BMCR 2018.02.38

Dall’Oriente a Roma: Cibele, Iside e Serapide nell’opera di Varrone. Testi e studi di cultura classica, 65

, Dall'Oriente a Roma: Cibele, Iside e Serapide nell'opera di Varrone. Testi e studi di cultura classica, 65. Pisa: Edizioni ETS, 2017. 255. ISBN 9788846745910. €22.00 (pb).

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Il volume, che rientra nella collana Testi e studi di cultura classica, si propone di studiare la rappresentazione delle divinità orientali nel complesso della produzione varroniana. Un particolare rilievo è attribuito alla definizione dei contesti spaziali in cui sono rappresentate le divinità orientali; Varrone cita in particolare Cibele/ Magna Mater, Iside e Serapide, ma non manca qualche riferimento a Attis, Apis, Arpocrate e Anubis. Come spiega l’autrice nell’ Introduzione (pp. 11-23), l’importanza di Cibele, Iside e Serapide a Roma è attestata dai reperti archeologici e dalle testimonianze epigrafiche, non meno che dai riferimenti letterari. Cibele o Magna Mater ha uno statuto eccezionale, quello di essere divinità insieme straniera e nazionale; è straniera, ma anche romana, al punto che il suo tempio sorge sul Palatino. Iside e Serapide, a differenza della Mater Magna, non erano oggetto di un culto di carattere ufficiale a Roma, ma erano comunque venerati in una dimensione di tipo privato. Varrone è una fonte importante per conoscere l’origine di questi dèi, le letture allegoriche delle loro figure, i rituali ad essi connessi.

Cibele e gli dèi Egizi sono menzionati in cinque opere varroniane: le Saturae Menippeae, le Antiquitates rerum divinarum, il De lingua Latina, il De gente populi Romani e il De vita sua. Il volume comprende due sezioni, una dedicata a Cibele, la seconda a Iside e Serapide.

