BMCR 2019.07.13

Didone. La tragedia dell’abbandono: variazioni sul mito. Grandi classici tascabili Marsilio

, Didone. La tragedia dell'abbandono: variazioni sul mito. Grandi classici tascabili Marsilio. Venezia: Marsilio, 2017. 337. ISBN 9788831728621. €10,00 (pb).

La duratura fortuna del mito di Didone è testimoniata da questa miscellanea di testi curata impeccabilmente da Antonio Ziosi. Il libro fa parte di una collana, pubblicata dall’editore Marsilio, che porta la denominazione di Variazioni sul mito, poiché raccoglie le diverse trasposizioni di personaggi mitologici da parte di autori antichi, moderni e contemporanei. Tra le numerose possibilità riguardanti Didone e la sua storia di abbandono, Ziosi ha scelto di proporre il quarto libro dell’ Eneide, la rilettura di Ovidio nella settima lettera delle Heroides, il capitolo 42 del De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio, la tragedia redatta da Christopher Marlowe nel 1586, il libretto composto da Pietro Metastasio nel 1724 e infine due brevi riletture poetiche del ‘900, Cori descrittivi di stati d’animo di Didone di Giuseppe Ungaretti e Didone e Enea di Iosif Brodskij. I testi sono preceduti da un’esauriente introduzione e seguiti da una sezione relativa agli autori e da una bibliografia selettiva.

La fama della figura di Didone inizia, come è noto, da Virgilio, che ne fa la protagonista indiscussa di un intero libro dell’ Eneide. Nella sua introduzione Ziosi si sofferma a lungo a spiegare i vari aspetti e le numerose tematiche del Didobuch. Innanzitutto, l’innovazione virgiliana di un mito cartaginese: la fondatrice di Cartagine, di nome Theiossò o Elissa, poi nota come Deidò per il suo lungo errare fino ad approdare in Libia, morì infatti gettandosi su un rogo per non risposarsi e non tradire così il ricordo del marito defunto. Virgilio si ispira a tale tradizione—Didone nel suo poema è per fama donna pudica e univira —ma rende l’eroina un personaggio più complesso. Aggiungendo al mito originario il tema dell’amore e l’incontro con Enea, Didone assume le caratteristiche di un personaggio tragico: tormentata dagli affanni d’amore e vittima di una trama divina e del volere del fato, si getta sì su un rogo, però uccidendosi con la spada che Enea le diede in dono. Ziosi elenca tutte le testimonianze che raccontano il mito cartaginese e poi discute il difficile rapporto tra il Bellum Poenicum di Nevio e il poema virgiliano. Secondo lo studioso, l’interpretazione di Niebuhr del frammento 20 Blänsdorf 2 (= Mariotti 3 = 23 Morel) dell’opera di Nevio, dal quale si potrebbe ipotizzare l’incontro tra Didone ed Enea e la brusca rottura tra i due, è possibile ma non sostenuta da prove certe; tuttavia, altre testimonianze, come quella di Servio su Varrone e un opuscolo di Ateio Filologo dimostrano che già prima di Virgilio era nota una storia d’amore tra i due personaggi. Ma è proprio Virgilio a rendere celebre questa storia e a raccontare una vicenda amorosa a cui moltissimi altri si ispireranno in seguito. In che modo? Ziosi giustamente risponde “riuscendo a fondere, nella sua caratterizzazione di Didone, la sottigliezza psicologica delle eroine abbandonate della poesia d’amore alessandrina, e ricamando, sull’ordito dell’ epos di matrice omerica, motivi e strutture della grande tragedia greca, allusioni a temi e personaggi tragici” (pp. 14-15). Un’altra importante caratteristica del IV libro è la sua “soggettività”, cioè la capacità del poeta di partecipare quasi empaticamente alle vicende dei suoi personaggi: da qui, le interpretazioni Novecentesche di un poema che accoglie anche le ragioni dei “vinti”, nel quale si fa sentire un’altra voce, più pessimistica rispetto all’ideologia ufficiale ed augustea. Lo studioso conclude affermando che Didone non muore solo perché innamorata, affranta e abbandonata, ma anche per aver tradito la fedeltà alla memoria del marito. Tragedia del pudor, quindi, ma senza ridurre la complessità dell’eroina virgiliana, poiché sono proprio tutti questi elementi assieme che portano la regina di Cartagine al suicidio: il fatto che si getti sulla spada regalatale da Enea—un simbolo assai significativo nella storia d’amore e invenzione virgiliana sul modello dell’ Aiace di Sofocle—porta a pensare a un amore ancora non del tutto scomparso.

