Il volume di Cecilia Nobili, Corone di gloria. Epigrammi agonistici ed epinici dal VII al IV sec a.C, si propone di analizzare i rapporti di influenza reciproca tra epigrammi agonistici ed epinici come forme alternative, e talvolta complementari, per la celebrazione delle vittorie degli atleti. Il testo si apre con un’ampia introduzione (pp. 1-10), che delinea i criteri metodologici seguiti nell’indagine. Da un lato si intende ripercorrere diacronicamente l’evoluzione storica dell’epigramma agonistico, e dall’altro di offrire un quadro sincronico fondato sul raffronto sia tematico che linguistico tra epigrammi ed epinici. Nel corso dell’analisi l’autrice si propone di prestare una maggiore attenzione all’aspetto letterario delle iscrizioni epigrammatiche, che è un punto rimasto finora ingiustamente trascurato.
Il primo capitolo (pp. 13-56) è incentrato sui più antichi epigrammi agonistici finora noti, generalmente iscritti su attrezzi sportivi dedicati alla divinità, e tutti raccolti da Nobili sotto l’etichetta di “oggetti parlanti” (cfr. pp. 16 e 45). Tuttavia, questa categoria è impiegata in maniera piuttosto indefinita, poiché raccoglie non solo iscrizioni ed epigrammi ove a parlare sia l’oggetto su cui è inciso il testo (cfr. l’espressione in prima persona: μ’ἀνέθηκεν), ma anche altri in cui l’offerta è descritta come il prodotto di una dedica o della perizia di un artista (secondo la formula alla terza persona: ὁ δεῖνα τόνδ’ ἀνέθηκεν). Recentemente Wachter è ritornato sulla questione, insistendo sulle difficoltà linguistiche che comporterebbe una tale interpretazione.1 In realtà già Burzachechi aveva distinto questi due casi, riconducendoli a due modi differenti di intendere il prodotto materiale offerto, nonché a contesti culturali eterogenei.2 La statua votiva, per esempio, è progressivamente intesa come oggetto d’arte, su cui l’artista o il committente cercano di catalizzare l’attenzione di chi la osserva. È questo il caso dei cosiddetti epigrammi ecfrastici, che sono oggetto dell’analisi del secondo capitolo (pp. 57-74). Qui a parlare non è più la pietra o il monumento poiché questi, al contrario, diventano l’oggetto di un discorso critico non solo storico, ma anche estetico.3 Inoltre, i passi di Pindaro citati dall’autrice non considerano adeguatamente i riferimenti metaforici all’artificio degli oggetti “parlanti” presenti nell’epinicio. Ad esempio, posto che in Nemea 8.46 λάβρος sia la lezione corretta del testo, Nobili non sembra cogliere in pieno il significato del passo pindarico. Il poeta, infatti, qui come altrove (cfr. Nemea 5.1-5) intende contrapporre all’immobilità della statua, nonché alla capacità comunicativa deficitaria dell’epigrafe, la sua “pietra poetica”, che possiede non solo la durevolezza del supporto lapideo, ma anche la vivacità della parola veicolata dall’epinicio.4 Per questo subito dopo esprime la gioia per aver fatto volare un canto appropriato alle azioni celebrate ( Nemea 8.48-49). In Pindaro, dunque, non vi è solo la traccia dell’idea delle statue o degli oggetti parlanti, ma anche la contrapposizione a questa idea della perizia verbale riconosciuta al solo epinicio, che è il medium celebrativo concorrenziale a quello epigrafico. Similmente, in Pitica 6.7-8 il poeta assimila la sua ode ad un “tesoro di inni”, insistendo sulla superiorità della parola poetica rispetto a quella incisa nel marmo o nella pietra (cui accenna molto rapidamente l’autrice a p. 59). Nel terzo capitolo (pp. 75-91), invece, sono presi in considerazione diversi casi di epigrammi ed epinici (benché venga riportato solo il testo dei primi) ove emerge la tendenza nel corso del tempo a conferire maggiore rilievo all’abilità tecnica dell’atleta, a detrimento del valore votivo dei testi. Segue un breve capitolo (pp. 95-102), che indaga il motivo della fama negli epigrammi agonistici, con interessanti, benché cursori accenni al medesimo tema in alcuni epinici.
Nel quinto capitolo (pp. 103-137) Nobili analizza gli elenchi delle vittorie ottenute dagli atleti, così come sono riportati sia nelle iscrizioni, che negli epinici. L’autrice mette in rilievo l’attitudine presente in questi testi a evitare la monotonia di meri elenchi per assumere con il tempo una veste stilistica più elaborata, postulando l’influenza degli epinici. Tuttavia, non sempre le supposte influenze sono condivisibili: per esempio il verbo στέφομαι in CEG 814 (p. 108 sgg.), prima ancora di rimandare ad “una prassi tipica del linguaggio epinicio” (p. 111), riproduce un motivo topico, l’autoincoronazione dell’atleta, “ricorrente negli epigrammi e nelle odi” ( ibid.), che delinea il momento più importante della celebrazione di un atleta. Inoltre, in questa stessa iscrizione il sostantivo κειμήλιον è attestato anche in altri autori (p. 111, n. 41), mentre l’aggettivo θηροτρόφος appare nei tragici (cfr. Eur. Bac. 556 e Ph. 820; vedi p. 129) e δρυοστέφανος costituisce un inatteso hapax. Di conseguenza, l’autore di questo epigramma sembra aver considerato non solo epinici, ma anche altri modelli poetici e probabilmente era dotato di una perizia tecnica tale da riuscire a coniare nuove parole.