La figura di Cibele ricorre nei brani conservati di tre diverse opere di Varrone: le Saturae Menippeae, le Antiquitates rerum divinarum e il De lingua Latina. Emerge da questi testi un interesse per i rituali more Phrygio rifiutati dal potere romano e praticati a carattere privato, per lo più all’interno del santuario palatino della Grande Madre. Nell’episodio di Cibele della satira Eumenides e in un paio di frammenti in galliambi appartenenti ad altre menippee (i frr. 79 e 540 dell’edizione curata da Buecheler, d’ora in avanti B.) sembrerebbero esservi infatti riferimenti a cerimonie legate al ciclo dei riti di marzo in onore di Attis. Nelle Eumenides avrebbe occupato un particolare rilievo la descrizione del cruento rituale di auto-emasculazione dei Galli che aveva luogo il 24 marzo, il dies sanguinis, mentre i frr. 79 e 540 B. alluderebbero a cerimonie di compianto legate alla rievocazione prematura di Attis. Le Menippeae, secondo la studiosa, rappresenterebbero la prima testimonianza letteraria del culto more Phrygio di Cibele a Roma, nonché l’unica attestazione dell’esistenza del ciclo dei rituali di marzo in età repubblicana, circa un secolo prima rispetto al loro riconoscimento di carattere ufficiale. La studiosa ritiene, attraverso un confronto puntuale, che alcuni versi varroniani possano essersi ispirati all’ Attis di Catullo (carme 63); se però in Catullo i riti legati ad Attis sono relegati in una realtà esotica, i verdi gioghi dell’Ida, nelle Menippeae l’invasamento cibelico trova il suo habitat nello spazio protetto dell’Urbe, nel cuore di Roma, sul Palatino; Varrone esprime il suo orrore e la sua condanna verso riti non integrabili nel contesto romano. Il fr. 79 B. può essere confrontato con il v. 12 e il v. 30 del carme catulliano; il fr. 131 B. e il v. 22 del carme 63 del Veronese trattano dello stesso strumento musicale, il flauto frigio; per quanto riguarda il fr. 275 B. si possono indicare quali punti di contatto con il v. 17 dell’ Attis, l’uso del rarissimo verbo evirare ed il riferimento a Venere. L’uso del galliambo nel frammento varroniano, a parere della studiosa, è funzionale a evocare indirettamente, con il verbo evirare, il culto della Grande Madre con i suoi sanguinosi rituali. Infine il fr. 133 B. in settenari giambici ( apage in dierectum a domo nostra istam insanitatem) sembra una riformulazione in metro e linguaggio da commedia del patetico appello finale del carme catulliano (63, 92, procul a mea tuos sit furor omnis, era, domo). L’oggetto di repulsione è lo stesso in entrambi i luoghi: la follia del culto cibelico, indicata con il termine furor in Catullo e insanitas in Varrone. Nelle Antiquitates rerum divinarum Varrone identifica la Magna Mater con la dea Tellus, laddove Lucrezio e Servio forniscono esegesi differenti; egli cerca di collegare la Magna Mater ad origini romane, anziché greche. Nel breve riferimento alla storia del culto cibelico a Roma presente nel De lingua Latina (6,15), l’esigenza di ricondurre l’etimologia delle feste in onore della Magna Mater, le Megalesie, al nome del tempio di Cibele a Pergamo, il Megalesion, potrebbe essere stata funzionale anche a sottolineare il legame delle feste romane in onore della Grande Madre con il mondo ellenistico, maggiormente familiare per i Romani, piuttosto che con la patria frigia della dea. Varrone tratta la materia cibelica con toni diversi, passando dall’irridente sarcasmo dei frammenti menippei sui Galli alla coloritura spiccatamente teologica e didascalica dell’esegesi allegorica offerta nelle Antiquitates, fino al precettismo della breve, ma dettagliata notazione relativa al culto della Magna Mater nel De lingua Latina. L’oscillazione tra rifiuto e integrazione nei confronti della Magna Mater, che emerge dal contrasto tra la dissacrante condanna dei rituali more Phrygio di Cibele presente nelle Menippeae e l’inclusione di fatto di questa dea nel novero degli dèi praecipui atque selecti proposta nelle Antiquitates, sembra rispecchiare la duplicità dell’approccio che le autorità romane, ancora alla fine dell’età repubblicana, avevano nei confronti della Mater Magna, celebrata ufficialmente more Romano dal popolo tutto e dall’aristocrazia durante le Megalesie, ma privatamente celebrata anche more Phrygio dai Galli durante il ciclo dei rituali di marzo, interdetti ai cittadini romani. Da notare che Varrone utilizza solo le denominazioni romane della Grande Madre, perché ne parla come dea romana, e non frigia; in lui emerge la volontà di romanizzazione di Cibele, e insieme il rifiuto della componente frigia del suo culto.