Il primo poeta che si confronta con il testo virgiliano è Ovidio, il quale, nella settima delle Heroides immagina che una Didone abbandonata cerchi tramite una lettera indirizzata all’amato di trattenerlo a Cartagine. Secondo Ziosi la lettura ovidiana è tendenziosa, sub specie amoris, poiché mette in evidenza solo l’aspetto amoroso della vicenda, come si è detto ben più complessa, narrata nell’ Eneide. In molte altre opere di Ovidio la regina cartaginese viene presentata come exemplum amoroso tralasciando—è bene sottolinearlo—la sua caratterizzazione di donna pudica e univira; inoltre, nella cosiddetta Piccola Eneide delle Metamorfosi la sua vicenda è ridotta a un suicidio dovuto solamente all’abbandono. Più che tendenziosa, la settima epistola, come tutte le Heroides, è codificata secondo i parametri dell’elegia latina e ambientata nel suo spazio monodimensionale, in cui sopravvive solo il discorso amoroso con i suoi topoi lessicali e retorici. Nel confronto col modello Didone appare una donna innamorata, “non più scissa dal dubbio tragico, non più schiacciata dal dissidio tra dignità e furor, non più preda di rimorsi di fedeltà, non più vittima del volere del fato” (p. 33); lo studioso la definisce una donna borghese, utilizzando un termine moderno, anacronistico, da romanzo ottocentesco, quasi a evidenziare ulteriormente la distanza tra le due Didoni. Ma c’è un elemento importantissimo in questa epistola: pur essendo ancora innamorata, la donna ferita nei suoi sentimenti attacca—dando voce al pensiero di Ovidio—l’ideologia epica dell’ Eneide. Enea viene infatti di volta in volta chiamato perfidus, durus, impius così da stravolgere (benché i medesimi aggettivi si trovino anche nell’ Eneide) l’immagine che Virgilio aveva dato dell’eroe e minare le radici dell’ideologia augustea. Questa lettera sarebbe quindi il primo esempio di rilettura antieroica dell’ Eneide.

Sempre nella prefazione, Ziosi fa notare come lettori successivi abbiano recuperato e riletto in chiave cristiana il mito cartaginese, in contrasto con la vicenda narrata nel poema virgiliano. Tertulliano, ad esempio, la presenta come un exemplum precristiano di martirio e di castità, e così la considereranno molti apologisti di origine africana (forse per orgoglio nazionalistico, come ipotizzano lo studioso e altri prima di lui?), ma anche Girolamo e perfino Petrarca e in parte Boccaccio. Nel Triumphus Pudicitie Laura sottrae Didone alla schiera dei prigionieri di Amore, perché lei in realtà volle morire per rimanere fedele al ricordo del marito. Più diversificato l’atteggiamento di Boccaccio nei confronti dell’eroina: nelle opere giovanili Didone appare come l’ exemplum patetico di una tragica figura di amante, “quasi un’ipostasi del mal d’amore” (p. 46); nell’ Amorosa visione l’autore addirittura modifica la scena del suicidio: la donna non si trafigge su di un rogo, con l’eliminazione di un elemento sempre esistito nella versione originaria e in quella virgiliana, ma sul letto sul quale aveva dormito con l’uomo amato. In seguito Boccaccio si avvicina all’interpretazione data dai padri della Chiesa e da Petrarca, e Didone diventa simbolo della castità, “emblema del valore morale—in senso cristiano —della letteratura degli antichi” (p. 49), soprattutto nelle opere in latino che conobbero un successo immenso. Ziosi ha scelto per la sua raccolta un esempio di questa seconda interpretazione di Didone, e cioè il capitolo 42 del De mulieribus claris, nella traduzione dell’umanista Donato degli Albanzani: Boccaccio narra dettagliatamente l’intera vicenda di Didone, dalla morte di Sicheo alla partenza fino all’approdo in Libia; tuttavia, una volta incontrato Enea, preferì la morte alla perdita della sua castità. Da qui il monito alle donne, specialmente vedove, di mantenere la propria castità imitando non tanto la scelta estrema di Didone quanto la fedeltà ai suoi valori, che prefigurano quelli cristiani. Nella miscellanea questo è l’unico testo che presenta Didone come eroina casta fino al suicidio e la scelta appare particolarmente interessante, perché Boccaccio riprende nel racconto gli elementi delle due tradizioni, cartaginese e virgiliana, ma legge poi la morte della donna con finalità cristiane. In altre parole, viene qui presentata una summa del percorso culturale tra Tarda Antichità e Umanesimo che interpreta Didone soprattutto come regina casta senza dimenticare però la presenza di Virgilio.

