La tragedia romana arcaica gode, negli ultimi decenni, di una notevole attenzione della critica; un’attenzione culminante nell’ambizioso progetto di una nuova edizione dei Tragicorum Romanorum Fragmenta, di cui hanno visto la luce i primi due volumi (Göttingen 2012), dedicati rispettivamente a Livio e Nevio (a cura di M. Schauer) e a Ennio (G. Manuwald). Nel quadro di questo ‘revival’ si colloca il libro di M. E. Consoli, che affronta un tema complesso e affascinante: la concezione della fortuna nella tragedia di Pacuvio.
Il titolo suscita perplessità per il riferimento onnicomprensivo al mondo romano. Tuttavia l’Autrice si sofferma soltanto su alcuni autori: Ennio, Cicerone e Virgilio – una scelta estremamente selettiva, tanto necessaria quanto apparentemente priva di ratio : il criterio non è spiegato esplicitamente, né si evince dalla trattazione, quasi che questi fossero gli unici autori latini a offrire materia di discussione sul tema della fortuna. Colpisce il silenzio assoluto su Accio, che non è mai nominato nel libro, nonostante sia un poeta ‘gemello’ di Pacuvio, di cui condivide il contesto storico-culturale, il genere letterario, svariati aspetti di contenuto e stile. Soprattutto Accio condivide l’interesse di Pacuvio per alcuni temi filosofici e teologici, nonché la critica dell’arte divinatoria, su cui Consoli si sofferma a più riprese, senza nemmeno accennare allo sviluppo dell’argomento nell’ Astyanax (basti pensare al frammento 2 Dangel = 5 Scafoglio).1 Analogamente sono ignorati i riferimenti alla fortuna presenti nelle tragedie di Accio, che offrono spunti di confronto con Pacuvio e potevano giovare alla ricostruzione del comune sfondo ideologico.2
L’introduzione (9-21) enuncia gli scopi del lavoro, che si perdono però in formulazioni pretenziose e aleatorie: “ricostruire lo schema di pensiero da cui è sorta la credenza nel caso” (9); “esaminare come sia avvenuto il processo di astrazione del termine in un’immagine” (10), “enucleare la matrice ancestrale che ha determinato l’uso ricorrente di una vox media, quale appunto il lemma fortuna, cui sono sottesi timori, speranze, ambizioni dell’uomo” (11). L’Autrice annuncia inoltre un interesse congiuntamente sociologico, archeologico e storico-culturale, per “i motivi che hanno influito sulla costruzione di templi e plessi monumentali” dedicati alla Fortuna, con l’intento di “far luce sul nesso esistente tra gli elementi cultuali e quelli filosofici, rivelando quanto abbia inciso sulle varie branche della civiltà latina la credenza negli oracoli” (10-11). Si presagisce insomma un lavoro di grande spessore, che parte dal problema della fortuna in Pacuvio e che, pur senza inquadrarlo nel contesto del dramma arcaico, si estende al tema globale degli oracoli nel mondo romano, nell’intersezione tra filosofia, religione, letteratura e architettura (in meno di 150 pagine di formato ridotto).
L’introduzione comprende altresì lo status quaestionis, riguardante però soltanto tre testi: R. Ortiz, Fortuna labilis. Storia di un motivo medievale (Bucarest 1927); J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome, voll. I-II (Rome 1982-1987); L. Magini, La dea bendata. Lo sciamanesimo nell’antica Roma (Reggio Emilia 2008). Il primo è un lavoro datato, di limitata rilevanza oggettiva e comunque di scarsa pertinenza (soltanto un paragrafo è dedicato alla fortuna nel mondo romano, senza spunti originali), eppure privilegiato dall’Autrice. L’opera monumentale della Champeaux non è ugualmente apprezzata, perché manca “di una chiave problematica” e non è “volta a ricostruire le ragioni ancestrali e profonde che hanno dato origine al culto di Fortuna ” (17). Anche il libro di Magini appare inadeguato, non tanto per l’impostazione ‘amatoriale’ più che storico-filologica, quanto perché “non approfondisce il tema dell’influsso esercitato dalla dea nelle vicende umane e, soprattutto, non s’interroga su quanto è possibile credere nel suo potere e se questo sia reale o piuttosto immaginario” (18). Si deduce che l’Autrice, oltre a chiarire le “ragioni ancestrali” del culto della fortuna, intenda dimostrare se il suo potere sia “reale o piuttosto immaginario”.
