L’Autore muove da un apparente paradosso. Il mantenimento dell’ordine (“Law and order” secondo la collaudata formula che appare nel titolo stesso del libro) nell’Atene classica non dipendeva, come nelle civiltà giuridiche moderne, dalla applicazione della formula di Austin “rules backed by sanctions” (p. 4 n. 20). Infatti l’efficacia delle sentenze dei tribunali era inficiata dalla imprevedibilità della decisione e dal fatto che l’esecuzione delle sentenze non era affidata ad organi pubblici ma al vincitore della causa (cap. 2: “Law enforcement and its limits”). Messa di fronte a questo “puzzle”, una parte della dottrina ritiene che il processo fosse una forma di “feuding behavior” o di “status competition” (p. 3 n. 16); per altri studiosi il tribunale popolare applicava effettivamente le leggi nel decidere le cause (p. 3); per altri ancora l’ordine era assicurato da meccanismi informali o addirittura dall’internalizzazione delle norme (p. 4). L’Autore segue una via intermedia (già illustrata nel suo precedente volume),1 sostenendo che la decisione, oltre che della legge pertinente al caso, teneva conto di altri fattori, come le relazioni precedentemente intercorse fra le parti o la loro stessa personalità. Sulla base di queste premesse l’Autore intende dimostrare che le “legal institutions” ottenevano per via indiretta il mantenimento dell’ordine, riuscendo addirittura a modificare le norme senza introdurre innovazioni legislative. Ciò si realizzava da un lato tramite l’emanazione di leggi, che, pur non dando luogo praticamente mai a processi derivanti da una loro violazione, finivano per modificare i comportamenti grazie a quella che l’Autore definisce “the expressive function of law”. Dall’altro lato, il fatto che nel dibattimento si ritenesse di poter influenzare la decisione dei giudici adducendo comportamenti illeciti, o quanto meno riprovevoli, dell’avversario, induceva tutti ad evitare di incorrere in tali rischi comportandosi bene (o, come si direbbe in italiano, “rigando diritto”).
Per quanto riguarda il primo punto, nel cap. 3 (“The expressive effect of statutes”) troviamo due “case studies”, che dovrebbero appunto illustrare “the expressive function of law”. Il primo caso riguarda la legge sulla hybris, a cui fanno riferimento esplicito sia Aeschn. I 17 ss. sia Dem. 21 46-50. La legge proteggeva contro l’ hybris non solo i liberi ma anche gli schiavi mediante una graphe, cioè un’azione intentabile da qualunque cittadino. Poiché la hybris si concreta in comportamenti che disonorano la vittima, la legge riconosceva paradossalmente perfino agli schiavi una sorta di onore, pur dovendosi ritenere che essa non fosse frequentemente applicata a tutela degli schiavi. Infatti gli schiavi non erano legittimati ad agire in giudizio contro colui che li aveva offesi, e difficilmente il padrone, o addirittura un altro cittadino, si sarebbe indotto ad agire con una graphe hybreos a favore dello schiavo. Dunque, conclude l’Autore, la legge non intendeva tanto tutelare effettivamente gli schiavi, quanto ridurre la violenza all’interno della società ateniese e, in particolare, garantire la sicurezza delle transazioni commerciali (di cui nel IV secolo molti schiavi erano protagonisti). In ultima analisi la legge mirava ad assicurare la stabilità del regime democratico: in ciò consisterebbe il suo “expressive role” (p. 85-86). Non posso qui affrontare la questione della hybris in modo approfondito. Ma, a mio parere, qui c’è un equivoco di fondo riguardante la natura della graphe hybreos. In Dem. 54.1 la vittima di Conone dichiara che avrebbe potuto agire in giudizio per hybris, ma ha preferito agire per lesioni private ( aikeia) (p. 92 n. 78). Dunque, nel caso di un’offesa arrecata a uno schiavo, era il padrone che aveva la scelta fra la graphe hybreos e una dike privata. D’altra parte credo che la hybris nei confronti degli schiavi (oltre che dei liberi), a cui fa riferimento Eschine in I 17, debba essere interpretata, dato il contesto, come violenza carnale.2 E che la violenza carnale esercitata da un libero nei confronti di schiavi/schiave (altrui) desse luogo a un’azione giudiziaria da parte del padrone non è una particolarità che caratterizzi Atene o i regimi democratici in quanto tali. Basti ricordare che anche nel Codice di Gortina (col. II 7-9) lo stupro di uno schiavo o di una schiava da parte di un libero viene punito con una pena pecuniaria, evidentemente a seguito di un’azione intentata dal padrone (pur ignorando se a Creta esistesse qualcosa di analogo alla graphe ateniese). La particolarità di Atene è dunque quella di consentire al padrone dello schiavo di presentare lo stupro o altro comportamento offensivo nei confronti del proprio schiavo come hybris, scegliendo così una via processuale gravida di conseguenze molto più pesanti per entrambe le parti di quanto deriverebbe da un’azione per danneggiamento. Trattandosi di offese arrecate a schiavi, il termine graphe non deve essere quindi inteso come azione intentabile da un qualunque cittadino, ma come azione che mira ad applicare una sanzione più grave a carico del delinquente. Escluderei quindi, nonostante le incertezze della dottrina che si riflettono nel pensiero della stessa Lanni, che lo schiavo vittima di hybris da parte di un terzo, in caso di inerzia del padrone, potesse pagare un cittadino “to prosecute on his behalf” (p. 93 n. 84); e così pure (p. 89 e p. 98), che la graphe hybreos potesse essere intentata da un terzo contro il padrone che avesse offeso il proprio schiavo.
