BMCR 2017.06.38

Epicurean Meteorology: Sources, Method, Scope and Organization. Philosophia antiqua, 142

, Epicurean Meteorology: Sources, Method, Scope and Organization. Philosophia antiqua, 142. Leiden; Boston: Brill, 2016. xii, 301. ISBN 9789004321564. €125.00.

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Vi sono alcuni libri che, prima della loro pubblicazione, già sono citati dagli studiosi; questo è il caso della dissertazione dottorale di Frederik A. Bakker, Three Studies in Epicurean Cosmology (2010) che, dopo un accurato lavoro di revisione e di aggiornamento bibliografico, è pubblicata per i tipi di Brill. Fino al libro di Bakker non esisteva una monografia interamente dedicata alla questione della meteorologia epicurea, pertanto l’indiscusso merito di questo volume è soprattutto quello di aver colmato una lacuna negli studi. Il volume di Bakker non è un testo semplice per via delle molte questioni che vi si trattano; non è neppure un libro che raggiunge soluzioni definitive, preservando quella decisiva dose di problematicità che ogni onesta ricerca storica deve avere. Un ulteriore merito di questo lavoro è quello di essere profondamente improntato a una seria (e ormai rara) Quellengeschichte, fondata su un’attenta analisi dei non facili testi primari, senza tralasciare un costante confronto critico con la letteratura secondaria, ampia e soprattutto multilingue, che non discute, quindi, la sola produzione anglofona, come ormai generalmente si vede fare.

In questa sede ripercorrerò—anche se sommariamente—i temi affrontati, aggiungendo alcune considerazioni. Dopo una General Introduction (pp. 1–7) che, facendo da primo capitolo, fornisce alcuni dati essenziali sull’Epicureismo ed esibisce programmaticamente i temi che saranno affrontati nel corso del libro, il secondo capitolo è dedicato alle Multiple Explanations (pp. 8–75). Lo studio dei meteora (che per Epicuro sono tanto i fenomeni che chiameremmo meteorologici quanto quelli più strettamente astronomici) presuppone il pleonachos tropos, il metodo delle molteplici spiegazioni o cause. All’inizio dell’ Epistola a Pitocle (86) Epicuro afferma che i fenomeni celesti hanno molteplici cause del loro generarsi e della loro essenza (πλεοναχὴν ἔχει καὶ τῆς γενέσεως αἰτίαν καὶ τῆς οὐσίας); uno dei motivi che potrebbe aver spinto Epicuro a teorizzare tale metodo epistemologico potrebbe risiedere nel fatto che i meteora, essendo lontani da noi, sono degli adela, quindi delle realtà non–evidenti che è possibile esaminare scientificamente facendo riferimento ai loro semeia ( Pyth. 87) forniti dai fenomeni che accadono presso di noi. La nostra conoscenza dei meteora, quindi, non è diretta ma è mediata dai loro semeia e, di conseguenza, dai fenomeni παρ’ ἡμῖν. Giova menzionare, in proposito, la distinzione tracciata da Sesto Empirico ( M VIII 318–319) tra φύσει ἄδηλα e τῷ γένει ἄδηλα; si può concludere che i meteora, per Epicuro, non siano φύσει ἄδηλα (in questo caso la loro analisi risulterebbe impossibile) ma τῷ γένει ἄδηλα, la cui conoscenza è ottenibile attraverso segni o dimostrazioni (διὰ δὲ σημείων ἢ ἀποδείξεων). In questo capitolo Bakker si pone soprattutto due problemi: (1) le spiegazioni alternative date da Epicuro per un fenomeno celeste sono tutte vere? Il pleonachos tropos è originario di Epicuro o deriva dal Peripato? Dopo aver esaminato la lunga testimonianza sestana ( M VII 211–216) e la generale metodologia della conferma ( epimartyresis)/smentita ( antimartyresis), Bakker conclude che tutte le spiegazioni fornite da Epicuro e da