Tale status quaestionis è emblematico dell’approccio alla bibliografia. L’unico testo discusso nel volume in modo relativamente ampio, oltre ai tre appena citati, è quello datato e largamente superato di B. Biliński, Contrastanti ideali di cultura sulla scena di Pacuvio (Roma 1962), “che ha innovato sotto il profilo metodologico gli studi di letteratura antica” (76). La maggior parte dei lavori menzionati nelle note non supera gli anni 60 del secolo scorso; nessuno in lingua tedesca. I frammenti di Ennio sono citati secondo l’edizione Vahlen, piuttosto che Skutsch, di cui non è utilizzato nemmeno il commento. Pacuvio è citato secondo D’Anna; la recente edizione Schierl, col suo cospicuo e rigoroso commento, non compare neppure nella bibliografia finale. Dal lavoro sono assenti testi fondamentali, come G. Manuwald, Pacuvius ‘summus tragicus poeta’ (München 2003); i nomi di G. Aricò ed E. Lefèvre non figurano nelle note, né nella bibliografia.
Il capitolo I (23-68) riguarda il tema della fortuna “nella concezione letteraria e nei monumenti artistici” (23), dove “concezione letteraria” indica Appio Claudio Cieco e Cicerone, con sparsi riferimenti a Ennio e Pacuvio; per “monumenti artistici” si intende il santuario della Fortuna a Preneste. La tesi di fondo, riguardante la reazione razionalistica di alcuni intellettuali contro la credenza popolare nella Fortuna, alimentata ad arte per ragioni politiche e a scopo di lucro, si risolve in una serie di affermazioni apodittiche, basate su citazioni di frammenti arcaici o di passi ciceroniani decontestualizzati. Ecco, per esempio, come è ‘commentato’ il frammento di Ennio, Ann. 233 Skutsch, fortibus est fortuna viris data : “Quest’idea che la sorte favorevole sia una prerogativa degli uomini forti e coraggiosi discende da una concezione indiscutibilmente razionale e concreta, ma non certo sull’astratta entità di fors-fortuna, quanto piuttosto sul valore interiore, inteso come una dote privilegiata, che permette all’uomo forte di compiere il proprio disegno esistenziale e le azioni intraprese conseguendo un felice esito” (26). Al passo enniano non sono affiancati i numerosi passi paralleli (Terenzio, Phorm. 203; Cicerone, Tusc. 2.11; Livio 8.29.5, 24.37.4) che rivelano la proverbialità dell’espressione, appartenente a quella cultura popolare che l’Autrice preferisce contrapporre al “razionalismo” degli intellettuali.
L’argomentazione è superficiale e frammentaria, intercalata da digressioni di dubbia pertinenza, come la lunga e minuziosa descrizione del complesso monumentale di Preneste, che sembra estrapolata da un manuale di storia dell’arte per la dovizia di dettagli tecnici (46-55). Passi di tenore scolastico-divulgativo (p.es. quando e perché Cicerone si dedica alla filosofia, 60) si alternano con affermazioni inquietanti, come la definizione di “antistoicismo” attribuita al pensiero di Cicerone “rispetto alla concezione greca della fatalità degli eventi” (59, dove “fatalità” si riferisce presumibilmente al provvidenzialismo stoico, di cui Cicerone sarebbe fiero avversario). Talvolta l’Autrice costruisce pseudo-dimostrazioni, basate su interpretazioni distorte dei testi, p.es. quando riconduce il motto di Appio Claudio fabrum esse suae quemque fortunae alla filosofia pitagorica (25, 32) in base alla testimonianza di Cicerone, Tusc. 4.2, che però si riferisce a un imprecisato Appii Caeci carmen, non a quella specifica sententia.
Gli stessi difetti metodologici e argomentativi persistono nel capitolo successivo, sulla concezione della fortuna nella tragedia di Pacuvio (69-110). L’esposizione scolastica di tematiche convenzionali occupa svariate pagine (p.es. titoli e argomenti dei drammi di Pacuvio, 70; l’uso della contaminatio, 71; il temperamento del poeta “incline per sua natura alla pensosità e alla saggezza”, 73). Baldanzosi ragionamenti, sempre culminanti nell’esaltazione del razionalismo degli intellettuali che si oppongono alla superstizione popolare e alle mistificazioni del potere, sono costruiti su presupposti arbitrari o, quanto meno, discutibili. Le linee generali della trama del Chryses (da cui proviene probabilmente il frammento sulla fortuna), “lo schema dianoetico seguito da Pacuvio” ( sic), il ruolo e il profilo psicologico del personaggio di Oreste, il messaggio morale di cui egli è portatore: di tutto ciò l’Autrice disserta, sulla base delle Fabulae 119-121 di Igino (80-82, 93-140), che però difficilmente si riferiscono a questo dramma. Una seria ricostruzione del Chryses sarebbe stata possibile sulla base dei frammenti superstiti, relativamente numerosi (più di 50 versi), e degli elementi documentari in nostro possesso.3
L’interpretazione del frammento in questione ( inc. fab. 262 Schierl sunt autem alii philosophi, qui contra Fortunam negant / esse ullam, sed temeritate res regi omnis autumant) presenta un punctum dolens, che ne infirma il senso complessivo: l’Autrice traduce il sostantivo temeritas come “sconsideratezza” (85-86), significato plausibile a livello paradigmatico, ma incongruente con l’esempio di Oreste addotto subito dopo. Infatti la persona loquens afferma che questo personaggio è rovinato da un naufragio ( factus mendicus modo / naufragio… nempe ergo id fluctu… optigit), non da una sua azione o scelta, imputabile a sconsideratezza. Conviene perciò tradurre “caso” (intreccio imprevedibile delle circostanze), ripristinando la simmetria concettuale tra le due opposte opinioni dei “filosofi”: la Fortuna personificata e deificata vs il gioco cieco del caso. La traduzione proposta rimane ingiustificata quanto l’interpretazione “in senso metaforico e allusivo” di “naufragio” e “flutti” in riferimento “all’ondata di conflittualità che aveva travolto la casa di Oreste, facendo di questo un naufrago” (97).
