesie statali e private, in concomitanza con il declino della città tardoantica. Razzie popolari e colonizzazioni nobiliari delle rovine si protrassero dal VI secolo in poi; occupato dai Frangipane nel XII secolo, restaurato dai papi, dopo che i Cristiani si erano impossessati della sua memoria celebrandovi la Passione dal 1490, nel 1870 comincia ad essere scavato dagli archeologi, poi ancora colonizzato dall’immaginario fascista. Oggetto pregnante dal punto di vista simbolico, che si scompone in una miriade di “bright ideas, dead ends, failed schemes and repeated re-interpretations and re-appropriations” (p. 159). Il risultato è un’immagine cangiante, variabile in base al punto di vista e agli interessi: saccheggiatori o autori del riuso; Cristiani; antiquari o archeologi, botanici contribuiscono a fornire a questo monumento la sua identità e a condurlo ai nostri occhi carico di questa memoria stratificata nei secoli, che è la nostra memoria culturale.
Notes
1. “Tiefer greift die Feststellung, dass alle Ordnungen und Herrschaftsformen menschlicher Gesellschaft auf institutionalisierter Gewalt beruhen.” W. Burkert, Homo necans, Berlin 1997, p. 8.
2. Il complesso intreccio tra politica evergetica e pratiche sociali, espressione della maiestas e politicizzazione dei giochi del circo è espresso qualche anno più tardi da P. Veyne, Le Pain et le cirque: Sociologie historique d’un pluralisme politique, Paris 1976.
3. Questa divisione dello spazio dei giochi in due parti distinte, gli spalti e l’arena, che ripropone la divisione simbolica sociale tra ordini del corpo civico, ovvero gli optimates, mentre nell’arena si delimitano eventi e significati legati a valori estranei alla società, come violenza e morte, si ripropone nel mondo delle rappresentazioni di munera italici: dalla tomba del sevir C. Lusius Storax da Teate Marrucinorum (a Chieti) il morto, finanziatore dei munera, appare seduto sullla sella curulis, provvisto delle insegne del suo ragno, assieme ai quattuorviri e ad altri togati; musicisti accompagnano la cerimonia; un registro inferiore di rilievi mostra i munera gladiatori.
4. Nell’80 d.C. le cerimonie di inaugurazione secondo Svetonio comportarono l’uccisione di 5000 animali in un solo giorno (per Dione ammontano a 9000 in tutto).
5. Il primo atto della rappresentazione rimette in scena il mito di Minosse e Pasiphae; parla poi più avanti della crocefissione di un uomo, che sembra la rimessa in scena dell’uccisione di un famoso bandito Laureolus e nello stesso tempo del mito di Prometeo. Tertulliano più tardi ricorda altri che vengono castrati come Attis o bruciati vivi come Ercole. Un Orfeo viene dilaniato da un orso.
6. Nicolao di Damasco pensava che i giochi gladiatori provenissero dall’Etruria; Livio attribuisce al periodo intorno al 308 a.C., dalla Campania l’introduzione privata, nei banchetti dei gladiatori 9, 40, 17: sembra che Etruschi e Campani conoscessero i giochi gladiatori.