Lucrezio ( DRN V–VI) sono tutte vere sulla base del cosiddetto principle of plenitude per cui, date l’infinità del vuoto e l’infinità degli atomi, negli infiniti mondi le spiegazioni non sono solo possibili ma tutte vere: «Although in our world each explanation can at best be called possible, in the universe at large, given the infinity of space and matter and hence of worlds, any given possibility cannot fail to be realised (the ‘principle of plenitude’) and so every possible explanation is also ‘true’, if not here, then somewhere else» (pp. 21–22). A ciò andrebbe aggiunto, però, che, per quanto i mondi siano infiniti, le forme e le condizioni interne a ogni mondo sono limitate.1] Ciò si spiega col fatto che gli atomi, per via del numero e della disposizione dei minimi ( elachista) al loro interno, hanno forme (quindi grandezze e pesi) limitate; pertanto anche il numero delle (possibili) spiegazioni dei fenomeni celesti nell’infinità dei mondi è necessariamente limitato e soprattutto non sarà così diverso rispetto alla quantità e alla tipologia di cause dei meteora che si verificano nel nostro mondo. Riprendendo (almeno in parte) uno studio di A. Wasserstein ( Epicurean Science, «Hermes» 106/1978, pp. 484–494), Bakker ha cura di sottolineare come le molteplici spiegazioni per un singolo fenomeno non necessariamente sono compatibili con quelle di un altro e ciò si spiega perché Epicuro rifiuta l’esistenza di un unico principio esplicativo che, appunto, spieghi e giustifichi il verificarsi di ogni fenomeno: «Epicurus viewed the cosmos as a series of unconnected phenomena, each to be explained separately in agreement with the appearances here with us» (p. 263). Si tratta di un punto problematico che evidentemente lede l’ akribeia scientifica che occorre perseguire anche nell’esame dei meteora ( Hrdt. 78); a me pare che Epicuro non sia interessato alla perfetta connessione di tutti i fenomeni naturali al fine di costituire un sistema fisico–astronomico unitario (di qui la sua critica agli organa astronomici), allo stesso tempo, tuttavia, non può essere trascurato che il pleonachos tropos si fonda sul monachos tropos ( Pyth. 86) e che, conseguentemente, ogni spiegazione non può compromettere l’esistenza e l’attività dei principi fondamentali della physis (gli atomi e il vuoto). La sezione dedicata all’“archeologia” del pleonachos tropos è una delle più originali del volume; la convincente conclusione di Bakker è che il metodo delle molteplici spiegazioni di Epicuro non possa essere, per così dire, “schiacciato” sulla metodologia teofrastea (ma anche aristotelica) di analisi dei fenomeni meteorologici. Ciò, tuttavia, non significa che il pleonachos tropos sia assolutamente originale di Epicuro; la condivisibile tesi di Bakker è che diverse spiegazioni per un singolo fenomeno sono rintracciabili (anche se non così di frequente) in Aristotele (cfr. e.g. Meteor. I 3, 314a 12–31) e in Teofrasto;2 in entrambi i filosofi, inoltre, si riscontra anche l’uso dell’analogia con gli eventi empirici direttamente verificabili per l’esame dei fenomeni celesti.3 Malgrado ciò né in Aristotele né in Teofrasto si osserva un uso massiccio e capillare di più spiegazioni per un evento naturale come in Epicuro che, probabilmente, è stato influenzato, quanto all’origine del metodo, da Aristotele e Teofrasto, ma il significato e l’uso di tale metodo sono in Epicuro del tutto innovativi e originali. Bakker, tuttavia, è perfettamente consapevole che questa conclusione dipende soprattutto dall’attribuzione della cosiddetta Meteorologia siriaco–araba, di cui si occupa specialmente nel secondo capitolo. In questo ambito si potrebbe aggiungere a ulteriore riprova della differenza tra Teofrasto ed Epicuro sul metodo il fatto che essi hanno una concezione diametralmente diversa di aisthesis che per entrambi è alla base della ricerca naturale (cfr. e.g. Theophr. Metaph. 