Per quanto riguarda i riferimenti a Iside e Serapide, nelle Saturae Menippeae la studiosa intravede un’allusione al culto di Iside nel frammento 191 B., suggerita già da Lucian Mueller alla fine dell’Ottocento. Il rilievo che la critica alle divinità egizie doveva rivestire nelle Menippeae trova conferma in un gruppo di frammenti appartenenti alla satira Eumenides nei quali l’ironia si appunta contro Serapide; si tratta dei frammenti 128, 129, 138, 139 e 152 B. I frr. 128 e 129 B. alludono al costo delle cure offerte dal dio egizio; i frr. 138 e 139 B. descrivono un’ incubatio, mentre il fr. 152 B. informa circa un utilizzo di Serapide a fini medici. Nella trama delle Eumenides, una satira che ha come Leitmotiv quello della pazzia, secondo la ricostruzione della Rolle, il protagonista avrebbe potuto recarsi presso il tempio di Serapide nella speranza di guarire dalla propria insania. Viene forse avvicinato da un fedele, che avrebbe pubblicizzato le doti mediche del dio affermando di usarlo a mo’ di medicina e di sottoporsi ogni giorno a degli incantamenti (fr. 152 B.). Il protagonista-narratore potrebbe poi aver descritto ai propri ospiti la sua personale esperienza di terapia serapica, narrando l’ incubatio cui si sarebbe sottoposto per curare la propria insania. Gli sarebbe apparso in sogno Serapide, che gli prescrive una dieta a base di cipolla e crescione (fr. 138 B.). Il protagonista descrive quindi la sua uscita dal tempio col calore del sole avvertito in modo intenso a causa della debolezza del corpo, uscito dall’epifania divina tutt’altro che fortificato (fr. 139 B.). Vi sarebbe inoltre un diverbio tra il protagonista e un sacerdote del dio egizio in relazione al costo dell’ incubatio. A parere della studiosa Serapide è oggetto di bersaglio polemico anche di un’intera menippea: lo Pseudolus Apollo, l’ Apollo bugiardo. La studiosa condivide l’identificazione proposta da Buecheler dello Pseudolus Apollo del titolo con il dio Serapide. I frammenti traditi, infatti, sembrerebbero far riferimento a due specifiche pratiche rituali per dimostrare la differenza tra il culto di questi due dèi. Viene messo in rilievo il diverso carattere delle loro processioni, con la sottolineatura del procedere quasi randagio dei cori in onore di Serapide, composti da gruppi di fanciulli e fanciulle dei quali non è ritenuto necessario ricordarsi neanche l’esatto numero dei componenti (fr. 438 B.). Anche l’uso di togliersi i sandali sarebbe stato addotto come marca distintiva dei templi di Serapide in opposizione a quelli di Apollo, ai quali si accedeva invece calceati, come d’uso nei templi delle divinità greco-romane. Tertulliano nell’ Ad Nationes fa una citazione varroniana tratta verosimilmente dal primo libro delle Antiquitates rerum divinarum, che riprende poi nell’ Apologeticum (si tratta dei frammenti 46a e 46b secondo l’edizione di Cardauns). Gli dèi egizi vengono menzionati in relazione ad uno specifico episodio di repressione del loro culto, avvenuto il 1° gennaio del 58 a. C., ad opera del console A. Gabinio, che fece emanare dal senato un provvedimento volto alla distruzione degli altari degli dèi egizi eretti sulla rocca capitolina. L’episodio sarebbe stato scelto da Varrone come esempio destinato a illustrare l’unità e la saldezza del ceto aristocratico in materia di politica religiosa contro la violenta demagogia dei populares, che vorrebbero celebrare in Campidoglio riti per gli dei egizi. Il problema non è il culto privato di Iside e Serapide a Roma, che è permesso, ma la pretesa da parte dei populares che tali dèi vengano onorati a fianco di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, pur essendo dèi stranieri privi di riconoscimento ufficiale. Nel V libro del De lingua Latina (5, 57), trattando le etimologie divine, Varrone accosta la coppia primordiale Cielo e Terra con due altre coppie, l’una egizia, Iside e Serapide, l’altra latina, Saturno e Ops. A parere della studiosa nel passo si riflette un’evoluzione in chiave cosmogonica dell’identificazione egizia di Iside con la terra (intesa come campagna) e di Osiride con il Nilo (in quanto suo elemento fecondatore). Il breve riferimento agli dèi egizi nel De lingua Latina si conclude con la menzione di una terza divinità, il loro figlio Arpocrate, rappresentato come un bambino che si porta l’indice della mano destra alla bocca (è la prima menzione esplicita della posa di questo dio-infante, considerata come un’esortazione a tacere). Nel passo la Rolle vede in definitiva le tracce di un’ interpretatio greco-romana degli dèi egizi, identificati con la coppia cosmogonica Terra e Caelum, e di Arpocrate come figura del segreto mistico. Da un passo di Carisio (fr. 1 Peter) apprendiamo che Varrone anche nel De vita sua menzionava Iside e Serapide, declinandoli come due temi appunto in vocale, e non in consonante. In definitiva nei frammenti superstiti delle Menippeae e delle Antiquitates rerum divinarum Iside e Serapide appaiono oggetto di critica e sarcasmo. Dei loro riti viene sottolineata la diversità e la lontananza rispetto ai sacri rituali dei maiores. Nel De lingua Latina il riferimento è privo di toni polemici, sebbene le due divinità siano per così dire relegate alla sfera egizia. Nei passi del De gente populi Romani si presenta una versione evemeristica dell’origine delle due divinità. Anche Cicerone nei suoi due trattati religiosi ( De natura deorum e De divinatione), pur riconoscendo che siano delle divinità, nega che la presenza del loro culto a Roma comporti ipso facto un riconoscimento ufficiale del loro statuto divino. Negli anni quaranta del I secolo a. C. era dunque vivo il dibattito sul ruolo da attribuire a Iside e Serapide; Cicerone e Varrone assumono toni polemici parlando di queste divinità solo quando questi dèi sono considerati in rapporto alla loro presenza nell’Urbe: essi, per i due scrittori, rimangono inconciliabili rispetto all’identità religiosa romana. Allo stesso modo Cicerone e Varrone integrano nel pantheon romano Cibele/ Magna Mater, a patto di romanizzarla del tutto, cancellando, però, i suoi tratti frigi. In definitiva l’opera di Varrone rispondeva alla crisi identitaria della civiltà romana avvertita anche da Cicerone e forniva una risposta nel momento in cui andava a sistematizzare le varie componenti del patrimonio religioso, individuando e condannando quanto romano non era, né poteva essere, come il culto frigio di Cibele e il culto degli dèi egizi. In epoca imperiale, però, Cibele fu associata a Magna Mater e Iside e Serapide sarebbero stati gradualmente integrati all’interno di una religione romana, conscia di dover assumere sempre più un ruolo e un carattere ecumenico.