Nel capitolo 6 (pp. 139-158), invece, Nobili esplora il kleos trasmesso dall’atleta vincitore alla città di appartenenza. Si tratta di una sezione ove il rapporto tra iscrizioni ed epinici è esaminato in termini più dettagliati, anche se permane una certa ambiguità nell’approccio ai testi. Per esempio la lode in onore della città natale dell’atleta vittorioso, attestata in diversi epigrammi (vedi pp. 142 sgg.), è ritenuta dall’autrice uno dei motivi topici del genere epinicio, che avrebbe esercitato una certa influenza sugli autori delle iscrizioni agonistiche. In realtà, come nota la stessa Nobili nelle sue conclusioni, l’epigramma e l’epinicio, pur essendo legati a contesti celebrativi differenti, rispettivamente al luogo della vittoria e alla città d’origine dell’atleta,5 riproducono spesso consuetudini affini, che impediscono di tracciare delle distinzioni nettamente definite. Pertanto, la rievocazione della patria dell’atleta non è un motivo sufficiente per istituire dei rapporti di dipendenza tra epinici ed epigrammi, bensì per individuare semplicemente dei motivi in comune tra i testi. Inoltre, a p. 150 il motivo della vittoria dell’atleta che incorona la sua città conferendole notorietà e gloria, è definito topico degli epigrammi vista la minore attestazione negli epinici. Piuttosto che definire perentoriamente le presunte influenze di uno dei due generi sull’altro, sarebbe stata questa l’occasione per approfondire meglio le differenti modalità nella celebrazione dell’atleta da parte di chi scriveva iscrizioni o componeva lodi. Certamente, la cultura letteraria può aver influenzato in taluni casi gli autori di iscrizioni, ma questa pur legittima ipotesi di lavoro può essere generalizzata solo con cautela.
Più convincente è l’analisi del capitolo successivo (pp. 159-171), ove il motivo della proclamazione del vincitore è ricercato con maggiore cautela nelle iscrizioni e negli epinici, che creano topoi ripresi anche nell’epinicio composto da Euripide per celebrare le imprese atletiche di Alcibiade ( PMG 755).
L’aderenza dei testi, sia epigrammi che epinici, alla prassi agonistica è confermata dal capitolo successivo (pp. 173-181). Qui Nobili evidenzia opportunamente il carattere maggiormente documentario delle iscrizioni rispetto agli epinici, che potevano sfuggire al controllo di quanto fosse certificato negli archivi dei santuari, a cui, invece, erano solitamente destinate le iscrizioni. Seguono, infine, due brevi capitoli, che esaminano ulteriori peculiarità stilistiche (come il dialogo tra le statue e i passanti, pp. 183-188), o tematiche (la comparazione tra vittoria militare e vittoria sportiva, pp. 189-192), declinate con modalità differenti nelle iscrizioni e negli epinici, e un breve capitolo finale sugli epitafi per gli atleti (pp. 193-195). Nelle conclusioni al lavoro (pp. 197-198) l’autrice cerca di ristabilire un rapporto più equilibrato nei rapporti tra iscrizioni ed epinici, parlando di influenze bidirezionali che possono esserci state tra gli autori di queste due forme testuali. Tuttavia, l’evoluzione stilistica degli epigrammi non può essere avvenuta solo sotto l’influenza degli epinici. Anche negli epigrammi dedicatori, infatti, è riscontrabile una certa evoluzione, per cui da semplici dediche si passa a testi maggiormente articolati (fino agli esiti ellenistici di Leonida), il che è avvenuto sotto l’influenza di molteplici fattori socioculturali. Inoltre, si perde spesso di vista la committenza di questi testi, ovvero il livello culturale, le aspirazioni e le disponibilità economiche da parte dell’atleta vittorioso. Infatti, è verosimile pensare che ciascuno, in base a queste variabili, abbia optato per una celebrazione differente, incaricando a seconda delle proprie disponibilità compositori più o meno istruiti, ovvero con una conoscenza differente dei modelli poetici. Mentre gli autori di epinici sono generalmente noti, quelli di epigrammi agonistici, invece, restano spesso anonimi o scarsamente noti, tranne nel caso di Simonide, che è un poeta letterato, il quale, come sostiene giustamente l’autrice, può aver conciliato i due generi, o meglio aver composto epigrammi lasciandosi influenzare maggiormente dal genere poetico superiore dell’epinicio. Il libro termina con un’ampia bibliografia (pp. 199-226) e quattro indici (dei passi discussi; dei nomi; dei luoghi e dei popoli; delle cose notevoli).
