BMCR 2017.10.75

Heliodors ‘klassische’ Ekphrase

, Heliodors ‘klassische’ Ekphrase: die literarische Visualität der Aithiopika im Vergleich mit ihren Vorläufern bei Homer und Herodot sowie ihrer Rezeption bei Miguel de Cervantes. Orbis antiquus, 51. Münster: Aschendorff Verlag, 2017. x, pp. 360. ISBN 9783402144572. €52.00 (pb).

L’analisi del modo in cui un autore riesce con le proprie parole a dare vita a un’immagine e a renderla visibile agli occhi dei suoi ascoltatori o lettori, attraverso una breve o lunga descrizione, ha avuto un grande impulso negli ultimi anni. In particolare, il tema dell’occhio e della sua funzione, del vedere e dell’essere visti, il tipo di sguardo costituiscono motivi ricorrenti in molta della produzione letteraria greca, a vari livelli e in diversi ambiti. Nel romanzo, in particolare, si riflettono acquisizioni scientifiche e credenze popolari affinate dalla scienza, e filtrate spesso attraverso la mediazione di altre opere letterarie, e si colgono significativamente anche echi di teorie ottiche.1

L’attenzione oggi rivolta in molti studi allo ‘sguardo’ dello scrittore, e alle strategie adottate per guidare lo ‘sguardo’ dell’ascoltatore o del lettore nel percorso di progressiva visualizzazione di ciò che si sta descrivendo, si avvale in ogni caso degli approfondimenti riguardanti la tecnica dell’ ekphrasis, da intendere in senso esteso e non limitato alla descrizione di un’opera d’arte, e i concetti a essa strettamente legati ( energeia, enargeia, evidentia), e dell’applicazione degli schemi e dei metodi dell’analisi narratologica.

Lo studio di Menze si inserisce, come dichiarato nell’introduzione (I. Einführung, pp. 1-4), nella “Ikonische Wende” degli ultimi decenni. Le lunghe ekphraseis contenute negli antichi romanzi, soprattutto in quelli cosiddetti sofistici, rendono necessario esaminare più da vicino e nel dettaglio, anche in prospettiva diacronica, un legame che appare evidente fra “Literarische Visualität” e “Antiker Roman” (p. 1). Menze intende così integrare e ampliare le analisi dedicate a questo aspetto del romanzo, conducendo una ricerca diacronica delle tecniche descrittive, della loro struttura e delle loro funzioni: pur all’interno di linee guida a cui gli autori si attengono, consapevolmente o inconsapevolmente (come noto, l’ ekphrasis viene teorizzata solo in epoca imperiale), non esiste uno schema fisso e rigido per l’ ekphrasis, come Menze mette spesso, e giustamente, in rilievo.

La ricerca di precursori e di modelli del romanzo antico risale al primo studio fondante di Erwin Rohde ( Der griechische Roman und seine Vorläufer, 1876); nel lavoro di Menze essa è limitata a due autori, Omero ed Erodoto, e mira a essere più specifica: continuità e somiglianze, oppure novità e differenze, emergono da un capillare, sistematico e ampio confronto dei testi. La scelta di questi autori, tra i molti che potrebbero essere messi a confronto, viene motivata in base al fatto che essi sono maggiormente rappresentativi dei rispettivi generi letterari e delle caratteristiche dell’ ekphrasis (pp. 56-62). Nel romanzo sofistico l’ ekphrasis ha un posto centrale; bisogna allora chiedersi fino a che punto la tecnica compositiva e di inserimento delle descrizioni ecfrastiche sia ideata e applicata già nei precursori classici del romanzo, e fino a che punto il romanzo stesso di Eliodoro poté essere a sua volta considerato un classico a questo riguardo (p. 57). Omero appare così, nella prospettiva diacronica proposta da Menze, il primo modello; Erodoto ha il ruolo di mediatore, considerando la sua stretta relazione con l’epos omerico; ed Eliodoro è un classicista, in quanto fa riferimento a modelli classici, ma diventa a sua volta un classico, da imitare e superare, per Miguel de Cervantes (da qui, il titolo del libro: “Heliodors ‘klassische’ Ekphrase”).

I criteri e i metodi che guidano l’analisi sono esposti nel secondo capitolo (II. Methodenkapitel, pp. 5-62), in cui si fa un più diretto riferimento alle teorie letterarie moderne, debitrici, pur con le dovute e ovvie differenze, di quelle antiche. Dal punto di vista antico, sono centrali alcune nozioni, su cui Menze si sofferma, esaminando i testi di Aristotele ( Rhetorica, Poetica), dello Ps.-Longino ( De sublimitate), di Cicerone ( De inventione, Partitiones oratoriae, De oratore), dell’Autore della Rhetorica ad Herennium, di Quintiliano, e dei retori di età imperiale, Elio Teone, Ps.-Ermogene, Aftonio e Nicolao (ai quali si devono la definizione e l’elaborazione teorica dell’ ekphrasis): ἐνέργεια, ἐνάργεια, πρὸ ὀμμάτων ποιεῖν, ὑπ᾽ὄψιν ἄγειν, φαντασία, εἰδωλοποιία, σαφήνεια, ἡδονή, evidentia, demonstratio, ante oculos ponere, sub aspectum subicere. In una breve nota (p. 19, n. 71) Menze spiega i motivi per cui non ha incluso nell’esame Demetrio, Dionigi di Alicarnasso e Orazio. In realtà Demetrio avrebbe forse meritato qualche considerazione, per le osservazioni che l’autore fa sugli ὀνόματα che possono risultare piacevoli sia alla vista sia all’udito ( De elocutione 173-174).