Il volume, che riesce a fornire, grazie all’attenta analisi dei passi varroniani e alle nuove convincenti interpretazioni fornite, una fedele ricostruzione del mondo in cui i Romani nell’ultima fase della repubblica guardano a queste divinità orientali, è corredato di un’esaustiva Bibliografia (pp. 223-236), dell’ Indice dei passi citati (pp. 237-247), dell’ Indice delle fonti epigrafiche e papiracee (p. 249), dell’ Indice dei nomi e delle cose notevoli (pp. 251-255) e di un Indice finale (p. 257). Esso sarà un utile riferimento sia per gli studiosi varroniani, sia per gli storici delle religioni.

Tavola dei Contenuti

Prefazione 7
Introduzione 11
Parte prima. Cibele 25
Premessa 27
Cibele nelle Saturae Menippeae 31
Megalesie e riti di marzo nelle Eumenides 31
Il culto cibelico negli altri frammenti menippei 71
Le Menippeae e l’ Attis di Catullo 87
Cibele nelle Antiquitates rerum divinarum 93
Cibele nel De lingua Latina 105
Cibele e Mater Magna : tra rifiuto e integrazione 117

Parte seconda. Iside e Serapide 123
Premessa 125
Iside e Serapide nelle Saturae Menippeae 129
Riti di iniziazione notturni 129
Una incubatio nelle Eumenides 139
Serapides o lo Pseudolus Apollo? 165
Iside e Serapide nelle Antiquitates rerum divinarum 177
Iside e Serapide nel De lingua Latina 187
Iside e Serapide nel De gente populi Romani 193
Iside e Serapide nel De vita sua 209
Iside e Serapide: un’ostilità politica? 213

Bibliografia 223
Indice dei passi citati 237
Indice delle fonti epigrafiche e papiracee 249
Indice dei nomi e delle cose notevoli 251