Secondo la testimonianza di Ateneo, Gorgia, dopo aver letto il dialogo platonico che porta il suo nome, avrebbe riconosciuto l’abilità di Platone nel “prendere in giro” (82A15a DK). Tuttavia, il Gorgia non può essere ridotto a una semplice burla: è invece guidato da un intento serissimo, che il libro di Marchand e Ponchon tenta di ricostruire anche alla luce del confronto diretto con l’opera del sofista. Gli Autori propongono una traduzione in francese del Gorgia di Platone, seguita da una traduzione dell’ Encomio di Elena di Gorgia. Ogni traduzione è preceduta da un’introduzione ampia e dettagliata e da una partizione argomentativa del testo. A seguire, un’appendice cronologica con gli eventi principali compresi tra il 512 a.C. (spedizione di Dario contro gli Sciti) e il 338 a.C. (morte di Isocrate), ordinati in base ai riferimenti testuali rintracciabili nel Gorgia. Chiude il volume una bibliografia ragionata, divisa in letteratura primaria (edizioni e traduzioni) e secondaria, a sua volta organizzata in base ai nuclei tematici e problematici ritenuti più rilevanti.
Il Gorgia può essere considerato il testo fondativo della separazione tra filosofia e retorica, la prima caratterizzata, nell’ottica platonica, dal discorso intorno alla verità, la seconda dall’interesse esclusivo per l’eloquenza. In continuità con una lunga tradizione di studi, viene suggerito dagli Autori che fu probabilmente lo stesso Platone a introdurre per primo il termine “retorica” per indicare quella specifica tecnica del logos persuasivo che, nell’autonomia dalla filosofia come disciplina del vero, è destinata a un profondo impoverimento del proprio statuto epistemico. Viene poi sottolineato come, nel dialogo, Gorgia non sia mai definito “sofista”, ma solo “retore”. Distinguere sofistica e retorica offre a Platone un duplice vantaggio strategico: da un lato gli permette di separare Callicle e Polo da Gorgia (a differenza, infatti, dei suoi discepoli, e di Callicle in particolare, il maestro non promette mai di insegnare la virtù, ma l’arte di ben parlare); dall’altro, tale divaricazione consente a Platone di riflettere sulla questione che più gli sta a cuore, quella di un’arte della parola che si concentra esclusivamente sulla τέχνη τῶν λόγων e sulla pratica argomentativa a fini politici.
La critica platonica allo statuto della retorica come technē non coincide con la messa in discussione della sua utilità o della potenza dei suoi effetti, ma denuncia la mancanza di una seria riflessione da parte dei retori intorno alla finalità della loro pratica. Tale critica, inoltre, si basa su due obiezioni principali: una di tipo epistemologico e una di ispirazione morale. Per la prima, la retorica non è una vera technē perché non è pratica razionale, ma solo empirica; è semmai ἄλογον πρᾶγμα (465a6) o τριβή (463b4), costruita sui presupposti di un metodo congetturale. L’obiezione morale, invece, si concentra sulla finalità dell’autentica technē che è sempre un agire in vista del bene o del meglio, mentre la retorica pare priva di un chiaro orientamento o guidata esclusivamente da fini utilitaristici a vantaggio del retore.
Il Gorgia è un dialogo ricchissimo di allusioni storiche: fortemente ostile alla democrazia ateniese, Platone ne individua le figure più rappresentative in Temistocle e Pericle, che meglio incarnano la fallimentare politica espansionistica e democratica della città, le cui principali attività, dalle pratiche giudiziarie alla politica al teatro, finiscono per essere assimilate a un esercizio di pura retorica. La democrazia stessa, con la sua idea di uguaglianza e l’esaltazione della massa, è retorica. La similitudine tra salute e malattia, che attraversa a più riprese il dialogo, è evocata anche a proposito della critica alla politica imperialistica, considerata il morbo della città, così come il morbo è un’infezione del corpo (518c-d). La riflessione morale si intreccia con quella più strettamente storico-politica, mostrando come la divaricazione tra retorica e filosofia diventi insanabile anche nell’uso del linguaggio. Termini condivisi come franchezza di parola ( parrēsia), bene e giustizia sono interpretati da Socrate e Callicle in maniera inconciliabile: il piacere di cui parla Callicle non potrà mai concidere con il fare o il volere il bene; analogamente, la parrēsia va strappata all’artificiosità retorica per diventare parola di coraggio ed espressione di benevola sincerità; infine, la giustizia di Socrate non potrà mai essere il diritto del più forte, ma solo la scienza del bene.