Nell’analisi delle singole opere, distribuita in capitoli (III. Homers Odyssee, pp. 63-118; IV. Herodots Historien, pp. 119-173; VI. Heliodors Aithiopika, pp. 189-285) si segue questo schema (rivelatore dell’impianto teorico basilare), che Menze presenta e discute preliminarmente (pp. 43-56): 1. Einleitung; 2. Formelle Analyse; 2.1 Ebene der Deskripteme; 2.2 Ebene der Deskription; 2.3 Ebene des literarischen Werkes; 2.3.1 Art der narrativen Vermittlung der Ekphrasen; 2.3.2 Strukturtypen der Beschreibung; 2.3.3 Sprachliche Angebundenheit der Ekphrasen; 2.3.4 Objekt der Beschreibung; 2.3.5 Rezeptionsbezogenheit und Funktionalität der Ekphrase. Si procede poi a un esame dettagliato dei passi scelti in ciascun caso. I contributi più significativi consistono proprio nell’esauriente indagine condotta a livello formale, stilistico e lessicale; nell’attenzione rivolta all’uso dei tempi, al loro valore aspettuale, importante per capire la prospettiva da cui ci si pone, e al diverso rapporto che gli autori stabiliscono tra passato e presente: la categoria del tempo, fondamentale, insieme con quella dello spazio, per capire la struttura narrativa e i suoi piani, è applicata con successo all’analisi romanzo greco, anche in questo studio. Altri interessanti risultati riguardano l’individuazione delle principali funzioni (ornamentale, strutturale, semantica, psicagogica), e dei fulcri (focalizzazione su oggetti, luoghi, persone, eventi, creature straordinarie, piante, animali, edifici, …) dell’ ekphrasis; i livelli (extradiegetico, intradiegetico) in cui essa si colloca; la sua contestualizzazione linguistica e semantica, la sua motivazione implicita o esplicita, le connessioni intratestuali o intertestuali, il grado di ampiezza e di completezza, e di elaborazione linguistica (uso oculato di sostantivi e dei loro epiteti, di verbi e avverbi, di particelle e di nessi preposizionali) e stilistica (paragoni e similitudini, sinestesie e metafore). L’insieme dei mezzi tecnici e delle modalità espressive è finalizzato a creare effetti visivi, tenendo conto della ricettività, delle reazioni e del gusto del potenziale pubblico, spettatore interno ed esterno al racconto.

La scelta dell’ Odissea, invece dell’ Iliade, che contiene la notissima ed emblematica descrizione dello Scudo di Achille (18.478-613), considerata già dagli antichi una mimesis, sorprende in un primo momento il lettore. Menze la giustifica con le peculiarità che questo poema ha nei confronti dell’ Iliade, e osserva, riprendendo le parole di Jonas Palm, “dass die Erzählung der Odyssee an sich sehr ekphrastisch ist” (p. 65). Sull’ ekphrasis dello Scudo di Achille, definita prototipo di tutte le descrizioni di opere d’arte, e per questo diversa, secondo Menze, dalle ekphraseis contenute nell’ Odissea, torna brevemente (pp. 115-118) mettendo in evidenza due note particolarità (“Die erste Besonderheit besteht in der Beschreibung des Entstehungsprozesses des Schildes sowie der Lebendigkeit der Schildbeschreibung”; “Die zweite Besonderheit betrifft den Paragone, den Wettkampf der Dichtung mit den plastischen Künsten”). In questa sezione emerge una categoria interpretativa ricorrente: l’opposizione tra ekphrasis statica e ekphrasis dinamica, a seconda dell’oggetto e del modo di descriverlo. Essa è certamente utile per cogliere tendenze e preferenze dei singoli autori, ma un netto confine tra le due tipologie appare difficile da stabilire, come d’altra parte anche Menze ammette (vd. per es. pp. 118; 128; 277). Dal punto di vista di Aristotele, che riconosce a Omero la capacità di dare movimento e vita a tutte le cose, l‘ energeia è kinesis ( Rhetorica 1412a 10): il principio di rendere animato l’inanimato ( Rhetorica 1411b 10) resta largamente condiviso e applicato dagli autori fin dall’Antichità. Inoltre, anche quando si descrive un oggetto non in movimento, l’occhio dell’ascoltatore o del lettore è guidato da una sapiente tecnica, per cui le immagini sono presentate in una efficace sequenza e concatenazione, a seguire un percorso visivo, a fermarsi su questo o quel particolare: ne risulta una visione dinamica.

