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Il volume rientra nella Collana del Centro di Antropologia del mondo antico dell’Università di Siena e raccoglie sei saggi che indagano sul ius nel mondo romano. Nella premessa (pp. 9-13), la curatrice, partendo dalla famosa definizione di Dumézil, secondo cui i Romani furono giuristi per vocazione, spiega l’obiettivo del volume: dimostrare che il ius fu la più importante produzione culturale romana; fu una “ forma mentis che struttura il tempo, lo spazio, il linguaggio retorico, la letteratura, l’iconografia, le emozioni stesse” (p. 9).
Nel saggio di Bettini, Fas (pp. 17-54) si sottolinea, in primo luogo, che, se sono numerose le occorrenze di fas nell’ambito del divino, va rilevato che fas appare riferito anche a situazione non di carattere sacro, a principi come le leggi attribuite alla natura, le regole della famiglia e della pietas, questioni di convenienza, contraddizioni logiche, possibilità o meno di compiere certe azioni o doveri morali. Bettini ritiene chiarificatore un passo del De inventione di Cicerone (2, 65), in cui si afferma che dietro il ius naturae vi è una forza innata, diversa dall’ opinio, le credenze condivise, dalle ragioni dell’utilità, e da quelle della legge. Il ius naturae è dato a priori ed è collegato, secondo Cicerone, alla religione, alla pietas, alla riconoscenza, alla vindicatio, al rispetto. Bisogna dunque pensare il fas non come una legge divina, ma come una vis innata, un qualcosa che dice immediatamente se una cosa si può o non si può fare, se è conforme al volere divino, se è possibile per le leggi di natura, se è conveniente secondo i costumi degli uomini, se è conforme a verità, se è razionale o logica. Il fas dunque appare una norma, o un insieme di norme, che viene prima della società e come tale ne costituisce il fondamento. Secondo Bettini, dunque, fas deriva dalla radice bha-, parlare; tale radice è molto produttiva in latino; tutti i termini che si connettono a questa radice “evocano un dire estremamente efficace, capace di produrre effetti sulla realtà” (p. 44). Fas è quindi un parlare allo stato puro, quel parlare che si impone per virtù intrinseca e come tale definisce lo spazio di ciò che è religiosamente corretto, oppure giusto, possibile, conveniente, razionale. Chiarificatore, per Bettini, è un passo di Platone ( Leg. 8.6, 838 c-d). Il filosofo, discutendo della proibizione dell’incesto, spiega che è come si parla di tali cose a produrre una sorta di regola non scritta, la regola sociale che vieta l’incesto. È quindi attraverso il parlare che si consolida quella forza innata espressa dal fas.
Il saggio di Bruce Lincoln, Iūs e i suoi paralleli iranici. Dalla purezza alla giustizia, pp. 55-71, inizia con la constatazione, ormai accettata, che il latino ius, l’avestico yaoš e il vedico yóś siano termini affini. Obiettivo dello studio è analizzare le connessioni tra il latino ius e la parola avestica yaoždā, che vuol dire purificazione nel contesto dello zoroastrismo. La yaoždā consiste nella purificazione dalla forma di inquinamento che si è generata nell’età del tempo storico, in cui le creature sono esposte alle forze demoniache. Vi sono tre varietà di yaoždā : la cura delle entità spirituali, la cura degli oggetti materiali inanimati, la cura degli esseri animati; questi ultimi sono stati gravemente danneggiati e messi in pericolo dal contatto diretto con la materia inquinante e devono essere ricondotti al loro stato normale, per evitare che contaminino gli altri. La rimozione rituale della materia inquinante è il principale strumento attraverso cui gli esseri umani si proteggono dalla corruzione, ripristinando periodicamente lo stato prossimo alla perfezione programmata da Dio per loro. Nel presente quello stato è temporaneo e fragile, ma tuttavia incontaminato e ideale. Il suo nome è yaoš e la procedura formale che lo ripristina periodicamente si chiama yaoždā. Se si mettono a confronto il tribunale romano e il Barašnum, il più elaborato dei riti di purificazione, si osserva che, malgrado le notevoli differenze, il fine è comune: l’uno deve garantire la giustizia ( ius), l’altro la purezza ( yaoš). Sia i termini latini che quelli avestici denotano, quindi, degli stati ideali cui la società aspira, che sono minacciati e compromessi dalle violazioni ( in-iūria, a-yaoždā) che derivano dai mali onnipresenti nel cosmo e/o inerenti alla condizione umana. Attraverso la giustizia e la purificazione, le società della Roma antica e dell’Iran intendono ripristinare, anche se solo parzialmente, lo stato perfetto, ideale.