Nel confronto tra Socrate e i tre retori, Platone mostra una diversa considerazione dei suoi interlocutori, ed è indubbio che l’atteggiamento verso Gorgia riveli un rispetto molto maggiore di quello tributato ai suoi due allievi, testimoni della sofistica deteriore. Tuttavia, il Gorgia si configura come un dialogo tra sordi, in cui Socrate finisce per porsi domande e darsi risposte: la conversione alla vita filosofica richiede evidentemente altri mezzi rispetto alla pura argomentazione. A questo scacco risponde forse anche la scelta di presentare il mito finale sul giudizio delle anime: falliti il dialogo e l’ elenchos come strumenti per confutare Callicle, viene introdotto un mito escatologico che, benché problematico in un dialogo che si propone di stabilire, contro la retorica, le condizioni per un uso razionale del discorso, è però tanto più efficace quanto più l’ elenchos ha fallito. Il mito può allora considerarsi, come suggeriscono Marchand e Ponchon, un racconto dalla validità argomentativa, il cui fine non è quello di sancire il trionfo ultimo della giustizia per anime che saranno ricompensate o punite in base alla loro condotta morale, ma quello di illustrare, ancora una volta in perfetta coerenza con la finalità del dialogo, il divario incolmabile tra una maniera retorica di giudicare (davanti a una folla stolta che si ferma alle apparenze) e una filosofica, in cui l’anima è posta, finalmente nuda, di fronte a un giudice saggio, in grado di sondarne in profondità la natura. Parallelamente, all’ elenchos retorico dei tribunali e delle contese eristiche si contrappone l’ elenchos filosofico che ha a cuore la giustizia dell’anima e la verità intorno alla sua condotta. Resta dunque la domanda cruciale dell’intero dialogo: come bisogna vivere? (cfr. 487e-488a). La vita filosofica finisce per coincidere con il modello di vita socratico, con il suo metodo di ricerca della migliore hairēsis e con l’indagine sulle motivazioni che guidano le nostre azioni.
In questa direzione gli Autori individuano infine due principali elementi di novità del Gorgia : si tratta del primo dialogo che pone esplicitamente il problema della scelta del miglior modo di vivere come questione personale e universale insieme, a cui tutti sono chiamati a rispondere affrontando il dilemma tra vita retorica e vita filosofica. Una seconda specificità del dialogo consiste nella particolare concezione della vita filosofica, che non è intesa come pura attività teoretica e contemplativa staccata dalla comunità degli uomini, ma come pratica politica legata alla riflessione sulla giustizia e sul bene.
Nella seconda parte del libro, l’ Encomio di Elena viene introdotto non solo come esempio di quelle epideixeis a cui Platone fa riferimento all’inizio del Gorgia (447b), ma anche perché il cuore dell’orazione gorgiana è la stessa questione discussa nel dialogo platonico: lo statuto del logos, il suo potere, il suo legame con il piacere. Per comprendere dunque finalità e obiettivi polemici del dialogo è necessario non perdere di vista l’orazione di Gorgia. Gli Autori si pongono l’annoso problema di come conciliare il trattato gorgiano Peri tou mē ontos, in cui si sostiene la non comunicabilità dell’essere e del sapere, con un’orazione che fa della potenza del logos il suo centro propulsivo ( Hel. 8-14). La risposta che viene suggerita si pone in continuità con una tradizione di studi ormai consolidata, che vede nel PTMO la critica alla filosofia nella sua pretesa di instaurare un rapporto privilegiato con la verità e la persuasione, dunque nella sua presunzione di primeggiare sulle altre modalità di argomentazione. Mentre però si tende generalmente a distinguere le finalità del logos filosofico ( PTMO) da quelle del logos retorico (orazioni), la tesi di Marchand e Ponchon è che Gorgia non stia mettendo in discussione l’efficacia del discorso filosofico in quanto persuasione razionale, ma solo la sua pretesa esclusività.
