Il carattere mimetico della poesia arcaica non è verità riflessa in uno specchio, è piuttosto un coprire la realtà con un velo che allo stesso tempo promette uno svelamento, una possibilità di visione: questa la tesi che orienta ogni scelta testuale e ciascuno dei dieci capitoli che compongono il volume qui recensito. Così scrive Ioli nella sua introduzione, a p. 16:
Alla dicotomia tra un’estetica della verità e un’estetica della finzione, l’età arcaica risponde con un’esperienza per noi sorprendente, in cui i due ambiti spesso coincidono, non nel senso che verità è menzogna, ma nella riabilitazione di un’idea di finzione che diventa accesso alla verità.
Un antico mascheramento è all’origine della creazione del mondo raccontata da Ferecide di Siro in un interessante frammento che apre il primo capitolo del volume, Il velo di Gea e gli inganni della creazione. Nel testo antico (DK 7 B2 = 68 Schibli) si legge che il frutto delle prime nozze sacre tra Zas e Chtonie, principio maschile e principio femminile, fu un velo decorato con la raffigurazione della Terra e dell’Oceano. È come se l’abisso rappresentato da Chtonie si fosse dovuto occultare per generare il cosmo ordinato, si fosse dovuto servire di un artificio per potersi mostrare. Inganno (ἀπάτη) è poi divinità di prima generazione già nella Teogonia di Esiodo, fonte principale analizzata in questo capitolo. Ogni generazione olimpica, dal caos primigenio al cosmo ordinato, partecipa di una catena di azioni ingannevoli, di tranelli escogitati prima contro Urano da suo figlio Crono e poi contro questi dal figlio Zeus. Dopo la vittoria di quest’ultimo sui Titani, Zeus sposa μῆτις e così l’inganno fa il suo definitivo ingresso nella vita dei mortali. Con lui il suo strumento: la parola dolce come il miele (αἱμύλος λόγος, Th. 890). È a Pandora che il padre degli dei e degli uomini dona la parola che inganna: menzogne (ψεύδεα), discorsi seducenti (αἱμυλίους τε λόγους) e un carattere scaltro (Hes., Op. 78); è con Pandora che si produce la scissione definitiva tra la lingua degli dei e la lingua degli uomini. La sua voce è punto di intersezione tra il divino e l’umano proprio come la poesia, che sta a metà tra la lingua degli dei, in cui parole e cose coincidono, e la lingua degli uomini.
La poesia omerica è oggetto di indagine dei tre capitoli successivi. Nel secondo capitolo, Dei ed eroi, travestimenti e trappole, l’autrice presenta tre figure dell’inganno: Odisseo, Atena e Hermes. I primi due sono maestri di ἀπάτη: l’uno per l’esperienza di annullamento della propria identità, prima di fronte al Ciclope, al quale dichiarando di essere nessuno rivela la sua vera natura di eroe dell’inganno, e poi di ritorno ad Itaca, avvolto nella nebbia per volere di Atena così che sottratto alla vista del mondo possa cominciare il processo di riconoscimento; e l’altra per il mascheramento che la porta ad assumere mille sembianze nell’ Odissea omerica, con le quali la dea elude ogni ontologia, senza possibilità per i mortali di discernere apparenza e realtà. Hermes, invece, nell’ Inno omerico a lui dedicato, è inventore della lira e quindi dio della parola poetica per eccellenza. È qui che si presentano tre elementi degni di attenzione secondo Ioli che ritorneranno spesso nel seguito dell’indagine: la poesia è composta κατὰ κόσμον, ha cioè delle parti disposte armonicamente dal poeta demiurgo; deve avere un effetto consolatorio sull’anima degli ascoltatori che con essa, oltre a provare piacere, si liberano da affanni; infine, può esercitare il suo potere solo se è eseguita e recepita da animi raffinati, quelli del poeta e dell’uditore, educati entrambi alla bellezza.
Una poesia foriera di pericolo, produttrice di una fascinazione mimetica che occulta lo scarto finzionale che è nell’arte, è oggetto di riflessione del terzo capitolo, La seduzione della voce. Tre sono gli esempi presi in esame: le Sirene odissiache, che nella loro promessa di onniscienza cantata con voce di miele diventano simbolo del silenzio della poesia che allontana da sé, procurando il definitivo oblio di sé stessi ( Od. 12. 184-191); le Deliadi dell’ Inno ad Apollo, capaci di riprodurre perfettamente la voce di ogni uomo, tanto che questi crederebbe di essere lui stesso a cantare e a parlare ( Hymn. Ap. 156-164); infine Elena, capace di imitare le voci di tutte le donne, tanto da far impazzire gli eroi greci, rinchiusi nel ventre del cavallo-trappola, dal desiderio di uscire e rispondere al dolce richiamo della voce ammaliante ( Od. 4. 265-289). Tre esempi che dimostrano quindi come l’arte resti uno strumento salvifico solo se “si denuncia nella sua natura finzionale” (p. 47).