Il saggio di Aglaia McClintock, Giustizia senza dei (pp. 73-95) si propone di spiegare perché il popolo romano, che ha reso il ius il suo architrave, non abbia una divinità della giustizia di portata generale paragonabile alle divinità greche Dike, Themis, o all’egiziana Maat. L’assenza è ancora più significativa se si pensa alle tante divinità specifiche preposte a sovrintendere, nel mondo romano, praticamente ogni atto o umana impresa. Iustitia fu una personificazione tarda, una sbiadita traduzione della Dike greca e fu introdotta solo nel primo principato. Più radicata nell’immaginario romano è Fides, che garantisce l’affidabilità delle istituzioni cittadine verso i singoli. Anche l’ Aequitas compare con lo scettro, la cornucopia, la libra, che è legata alla sfera del diritto già dal VI sec. a. C. Se il ius stesso è l’ ars boni et aequi, è impossibile che un Romano non associasse la bilancia alla giustizia. Durante il principato acquisisce grande importanza il culto di Nemesis, che tuttavia rimane, nella percezione romana, una divinità greca. A partire dal II sec. d. C., la dea predomina negli anfiteatri di tutto l’impero, come colei che distribuisce le Sorti, ma soprattutto per la sua funzione di attribuire la giusta punizione. Nel III sec. d. C. Nemesis ingloba ora questo ora quello degli attributi di Iustitia-Aequitas, Fides e Fortuna : la bilancia, le ali, la ruota, il globo. Si crea quindi una potente divinità che coniuga ius privatum e publicum e regalità.
La giurista Lauretta Maganzani, nel suo lavoro, Per uno sguardo antropologico del giurista. Il rapporto padre-figlio nel mondo romano (pp. 99-134) analizza il caso dei figli illegittimi a Roma, ricordando che solo i filii iusti, cioè quelli nati da matrimonio legittimo tra due sposi dotati di conubium, fanno parte a tutti gli effetti della famiglia romana. La studiosa sottolinea che molte culture hanno un dato comune: la differenza tra il legame madre-figlio, inequivoco sin dal concepimento, e quello padre-figlio, incerto nonostante le sue basi biologiche. In sostanza la paternità biologica non ha mai costituito un elemento importante nella definizione della paternità sociale. A Roma la soluzione prescelta per definire la paternità sociale è legare la patria potestas sui figli alle iustae nuptiae. Se il legame madre-figlio è fondato sulla natura, quello padre-figlio è definito dal ius civile. Questo spiega il mito della castità femminile, la dura repressione dell’adulterio femminile, la pratica del tollere liberos, utile al padre per proclamare pubblicamente il legame di sangue col figlio. Anche a Roma infatti vige la teoria emogenetica del seme, che sopravvive in Europa fino al Settecento: è il padre colui che con l’atto sessuale deposita il proprio sangue sotto forma di seme nell’utero materno attivando il processo della generazione, mentre la madre rappresenta il tramite fisico necessario per il passaggio del sangue dal padre al figlio. In sostanza il sangue del padre può generare, quello della madre no: ciò spiega perché il figlio illegittimo, che giuridicamente segue la madre, sia considerato privo di stirpe. In caso di adulterio, quindi, per i Romani il grembo materno riceve e custodisce semi di padri diversi; questo è il motivo per cui la vedova deve attendere il tempus lugendi prima del nuovo matrimonio, per evitare una funesta turbatio del sangue tra vecchio e nuovo marito. Anche i casi di incesto sono legati alla confusione dei rapporti e delle identità familiari. Nell’ottica romana l’appartenenza a una gens implicava l’adozione da parte dei suoi membri dei modello comportamentale caratterizzante il gruppo alle sue origini. Questo spiega l’esigenza romana di certezza della stirpe e la scelta di affidare la sorte di questa ai nati da matrimonio legittimo, unici veri depositari dei valori più sacri della familia e della domus.1 A Roma tuttavia esiste la possibilità di adottare dei giovani ed è particolare che il rapporto adottante-adottato venga definito sia come adgnatio che come cognatio. Se si rimanda al valore botanico del termine stirps (tronco, pianta, radice), si comprende che i figli adottivi sono rami innestati che costituiscono un tutt’uno con la pianta.