8b 10–17). La relazione con il Peripato, tuttavia, non è limitata solo al metodo scientifico; Bakker sottolinea come in Epicuro e in Lucrezio le spiegazioni scientifiche fornite provengano non dall’osservazione dei fenomeni o dalla conoscenza diretta dei testi di quei filosofi che si occuparono di meteora ma con ogni probabilità da dossografie,4 come mostra anche l’ordine dei fenomeni esaminati. Per motivi cronologici non è possibile che Aezio sia la fonte di Epicuro ma è ben noto che gli studi di J. Mansfeld e D. Runia hanno definitivamente provato che i Placita di Aezio dipendono da Teofrasto e da Aristotele, pertanto non va escluso che Epicuro possa dipendere da dossografie peripatetiche. Bakker, infine, si occupa del Fr. 13 III 2–13 Smith in cui Diogene di Enoanda osserva che mentre tutte le spiegazioni sono possibili questa è più plausibile (11: πιθανώτερον) di quella; Bakker giustamente non ha dubbi sul fatto che «Diogenes of Oenoanda’s claim that some explanations are more plausible than others is a departure from Epicurus and Lucretius for whom all alternative explanations have the same truth–value» (p. 74). Le ragioni di ciò possono essere varie; secondo B. Diogene, a differenza di Epicuro, avrebbe voluto riconciliare la posizione epicurea con i risultati che l’astronomia del suo tempo aveva conseguito (p. 42). A mio giudizio non si può escludere che Diogene (o la sua fonte epicurea) avesse in qualche modo “riformato” l’originario metodo di Epicuro anche per la sua non piena comprensione. Se Diogene non segue Epicuro, Lucrezio, per Bakker, gli rimane fedele; a me pare, invece, che la trattazione del metodo delle molteplici spiegazioni proposta da Lucrezio non sia pienamente sovrapponibile al pleonachos tropos dell’ Epistola a Pitocle; ciò renderebbe più plausibile, tra l’altro, l’“evoluzione” o la “divergenza” di Diogene rispetto a Epicuro, dato il precedente lucreziano.

Il terzo capitolo ( Range and Order of Subjects in Ancient Meteorology, pp. 76–161) è dedicato al tipo e all’ordine di indagine dei meteora sulla base del confronto con alcuni rilevanti testi meteorologici: i libri I–III dei Meteorologica di Aristotele,5 il capitolo 4 del De mundo, il III libro (+ IV 1) dei Placita di Aezio, i §§ 89–248 del II libro della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, la sezione meteorologica stoica in Diogene Laerzio VII 151–154, la Meteorologia siriaco–araba, l’ Epistola a Pitocle e, infine, il libro VI del De rerum natura.6 Bakker conduce un’analisi sinottica estremamente scrupolosa di cui non è possibile rendere conto. La persuasiva conclusione è che la Meteorologia siriaco–araba, Aezio, Epicuro e Lucrezio mostrano, con qualche eccezione, numerose affinità relative all’ordine e all’analisi dei meteora investigati. Ciò conduce Bakker a esaminare nuovamente la vexatissima quaestio dell’attribuzione della Meteorologia siriaco–araba; la storia di questo testo—che comunemente si ritiene essere un “estratto” dai due libri (perduti) dei Μεταρσιολογικά di Teofrasto (Diog. Laert. V 44)—è complessa. Basti qui ricordare che quest’opera è giunta in versione siriaca e in duplice versione araba rispettivamente di Bar Bahlūl e, forse, di Ibn Al–Khammār. Solo nelle due versioni arabe