Il capitolo III verte su “ Fortuna somnium virtus in Ennio e Virgilio” (111-141). Se l’abbinamento fortuna / virtus è perfettamente giustificato, non è facile comprendere come si inserisca il somnium in questa visione originariamente dualistica, che diventa inaspettatamente tripolare. Lo spunto è offerto dal racconto enniano del sogno di Ilia (34-50 Skutsch), dove Enea profetizza alla figlia l’esito positivo delle sue traversie, valendosi appunto del termine fortuna (45 Skutsch, ex fluvio fortuna resistet): di qui lo spunto per un ulteriore scavo nell’ancestrale per concludere che “il riferimento alla fortuna è da considerarsi funzionale a una ratio compositiva che ha la sua remota matrice nell’esigenza umana di presagire il futuro mediante l’interpretazione dei sogni” (116). Segue la citazione con traduzione di un lungo brano lucreziano che fornisce una spiegazione razionale dei fenomeni onirici (4.962-1023); ma riesce arduo vederne la pertinenza, nonostante la spiegazione dell’Autrice: “queste osservazioni analitiche sul somnium e i suoi effetti esposte nel De rerum natura provano l’importanza che si attribuiva ad essi nell’Antichità e spiegano il perché del valore che, prima di Lucrezio, vi aveva assegnato Ennio in funzione dei contenuti storico-poetici degli Annales ” (119). La trattazione lucreziana spiegherebbe quindi l’importanza attribuita al sogno da Ennio; resta comunque oscuro il collegamento col tema della fortuna. Da Lucrezio il discorso passa a Virgilio, di cui viene citato il celebre brano sulle Somni portae ( Aen. 6.893-896), accompagnato non dal commento di Norden o di Horsfall, né da quello di Austin, ma da quello settecentesco di Heyne (133).
Molto si insiste sull’Evemerismo di Ennio, in opposizione alla religione tradizionale: “nell’antichità, infatti, prima dell’Evemerismo, la credenza nelle manifestazioni del soprannaturale era parte integrante di una visione del mondo, secondo cui si riteneva che le divinità avessero accesso alla vita degli uomini” (132). La situazione cambia, a giudizio dell’Autrice, con l’avvento dell’Evemerismo.
La dialettica tra fatum e fortuna nell’ Eneide, a cui si potrebbe dedicare un cospicuo volume scientifico, è oggetto di un paragrafo di cinque pagine (135-139), che, a seguito di un improbabile confronto tra Ilia e Didone, si chiude con la rassicurante conclusione che “a parte tale differenza, questi due giganti della letteratura occidentale ( scil. Ennio e Virgilio) riveleranno una perfetta consonanza di intenti nell’impartire un metodo di vita ai destinatari della loro poesia” (139). Il libro si chiude con la sconsolata riflessione, di ascendenza virgiliana, che “la fortuna il più delle volte è di chi non la merita” (141).4
Notes
1. Cf. J. Dangel (éd.), Accius, Oeuvres (Paris 1995), 160, 319; G. Scafoglio, L’Astyanax di Accio (Bruxelles 2006), 90-92, 117-122.
2. Cf. vv. 88-89, 261-262, 274-276, 387-388, 498-499, 513 Dangel.
3. Cf. N.W. Slater, Religion and identity in Pacuvius’ Chryses, in G. Manuwald (Hrsg.), Identität und Alterität in der frührömischen Tragödie (Würzburg 2000), 315-323.
4. Numerosi gli errori, p. es. “La differenziazione di tali epiclesi […] ne connotano e distinguono le specificità” (15), “la sicurezza economica della caput mundi ” (45). Le traduzioni dei passi latini, tutte dell’Autrice, sono spesso approssimative e talvolta errate: p. es. Cic. De div. 2.85, lactens, “che allatta” (37), ma in realtà “che succhia il latte” ( scil. Giove bambino).