Il secondo “case study” si riferisce alla legge che vieta la prostituzione maschile ( hetairesis), cioè il rapporto omosessuale (maschile) a pagamento (Aeschn. c. Tim. 19-20): il condannato era escluso dai pubblici uffici, e in particolare gli era vietato prendere la parola nel Consiglio e nell’Assemblea (p. 105 ss.). In base ad Aristofane, Vespe 1130-1159, l’Autore ritiene che questa legge sia stata emanata nella seconda metà del V secolo, e che il suo effetto “espressivo” sia stato quello di incidere su uno dei comportamenti tradizionali del ceto aristocratico, fino ad allora politicamente dominante, ossia la pratica della pederastia. Il timore che la tradizionale pratica educativa potesse dar luogo ad accuse di prostituzione avrebbe cioè indotto una parte dell’élite a rinunciarvi per non essere costretta ad astenersi dal partecipare alla vita politica attiva, mentre un altro settore, di cui sarebbe espressione l’“amore platonico”, avrebbe depurato le relazioni pederastiche da ogni traccia di fisicità, sempre nell’intento di non ricadere in un’accusa che avrebbe escluso i suoi esponenti dalla vita politica. Anche in questo caso avremmo dunque un effetto indiretto della legge, che, ben oltre il suo scopo esplicito e la sua probabilmente rara applicazione, avrebbe profondamente modificato i comportamenti di un significativo settore della società ateniese. Ancora una volta, però, mi pare che l’ingegnosa costruzione sollevi qualche dubbio. Intanto osservo che la legge (anche se risalente al V sec. a.C.), come mostra Aristoph. Eq. 876-880, doveva riguardare gli omosessuali passivi che si fossero prostituiti (o avessero continuato a prostituirsi) dopo aver raggiunto la maggior età. Dunque non ha molto a che fare con la pederastia tradizionale, che doveva certamente essere rigorosamente distinta dai rapporti con prostituti da coloro stessi che la praticavano, indipendentemente dal fatto che il rapporto in questione fosse o meno ‘platonico’. Inoltre, come ha osservato recentemente E.E. Cohen, l’accusa di hetairesis continua ad essere praticata nel IV sec. a.C. nei confronti di leaders politici rivali, indipendentemente dalla loro appartenenza a un ceto che si richiamava alla pederastia tradizionale.3 Fra questi personaggi rientra naturalmente anche Timarco, nei confronti del quale Eschine incontra evidentemente molte difficoltà nel provare la sua accusa. In definitiva non mi sembra dunque dimostrabile che la legge sull’ hetairesis abbia avuto quell’effetto ‘espressivo’ che l’Autore vorrebbe attribuirle, sostenendo che le leggi sulla prostituzione avrebbero cambiato “the social meaning of pederasty” (p. 111). La riprovazione gradualmente affermatasi nei confronti della pederastia ha probabilmente avuto cause più complesse della legge sulla prostituzione.