compare il nome di Teofrasto, dato che la corrispondente sezione del testo siriaco è andata perduta. H. Daiber [= D.] ha fornito l’edizione critica delle tre versioni, aggiungendo anche la traduzione inglese della versione araba probabilmente attribuibile a Ibn Al–Khammār.7 Il capillare uso delle molteplici spiegazioni e l’ordine degli argomenti trattati farebbe pensare (come è stato fatto)8 che Epicuro e Lucrezio dipendano pedissequamente da Teofrasto tanto per l’invenzione del metodo epistemologico delle molteplici spiegazioni quanto per l’ordine dei meteora investigati e la tipologia delle spiegazioni offerte. Bakker, al contrario, rilevando che nelle opere sicuramente teofrastee non si osserva un uso tanto capillare delle molteplici spiegazioni, ipotizza che la Meteorologia siriaco–araba non sia la fonte privilegiata di Epicuro e Lucrezio ma che, invece, riprendendo una suggestione (rimasta tale e non approfondita) già di G. Bergsträßer, F. Boll ed E. Reitzenstein (cfr. p. 71), il testo siriaco–arabo dipenda fortemente dalla meteorologia epicurea. Io credo che, sulla base dei testi, questa ipotesi, per quanto non la si possa provare con certezza, sia particolarmente convincente. Quella che lo studioso definisce Epicurus’ Other Meteorology (p. 144)—ossia l’originaria e più ampia trattazione (rispetto a Pitocle) che Epicuro dedicò ai meteora (esplicitamente richiamata da Pyth. 84: τὰ γὰρ ἐν ἄλλοις ἡμῖν γεγραμμένα)—sarebbe la fonte di Pitocle, Lucrezio (VI 96–607) e, appunto, del frammento meteorologico siriaco–arabo (cfr. p. 154). Malgrado ciò è certo che la Meteorologia siriaco–araba non contenga un’opera in tutto e per tutto epicurea; se si considera la “sezione teologica” ([14.] 14–29 D.) del trattato si legge che dio non può essere la causa del disordine nel mondo ma lo è della corretta disposizione (delle cose) e dell’ordine (15–16). Questa tesi ovviamente non ha nulla di epicureo; per questo il frammento siriaco–arabo verosimilmente «is a compendium of some sort, derived for the most part from Epicurus’ meteorology, but supplemented and ‘corrected’ on the basis of other, possibly Peripatetic or even specifically Theophrastean theories» (p. 153), sebbene, a mio avviso, non si possa escludere perfino un’eventuale influenza stoica. Per ciò che riguarda l’“altra” meteorologia epicurea, fermo restando che, sulla base del confronto dei frammenti del libro XI del Περὶ φύσεως con Pitocle, Epicuro distingueva i fenomeni astronomici da quelli meteorologici, per quanto li sussumesse al di sotto dell’unico termine meteoron (p. 95), Bakker condivide l’idea di D. Sedley per cui i libri XII–XIII del Περὶ φύσεως sarebbero quelli dedicati ai fenomeni meteorologici (non a quelli astronomici, quindi).9 Il contenuto di questi libri sarebbe la fonte della sezione centrale (cioè quella strettamente meteorologica: §§ 99–111) di Pitocle, oltre che di Seneca ( NQ VI 20 circa la sismologia epicurea) e di Aezio (III 15, 11; III 4, 5), ovvero di quei testi che contengono spiegazioni o fenomeni non trasmessi da Pitocle (p. 144). Limitatamente alla struttura e all’ordine dei temi affrontati, l’“altra” meteorologia di Epicuro sarebbe la fonte di Pitocle (§§ 99–111), di Lucrezio ( DRN VI 96–607) e della Meteorologia siriaco–araba; le teofrastee Φυσικαὶ δόξαι (o anche, aggiungerei, i Μεταρσιολογικά, di cui però sappiamo pochissimo) sarebbero, per i contenuti delle spiegazioni, alla base dell’“altra” meteorologia epicurea oltre che di Aezio ( Plac. III), senza negare anche una dipendenza diretta di Lucrezio dal materiale dossografico