Graziana Brescia e Mario Lentano, nel saggio La norma nascosta. Storie di adulterio nella declamazione latina (pp. 135-184), spiegano in primo luogo che nelle declamazioni latine, in cui si tocca il tema dell’adulterio, talvolta ci si trova di fronte a norme fittizie, elaborate dai retori a scopo didattico, che hanno corso e valore solo nell’ambito delle scuole. Si prendono in esame le controversie in cui sussiste la flagranza di reato, seguita di norma dall’uccisione degli amanti o di uno di essi. In esse osservano alcune costanti: i padri intervengono ripetutamente per salvare il figlio adultero; i padri non compaiono mai come uccisori delle figlie adultere; il vincolo affettivo tra madre e figlio impedisce a questi di avvalersi del proprio diritto di uccidere la madre adultera; compaiono invece casi in cui il fratello o la sorella adultera vengano uccisi. Per quanto riguarda la regola secondo cui un marito ha facoltà di uccidere la moglie adultera, va in primo luogo ricordato che nelle declamazioni l’adulterio appare qualcosa che scompagina le relazioni all’interno della famiglia e che il potere del padre è fuori discussione, sebbene spesso i padri non uccidano i figli ma optino per una loro morte civile, cioè l’ abdicatio. Se nella lex Iulia solo il padre, e non il marito, può uccidere, in determinate condizioni, nelle declamazioni viene reiteratamente affermata la legittimità per il marito di uccidere l’adultero e l’adultera. Il mondo delle declamazioni sancisce come inaccettabile l’adulterio femminile e giustifica la reazione del marito come espressione di un giusto dolore, andando anche oltre la lex Iulia. Bisogna quindi chiedersi se talvolta non sia stata la declamatoria stessa a far sentire la sua influenza sul diritto e persino a modificarlo, considerando che i giuristi stessi avevano studiato le controversie di scuola. L’interazione tra retorica di scuola, giurisprudenza e modelli culturali si osserva soprattutto nel caso del matrimonio, istituzione chiave, che bisogna salvaguardare per garantire ordine sociale e integrità sociale. Nei testi declamatori, quindi, la moglie che si macchia di adulterio compie un reato gravissimo e il marito ha pieno diritto di ucciderla.
Giunio Rizzelli, nel suo lavoro, Fra collera e ragione. Il castigo paterno in Roma antica (pp. 185-231), parte dalla considerazione che nelle declamazioni latine è possibile ravvisare gli atteggiamenti paterni verso i figli e quelli dei figli verso i padri, e di evidenziare i limiti—morali e giuridici—cui questi ultimi vanno incontro nell’esercitare il proprio potere punitivo. Il caso della controversia 7, 1 di Seneca, in cui un padre ha ripudiato un figlio che gli ha disobbedito (non ha punito l’altro fratello condannato per tentato parricidio), vede rappresentato un modello negativo di padre, che ha trascurato gli obblighi della pietas, esagerando nel potere punitivo sui figli. Anche la pietas e la severitas paterna sono due valori che interagiscono tra loro. Il padre equilibrato deve essere severus senza cadere nella crudeltà, e indulgente senza diventare incautus. Persino il potere di vita e di morte di un padre su un figlio può essere esercitato solo se ricorre la ragione del castigo. Bisogna, quindi, distinguere lo stereotipo culturale della patria potestas e del diritto di vita e di morte che questi ha sui figli dalla reale casistica. Se è esagerato affermare che il potere di vita e di morte sui figli non abbia mai avuto rilevanza per il ius, va comunque osservato che “un’istituzione non costituisce il riflesso di una pratica sociale e l’immediato confronto con i fatti non serve a verificarne l’importanza, mentre senza dubbio la vitae necisque potestas non è un mito, benché vada probabilmente considerata un simbolo dal valore ideologico-arcaizzante” (p. 223).
Ogni saggio è corredato di un’utile bibliografia. Il volume si apprezza per la molteplicità di punti di vista con cui è affrontato il tema generale e offrirà sicuramente spunto ad altri studiosi per esplorare le contiguità tra diritto e antropologia.
Authors and titles
Premessa, di Aglaia McClintock
Parte Prima: Religione e diritto
Fas, di Maurizio Bettini
Iūs e i suoi paralleli iranici. Dalla purezza alla giustizia, di Bruce Lincoln
Giustizia senza dèi, di Aglaia McClintock
Parte Seconda: Il ius in azione
Per uno sguardo antropologico del giurista: il rapporto padre-figlio nel mondo romano, di Lauretta Maganzani
La norma assente. Storie di adulterio nella declamazione latina, di Graziana Brescia e Mario Lentano
Tra collera e ragione. Il castigo paterno in Roma antica, di Giunio Rizzelli
Notes
1. Si veda Maurizio Bettini, “Mos, mores e mos maiorum. L’invenzione dei buoni costumi nella cultura romana”, in Id., Le orecchie di Hermes, Studi di antropologia e letterature classiche, Torino 2000, pp. 241-292.