Odisseo poeta è il protagonista del quarto capitolo, Odisseo e le menzogne cretesi. Dopo aver esaminato le sfumature linguistiche del vocabolario dell’inganno, l’autrice elegge a paradigma del legame tra verità e finzione prima l’incontro di Odisseo con Eumeo, che resta ad ascoltarlo per tre giorni nonostante non creda ai girovaghi, e poi quello tra Odisseo e Penelope, in cui sogno e verità s’intrecciano in una serie ben costruita di rivelazioni e nascondimenti). L’eroe omerico è l’emblema del poeta sapiente perché sa narrare, sa, cioè, avere memoria catalogata dei fatti, sa costruire belle sequenze narrative, armoniche e sa riempire tali sequenze di saggi pensieri; ma, soprattutto, perché sa combinare episodi veri e verosimili, sa, con le sue menzogne, con i suoi travestimenti, smascherare chi ha di fronte.
Con il quinto capitolo, Le Muse, generose mentitrici, l’autrice sposta l’attenzione su Esiodo, su un poeta nuovo rispetto ad Omero e a quelli da lui messi in scena, un poeta che rivendica la responsabilità del suo canto. Ma il verso più discusso dell’investitura divina è Th. 27, in cui le Muse ammettono di «pronunciare molte menzogne simili al vero» (ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα). In queste pagine Ioli dimostra, distaccandosi dalle letture tradizionali, come il falso verosimile attribuito alle Muse non abbia alcun legame con la menzogna fraudolenta, ma rappresenti piuttosto il tratto specifico della poesia, intesa come linguaggio complesso che annuncia il vero sotto maschere e finzioni. Le Muse sono ἀρτιέπειαι ( Th. 29), sono abili costruttrici di discorsi, di discorsi poietici. Esse parlano agli dei e allora creano il mondo in una condizione di verità comprensibile solo agli dei stessi; poi, però, lo raccontano quel mondo, lo plasmano e quindi lo “fingono”, lo modellano con la veste della finzione perché sia accessibile anche agli uomini.
Se una lunga ed affermata tradizione, che trova uno dei suoi più grandi esponenti in Marcel Detienne, presenta il poeta come maestro di verità, non esiste nell’ epos – sostiene Ioli sin dall’introduzione (p. 14) – un’esplicita connessione tra poesia e verità, anzi prerogativa precipua dell’aedo è quella di cantare “come se” fosse stato presente agli eventi che narra. Il sesto capitolo, Il prodigioso “come se” dell’arte, risulta essere il cuore dell’argomentazione dell’autrice e, a mio avviso, l’apporto più innovativo del volume. La poesia omerica, che fa continuo ricorso alla similitudine, è per eccellenza il falso simile al vero, perché in quella costruzione di somiglianza essa annuncia la più autentica relazione tra verità e finzione. La similitudine è la veste dell’analogia, è ciò che realizza la massima prossimità tra due elementi ma al contempo ne evidenzia anche l’incolmabile distanza, comparando un pensiero nuovo o un evento nuovo ad un’esperienza già nota. L’espressione “come se” (ὡς εἰ) manifesta la relazione tra due elementi, il secondo dei quali non è, ma è come se fosse. Ci sono tre vie di accesso al mondo: il vero, il falso e il falso simile al vero, proprio della poesia. Secondo Ioli, solo con Platone il verosimile si carica di negatività, poiché si trova dalla parte opposta al vero, mentre nella poesia arcaica l’εἰκός, proprio per il fatto di rapportarsi a un modello altrimenti inaccessibile, è via di accesso al vero. La poesia “non ostacola la visione delle cose ma, attraverso l’incanto delle sue visioni, rimanda a un mistero di cui promette lo svelamento”, conclude Ioli a p. 94.