La retorica è troppo spesso ridotta, per un pregiudizio moderno, alla dimensione puramente formale del linguaggio, e la valutazione delle orazioni gorgiane rischia di non sfuggire a questo pregiudizio. Contro le letture che privilegiano un’interpretazione magica e irrazionale della retorica, gli Autori insistono sugli aspetti che confermano la centralità del logos come argomentazione razionale, dal procedimento apagogico alla logica del verosimile ( eikos), di cui Gorgia, pur non essendone l’inventore, ha fatto un uso sistematico. La scelta dunque di tradurre la maggior parte delle occorrenze di logos con “argument” (così come nel dialogo di Platone) corrisponde alla volontà di rispettarne la natura unitaria, pur nelle diverse manifestazioni. Forse su questo punto varrebbe però la pena considerare la specificità dei diversi logoi che Gorgia analizza, introdotti inoltre da puntuali formule di passaggio (come quella attestata tra Hel. 9 e 10, nella transizione dalla trattazione del logos poetico a quello magico, che invece gli Autori assimilano in un’unica argomentazione).
Che il Gorgia di Platone possa essere letto come la risposta della filosofia alla concezione retorica del discorso viene confermato da numerosi richiami intertestuali: la questione dell’onnipotenza del logos; il tema del kosmos, concetto sicuramente programmatico per Gorgia dal momento che è posto in apertura dell’orazione e ampiamente attestato anche nel dialogo platonico; il parallelismo tra potere dei logoi e medicina; la definizione del logos poetico (per la quale gli Autori parlano di una “quasi-citation” tra Hel. 9 e Gorg. 502c). Costante e puntuale è inoltre il rovesciamento degli argomenti gorgiani da parte di Platone, nel tentativo di spogliare la retorica del suo valore, mostrando che la sua presunta onnipotenza riposa in realtà sul supremo inganno della lontananza dalla verità.
Per la traduzione del Gorgia gli Autori hanno seguito l’edizione del testo greco di Eric Robertson Dodds (1959), a parte pochissimi casi segnalati in apertura, due dei quali mi paiono degni di nota: la scelta di adottare in 464b8, 464c2, 465c5 la lectio δικαστική (piuttosto che δικαιοσύνη), consegnataci dal manoscritto F, comporta che nel regno della politica le due arti in stretto rapporto l’una con l’altra siano l’attività legislatrice (νομοθετική) e quella giudiziaria (δικαστική), e non la virtù della giustizia; quanto alle forme peggiorative, l’attività legislatrice degenera in sofistica, quella giudiziaria in retorica. Altro cambiamento rispetto all’edizione Dodds è in 484b7, dove si preferisce seguire la lezione dei manoscritti (βιαίων τὸ δικαιότατον) piuttosto che restituire il testo di Pindaro (fr. 169 Snell), come appare in Aristide e nello scolio a Pind., Nem. 9.35 (δικαιῶν τὸ βιαιότατον). Ne risulta che Platone avrebbe modificato il verso pindarico in modo che così risuoni nelle intenzioni di Callicle: “faisant violence à ce qu’il y a de plus juste”, e non “justifiant la plus grande violence” (nota 47 p. 223). Si aprono in questo caso due ordini di problemi: il primo è legato al fatto che Platone cita correttamente il frammento pindarico in Leg. 715a1-2 (ma in questo caso si può pensare, come fa Wilamowitz, a un copista più affidabile o, come suggeriscono Marchand e Ponchon, a una volontaria manipolazione del testo nel Gorgia). La difficoltà maggiore riguarda la lectio tradita βιαίων τὸ δικαιότατον accolta solo da Libanio (con accento βιαιῶν), ma indifendibile soprattutto perché l’ipotetico verbo βιαιόω non è altrove attestato. Per la traduzione dell’ Encomio di Elena è stata invece seguita, pressoché concordemente, l’edizione di Francesco Donadi (1982).
L’assenza del testo greco non rende sempre facile valutare le scelte di traduzione degli Autori, soprattutto quando si tratta di rendere i giochi etimologici e le assonanze dell’originale gorgiano, ma anche del dialogo platonico, che spesso fa il verso allo stile del sofista (ad esempio in 466b1, dove manca un’esplicita resa del poliptoto ironicamente usato da Socrate a imitazione dello stile gorgiano). Inoltre, benché la bibliografia sia ricca e ben strutturata, talvolta è assente nel testo un richiamo puntuale alla storia degli studi che avrebbe invece potuto rafforzare la posizione degli Autori, mostrandone punti di rottura o di continuità rispetto alla tradizione.
Nel complesso, comunque, il libro rappresenta senza alcun dubbio uno strumento valido e serio per affrontare la questione del rapporto tra retorica e filosofia, e ci invita a ripensare Gorgia alla luce di Platone, ma anche viceversa: se infatti Platone fu lettore certamente molto critico nei confronti di Gorgia, fu d’altra parte costretto—suo malgrado—a confrontarsi con l’indiscusso maestro del logos.