Il capitolo riguardante Erodoto si apre opportunamente ricordando un passo dell’Anonimo del Sublime, secondo cui Erodoto trasforma in visione quello che si ascolta (26.2 τὴν ἀκοὴν ὄψιν ποιῶν), e lo stretto rapporto che lega le Storie all’epos omerico. Dall’analisi dei passi vengono esclusi gli excursus geografici e quelli etnografici (p. 123). L’esclusione dei primi viene motivata dal fatto che le descrizioni di questo tipo appaiono come una specie di carta geografica, “nicht jedoch als eine zusammenhängende, anschauliche Topothesie”. Ma forse proprio da essi si potrebbe capire meglio come si integrino, nella descrizione erodotea, un punto di vista odologico e uno cartografico dello spazio.2 L’analisi dettagliata di molti passi è conclusa da alcune considerazioni sul forte contrasto, in Erodoto, tra passato e presente: “Herodot führt dem Leser auch vor Augen, was nicht mehr da ist” (p. 173). Segue una ricapitolazione (V. Synopse: Die ‘klassische’ Ekphrase bei Homer und Herodot, pp.175-187) delle caratteristiche e delle differenze che contraddistinguono la tecnica ecfrastica in Omero e in Erodoto, e dei principali elementi che costituiscono il nucleo dell’ ekphrasis classica presenti in entrambi (“eine Verdichtung des Ausdrucks […], eine klar strukturierte Gliederung gerade der längeren Ekphrasen sowie die damit verbundene Technik der Beschreibungskette”, p. 187). Questo incontro di elementi fissi e di flessibilità rappresenta una straordinaria potenzialità per l’imitazione dell’ ekphrasis classica.

La sezione dedicata a Eliodoro (VI. Heliodors Aithiopika, pp.189-285) ripercorre nell’introduzione alcune posizioni degli studiosi soprattutto riguardo al collegamento tra ekphrasis e Seconda Sofistica, sul rapporto tra descrizione e azione, e sul confronto con il romanzo di Achille Tazio, che contiene numerose ekphraseis. Menze mette in evidenza che il romanzo di Eliodoro è il più complesso, tra quelli antichi, dal punto di vista narrativo, e che resta insuperato per quanto riguarda la tecnica di visualizzazione. Il carattere metanarrativo e metapoetico di alcuni passi costituisce, insieme con l’esemplarità delle descrizioni e del loro inserimento nella narrazione, uno dei motivi per cui Cervantes emula Eliodoro, aspirando a superarlo. Il contrasto tra arte e natura, e la tendenza alla teatralità sono altrettanti punti che accomunano i due autori, come Menze sottolinea nel penultimo capitolo (VII. Cervantes’ Persiles), in cui affronta brevemente un aspetto molto indagato dagli studiosi: la fortuna di Eliodoro nel Cinquecento e nel Seicento. Nell’ultimo capitolo (VIII. Resümee) si delineano le linee di ricerca seguite e i risultati. Nel confronto tra Eliodoro e Cervantes (la cui “metapoetica” [Menze, p. 328] risente anche del neoaristotelismo del suo tempo), emerge in particolare una differenza: “Während Heliodor den Grundgedanken der Ekphrastik, eben jenes ‘Sehenmachen durch Worte’, einschließt, sind Cervantes die narrative Anbindung der Ekphrasen sowie die Orientierung am Publikumsgeschmack offensichtlich wichtiger” (p. 328). Le teorie retoriche antiche hanno avuto una decisiva influenza sull’estetica moderna, come noto: in particolare, il concetto aristotelico di eusynopton (di ‘ciò che può essere facilmente abbracciabile con lo sguardo’), applicato al discorso, e la riflessione aristotelica sulla complessità della comunicazione linguistica hanno favorito nel tempo il formarsi di una teoria della ricezione.

Consapevole della complessità e della vastità del tema trattato, Menze accenna, concludendo, ad alcune questioni che rimangono aperte. In ogni caso, questo lavoro costituisce un documentato e notevole contributo all’approfondimento di molti aspetti della tecnica ecfrastica e della sua utilizzazione nel romanzo, e si rivolge in modo particolare agli specialisti in vari settori (anche studiosi e teorici della letteratura e linguisti), e inoltre a chi voglia comprendere meglio le potenzialità espressive del romanzo greco e la sua influenza sulla narrativa occidentale.

Notes

1. Rinvio brevemente a un mio saggio: M.F. Ferrini, ‘Τῶν ὀφθαλμῶν ἅλωσις: echi di teorie ottiche nella narrativa greca’, A. I. O. N. (sezione filologico-letteraria) 15 (1993) pp. 145-168.

2. Vd. A.C. Purves, Space and Time in Ancient Greek Narrative, Cambridge 2010.