Il ruolo del poeta e i suoi strumenti tecnici costituiscono il focus dell’analisi condotta nei tre capitoli successivi. Nel settimo, Memoria, oblio e l’usignolo, l’autrice parla di una nuova forma di autorialità creativa: la conoscenza del poeta arcaico non è una conoscenza attiva, autoptica, ma riattualizzante della parola divina nella pratica del canto. Il poeta racconta eventi cui non è stato presente ma deve farlo “come se” fosse stato presente (ὥς…αὐτὸς παρεών, Od. 8. 491). Il non essere si fa essere, la finzione conduce alla verità. Tuttavia c’è un’autonomia nell’intrecciare i racconti mitici. Il poeta compone κατὰ μοῖραν (con ordine, secondo la parte di ciascuno) e κατὰ κόσμον (secondo l’armonia dell’insieme). Ciò è vero soprattutto in Omero, dove le due espressioni ricorrono più frequentemente (tra gli altri passi, il più celebre è quello di Od. 8. 487-498) e in Esiodo. Se, dunque, il poeta riesce a raccontare ciò che non ha visto è perché fa risuonare in lui molteplici voci. La sua è una rimemorazione. Emblema di questa riattualizzazione del canto poetico è il mito di Procne e dell’usignolo che è simbolo del canto poetico, sempre nuovo nella rimodulazione dello stesso suono.
C’è un caso in cui l’arte si fa più vera del vero e questo è quando con le parole il poeta rappresenta un’immagina visiva: è l’espediente dell’ἔκφρασις di cui l’autrice parla nell’ottavo capitolo, Trama e ordito: la poesia “pittura parlante”. Omero, Simonide, Empedocle, Gorgia, Platone, Aristotele, Plutarco, Plinio il Vecchio sono alcune delle tracce seguite da Ioli per mostrare il grande potere della mimesi artistica, perché sia per il poeta che per il pittore “la finzione dell’arte, che moltiplica il gioco di specchi con cui si racconta il mondo, è più potente della verità stessa” (p. 121).
Si giunge così alla trattazione della poesia classica di Pindaro, Simonide e Bacchilide nel nono capitolo, Storie ricamate di cangianti menzogne. Il poeta è ormai lontanissimo dalla verità, non la ricerca, la interpreta tant’è che spesso è chiamato proprio a darne nuove versioni mitologiche, facendo mostra delle sue capacità di abile tessitore del ricamo più bello. Ed è in questa sua veste di poeta-autore che Pindaro sposta l’aspetto finzionale dell’arte dal verosimile al falso: se, in continuità con la tradizione, la poesia libera dalla sofferenza, rende immortali i suoi protagonisti assicurando loro imperitura fama, se si ammanta di una certa solennità che la rende adatta solo ad un pubblico colto, ora è il momento di inserire il canto degli eroi del passato nel presente, nei valori del καιρός. Pindaro riconosce che l’inganno ammalia e che è piacevole, ma l’uomo ne è facile vittima e dunque il poeta deve ora cercare di salvare la tradizione dalla visione negativa, corrotta e falsa degli dei d’un tempo.
Con il decimo capitolo, Gorgia, poeta sotto mentite spoglie, si chiude la bella indagine di Ioli. Come scrive Simonetta Nannini nella postfazione, intesa a segnalare gli esiti del “felice inganno” nella letteratura greca di età imperiale, è proprio quest’ultimo capitolo a ispirare, “in modo evidente ancorché implicito” (p. 162), l’intero volume. Il frammento gorgiano sul potere dell’inganno (82B23 DK = Plu. glor. Ath. 348c1-8) riassume la tesi dell’autrice: l’inganno, che è la vera natura della mimesi poetica, è assolutamente positivo perché autore e destinatario sanno di ingannare e di essere ingannato. L’ Encomio di Elena è, secondo Ioli, manifesto del “come se”, della natura finzionale della poesia. Gorgia è poeta; il suo stile è tragico. Pietà e terrore suscita il suo discorso nell’animo di chi ascolta ( Hel. 9). Per Gorgia il discorso non è falso in sé, ma è l’ignoranza di chi lo ascolta a renderlo ingannevole. Giusto è il poeta e saggio è il pubblico disposti a lasciarsi catturare dalla finzione poetica.
Con l’intento dichiarato di rinsaldare la netta separazione demarcata dalla letteratura secondaria tra il carattere finzionale della poesia e la possibilità che tale inganno possa essere un mezzo per ottenere una forma specifica di conoscenza, Ioli si muove così, senza disagio, tra le sfumature linguistiche del vocabolario dell’inganno, utilizzato dalla poesia arcaica di Omero ed Esiodo, ma anche da quella tecnica di Pindaro o dai pensatori-poeti della filosofia antica, riuscendo con rigore filologico e audacia ermeneutica a dimostrare come siano stati proprio gli antichi a riconoscere nella poesia non l’adesione perfetta ad una verità superiore e di origine divina, quanto piuttosto il germe di uno scarto rispetto al mistero di una realtà in sé inaccessibile.