Passiamo ora al secondo punto. Nel cap. quarto (“Enforcing Norms in Court”) viene illustrata una delle modalità attraverso cui, secondo l’Autore, il tribunale popolare influiva indirettamente sul mantenimento dell’ordine. Cioè attribuendo rilevanza a norme (definite dall’Autore “extrastatutory norms”) che non regolavano direttamente la fattispecie oggetto del processo, ma alla cui stregua si chiedeva ai giudici di valutare comportamenti riprovevoli della controparte che non avevano dato luogo, per vari motivi, a un accertamento giudiziario, ma che avrebbero potuto influire sulla decisione finale della corte nella causa in corso. I cittadini erano così indotti ad osservare le norme (scritte e non scritte), per evitare di offrire a potenziali avversari argomenti che avrebbero potuto influire, a loro sfavore, sulla decisione dei giudici. Nel commentare questa tesi distinguerei gli aspetti formali da quelli sostanziali. Dal punto di vista formale occorre ricordare che noi possediamo, salvo rarissime eccezioni, soltanto una delle due orazioni contrapposte. Non possiamo quindi sapere con certezza come la controparte potesse persuasivamente difendersi e controbattere: il frequente rimprovero di aver fatto ricorso a una diabole o a blasphemiai ci mostra un tipico strumento di difesa. Inoltre non è detto che determinati comportamenti imputati alla controparte siano rivelati per la prima volta in quello specifico dibattimento. Potrebbe trattarsi di fatti (o piuttosto di insinuazioni) già noti da tempo ad una vasta cerchia (ivi compresi molti giurati), il che poteva comportare che l’opinione pubblica fosse già divisa in appoggio all’uno o all’altro contendente: si pensi all’annosa controversia tra i figli di Mantias illustrata in Dem. 39-40. Non è dunque necessariamente il tribunale la sede in cui si costruisce il dissidio fra le parti. Ma soprattutto occorre tener conto che l’efficacia persuasiva di un’affermazione dipendeva in modo decisivo dalla capacità di fornire prove (soprattutto testimoniali) di quanto affermato (ciò che d’altronde osserva, ma solo marginalmente, la stessa Lanni, p. 135). Dal punto di vista sostanziale non tutti i comportamenti rimproverati alla controparte rappresentano violazioni di norme; molti costituiscono esempi di mancato esercizio di virtù civiche. Certamente, come sostiene l’Autore in particolare p. 146 ss., si dispiega in tal modo un codice di comportamenti auspicati; ma non credo che il mancato adeguamento a tale codice fosse determinante per l’esito della causa.
Nel cap. quinto (“Court Argument and the Shaping of Norms”) l’Autore concentra la sua attenzione su un altro fenomeno di influenza indiretta sulla legislazione da parte del tribunale popolare. Il carattere di “vaghezza” (“vagueness”: p. 151), di molte norme permetteva ai contendenti di presentare alla corte valutazioni molto divergenti se non opposte dei fatti in discussione. Dando ragione all’uno o all’altro si potrebbe dire che la corte avallava l’una o l’altra interpretazione della legge. Degli esempi esaminati dall’Autore accennerò soltanto a Lys. I. Secondo l’Autore, Eufileto teme che i parenti del moichos da lui ucciso in flagrante sostengano che uccidere l’adultero era ormai una misura “excessive and wrong” (p. 165). Tuttavia dagli argomenti addotti da Eufileto si desume chiaramente che i parenti dell’ucciso sostenevano che il loro congiunto era stato attirato in una trappola. Se avessero sostenuto che uccidere era eccessivo, avrebbero riconosciuto la colpevolezza di Eratostene. D’altra parte la disponibilità ad accordarsi con l’uccisore è già presentata in Hom. Il. IX 632-636 come un comportamento degno di lode.
L’ultimo capitolo (“Transitional Justice in Athens: Law, Courts, and Norms”) mette in luce i pregi del modello di riconciliazione attuato dal tribunale popolare dopo la restaurazione della democrazia nel 403 a.C.
A prescindere dalle critiche che si possono rivolgere ai singoli risultati, il metodo d’indagine adottato dall’Autore indica una via interessante e originale per inserire l’esperienza giuridica attica nel dibattito attuale relativo ai grandi problemi di politica del diritto concernenti legislazione e giurisdizione. Il libro si rivolge quindi tanto agli storici della civiltà greca, quanto agli studiosi di filosofia del diritto e di teoria politica.
Notes
1. Law and Justice in the Courts of Classical Athens, Cambridge 2006.
2. Così già Dover, Greek Homosexuality 1978, p. 36; da ultimo E.E. Cohen, Athenian Prostitution, Oxford 2015, p. 129.
3. E.E. Cohen, Athenian Prostitution, Oxford 2015, p. 70 ss.