Nonostante gli aspetti critici messi in luce, il lavoro di Nobili va accolto con favore perché porta l’attenzione su un tema certamente interessante, spesso trascurato negli studi del settore, aprendo la strada ad ulteriori indagini.
Per quanto riguarda la veste formale, il testo risulta deficitario sotto differenti aspetti. In modo particolare, la lettura del testo è gravata dalla grande quantità di informazioni affastellate per ciascun epigramma. Oltre a dati storici o archeologici utili per inquadrare l’iscrizione (nonostante molte di queste informazioni siano spesso ben note: vedi per esempio p. 28), Nobili induce ripetutamente il lettore a lunghi excursus ove sono raccolti dati di carattere mitico e aneddotico poco rilevanti rispetto al discorso centrale (pp. 28; 72; 87, etc.). Sarebbe stato molto più opportuno tralasciare queste sezioni, o riportarle in forma ridotta nelle note, che finiscono per registrare solo rapidi riferimenti bibliografici. In tal modo il lavoro tradisce gli intenti iniziali di una discussione parallela tra epigrammi ed epinici, che finisce per smarrirsi in un fitto labirinto di dati. Oltre a numerose ripetizioni (pp. 16, 45, 52-53; 68; 79; 95, etc.) ed alcuni errori di battitura,6 sarebbe stato opportuno numerare i versi dei testi greci riportati, in modo da favorire l’individuazione più rapida dei passi commentati.
Inoltre, nella traduzione a p. 121 non è rispettata la formularità del testo greco ( CEG 378 = IG V. 1.213), mentre a p. 124 molte non riproduce correttamente il superlativo pleistoi ( CEG 811 = 39 Ebert).
Notes
1. R. Wachter, “The origin of epigrams on ‘speaking objects'”, in M. Baumbach and A. Petrovic – I. Petrovic (eds.), Archaic and Classical Greek Epigram, Cambridge/New York 2010, p. 253.
2. Vedi M. Burzachechi, “Oggetti parlanti nelle epigrafi greche”, in Epigraphica (24) 1962, pp. 53-54.
3. Si tratta del carattere essenziale della cosiddetta “culture of viewing”, per cui vedi S. Goldhill, “The Naive and Knowing Eye: Ecphrasis and the Culture of Viewing in the Hellenistic World”, in S. Goldhill-R. Osborne (eds.), Art and Text in Ancient Greek Culture, Cambridge 1994, pp. 107-130 e K. J. Gutzwiller, “Art’s Echo: The Tradition of Hellenistic Ecphrastic Epigram”, in M. A. Harder, R. F Regtuit & G. C. Wakker (eds.), Hellenistic Epigrams, Leuven 2002, pp. 85-112. In tal caso, la verosimiglianza del prodotto artistico diventa “stimulus to reflect on how one ought to view, consider, and judge the plastic arts” (I. Männlein-Robert, “Epigrams on Art. Voice and Voicelessness in Ecphrastic Epigram”, in P. Bing – J. S. Bruss, (eds.), Brill’s Companion to Hellenistic Epigram, Leiden; Boston, 2007, p. 266).
4. Su questo punto si vedano i lavori, pur noti all’autrice, di P. O’ Sullivan, “Victory statue, victory song: Pindar’s agonistic poetics and its legacy”, in D. J. Phillips and D. M. Pritchard (eds.), Sport and Festival in the Ancient Greek World, Swansea / Oakville 2003, pp. 81-82 e E. Pitotto, “Riflessioni sul medium poetico: note esegetiche ai versi finali della Nemea 8”, in SIFC (9) 2011, pp. 116-118.
5. Nonostante Nobili insista su questa distinzione è opportuno ricordare i casi in cui gli epinici erano composti per la celebrazione dell’atleta sul luogo in cui avveniva la gara. Cfr. Bacch. Ep. 2.11 (Μοῦσα αὐθιγενής) e su questo vedi H. Maehler, Die Lieder des Bakckhylides, vol. II, Leiden 1982, p. 30 e T. Gelzer, “Mousa Authigenes: Bemerkungen zu einem Typ Pindarischer und Bacchylideischer Epinikien”, in Museum Helveticum (42) 1985, pp. 95-120 (per cui si veda anche già Nobili, p. 3 n. 13).
6. P. 14 δείνα per δεῖνα; pp. 37: esaudizione?; p. 44: nota 19 sta per 196; p. 50, n. 236 la nota è incompleta; p. 59, n. 17 λαβρός per λάβρος; p. 62 la nota 30 sta per 39; p. 77 deicata per dedicata; p. 78 il ogni caso per in ogni caso; p. 95 essere per esse; p. 101 effttivamente per effettivamente; p. 117 percorre per percorrere; p. 193 vedimo per vediamo; p. 214 Mann 1999 Freiburg è Mann 2001 Göttingen. Inoltre, manca il paragrafo 1.1.4 tra 1.1.3 a p. 23 e 1.1.5 a p. 37.