Nel Cinquecento si assiste a una rinascita della Didone virgiliana. Una delle prime tragedie moderne in volgare si intitola Dido in Cartagine (1524), scritta da Alessandro Pazzi de’ Medici. Da questo momento in poi numerosissime sono le tragedie, in varie lingue europee, che mettono in scena la storia di Didone, tra queste The Tragedy of Dido, Queen of Carthage, scritta probabilmente nel 1586 per una compagnia di bambini da Christopher Marlowe.1 Il tragediografo riscrive soprattutto il modello virgiliano, recuperando anche l’antefatto narrato nel I libro e non ispirandosi solo al IV. A detta dello studioso, si tratta di una riscrittura non secondo i precetti aristotelici né a imitazione del teatro senecano, ma di una “tragedia epica”, cioè una rielaborazione in senso tragico dell’ epos virgiliano che ne preserva la simbologia. Tuttavia, lo studioso, pur nominando Shakespeare, non rende conto dell’importante tradizione teatrale dell’Inghilterra elisabettiana, che—come si evince dal testo di Marlowe, qui proposto nella traduzione dello studioso—non mancò di influenzare l’opera. Ziosi preferisce soffermarsi sul modo in cui l’autore inglese si rapporta a Virgilio e anche a Ovidio, segnalando i passi in cui è più vicino o al contrario si discosta dai suoi modelli.

All’incirca due secoli più tardi la vicenda di Didone darà inizio alla rivoluzione librettistica del melodramma moderno con la Didone abbandonata (1724) di Pietro Metastasio. Anche in precedenza il dramma della regina cartaginese era stato messo in musica: un esempio su tutti è il capolavoro di Henry Purcell Dido and Aeneas (1689). Ma il testo di Metastasio, che ebbe una fortuna immensa e fu musicato da numerosi musicisti, è particolarmente rappresentativo della cultura Settecentesca. Il poeta ridimensionò l’aspetto eccessivamente spettacolare delle opere secentesche, ripropose il culto dei classici, proprio dell’ Arcadia, e ricercò una chiarezza razionale nello sviluppo della trama e della psicologia dei personaggi. L’opera è comunque una rielaborazione della vicenda classica, tutta giocata sui contrasti generati da amori non corrisposti, rielaborazione probabilmente influenzata dal teatro francese e da Racine in particolare. L’inserimento nella raccolta delle opere di Marlowe e di Metastasio è senz’altro un’ottima scelta perché sono testi esemplificativi di un determinato modo, tipico di due ambiti culturali diversi e secondo parametri e scopi differenti, di rileggere i testi classici.

Due brevi testi poetici del Novecento chiudono questa lunga panoramica sulla fortuna di Didone. Il primo, del poeta italiano Giuseppe Ungaretti (prima edizione 1950), è costituito da 19 frammenti e non trovò mai una forma organica e definitiva. Il titolo, Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, mostra un intento musicale dell’opera, dichiarato da Ungaretti stesso, forse con un rimando (inconscio?) alla struttura della tragedia greca. In essi viene descritto il dolore della regina abbandonata e disperata nella sua solitudine, piena di vergogna ma ancora immersa nei ricordi di un tempo felice. In questi versi Didone diviene, secondo Ziosi, un simbolo dell’abbandono della giovinezza e di quella giovinezza passata in Egitto da Ungaretti stesso. La densa poesia di Iosif Brodskij (1969) descrive un uomo e una donna, senza nome se non fosse per il titolo Didone e Enea, a conferma di quell’idea di contemporaneità ideale tra poesia classica e tempo presente. L’uomo guarda fuori dalla finestra in un atteggiamento che simboleggia il desiderio di partire, l’amore della donna è descritto con metafore marine che alludono al futuro viaggio per mare dell’amato. Alla fine il rogo su cui muore la regina e la caduta tra le fiamme di Cartagine si uniscono in un’unica immagine, che prefigura la fine della città. Insomma, questi due ultimi esempi dimostrano come nel Novecento il mito abbia assunto una dimensione “quotidiana” a rappresentare il dolore di ciascuno.

Questa raccolta di variazioni sul mito di Didone presenta i differenti modi in cui la medesima vicenda e il suo nucleo centrale di amore, abbandono e morte è stata riletta e reinterpretata nei secoli. I testi scelti sono gli esempi più significativi di queste riletture e la corposa introduzione di Ziosi è un mezzo prezioso per districarsi nella selva delle varie interpretazioni.

Notes

1. Ziosi si è occupato del rapporto tra Virgilio e Marlowe in Didone regina di Cartagine di Christopher Marlowe: metamorfosi virgiliane nel Cinquecento, Roma (Carocci) 2015.