presente in Aezio (pp. 156–158). La verosimiglianza di questa ipotesi si fonda sul “carattere epicureo” della Meteorologia siriaco–araba. Proprio su Lucrezio si incentra un’altra importante sezione del capitolo. Bakker rileva giustamente che Lucrezio dedica la parte finale del VI libro (608–1286) a quelli che considera « exceptional and local phenomena, the kind of phenomena the ancients referred to as παράδοξα, θαυμάσια or θαύματα, and mirabilia or miracula, i.e. ‘paradoxes’, ‘marvels’ or ‘miracles’» (p. 110); si tratta, per esempio, dell’Etna (VI 639–702), del Nilo (VI 712–737) o dei luoghi legati all’Averno (VI 738–839). L’interessante ipotesi avanzata è che questi versi—che non trovano paralleli in Pitocle —non derivino da Epicuro ma direttamente dalla letteratura paradossografica che Lucrezio avrebbe consultato.10 Senza dubbio interessante è il caso dell’Etna, menzionato nel De mundo (IV 395b 21), nel De mirabilibus auscultationibus (38b; 40) e in Plinio ( NH II 236); Bakker osserva, a ragione, come l’approccio lucreziano nei riguardi del vulcano siciliano sia estremamente peculiare, dato il forte interesse del poeta, confermato dal cospicuo numero di versi dedicati a questo fenomeno. Aggiungo brevemente che l’ Appendix Vergiliana conserva un poema didascalico, l’ Aetna, le cui attribuzione e datazione sono dibattutissime.11 Da Diogene Laerzio (V 49) sappiamo che Teofrasto scrisse un Περὶ ῥύακος τοῦ ἐν Σικελίᾳ in un libro; nell’ Aetna, inoltre, è ravvisabile il metodo delle molteplici spiegazioni (cfr. e.g. i vv. 102–117 sulle fenditure della terra); credo che uno studio accurato di questo testo, anche sulla base delle novità apportate da Bakker, sia ora auspicabile.12 Tornando ai versi lucreziani, Bakker, pur non escludendo che Lucrezio abbia potuto derivare la sua conoscenza dei mirabilia non da Epicuro ma da un altro epicureo (p. 126), ribadisce che la parte conclusiva di DRN VI può essere vista come «a personal innovation by Lucretius in answer to the increasing popularity of such marvel stories in the paradoxographical as well as meteorological literature of his time» (p. 157). Questa conclusione risulta persuasiva, benché non si possa escludere, appunto, che già qualche epicureo, evidentemente seguito da vicino da Lucrezio, si fosse occupato di fenomeni locali; è utile rammentare che in Diogene di Enoanda si trova la menzione di luoghi specifici come la Libia, la Scizia, l’Asia e l’India subito dopo la trattazione dei meteora.13

L’ultimo capitolo ( The Shape of the Earth, pp. 162–263) si occupa con acutezza del problema della forma della terra; generalmente gli studiosi attribuiscono agli Epicurei la tesi per cui la terra sarebbe piatta e non sferica come, invece, la scienza del tempo aveva provato. Bakker osserva che né in Epicuro né in Lucrezio sia rintracciabile un testo che parli esplicitamente della forma (piatta o sferica) della terra. A tale proposito Bakker esamina con precisione le diverse argomentazioni sollevate da filosofi e scienziati (da Aristotele a Cleomede, da Teone di Smirne a Tolemeo) tese a provare la sfericità della terra. Bakker tenta di investigare il difficile problema a partire dalla direzione del movimento.14 Senza scendere nei dettagli secondo B. la direzione del movimento rettilineo dall’alto verso il basso presuppone una cosmologia lineare o parallela e, dunque, una terra piatta, mentre il movimento che dall’alto si dirige verso il basso identificato con il centro implica una cosmologia centripeta e, quindi, una terra sferica (cfr. p. 179). Lucrezio ( DRN I 1052 ss.) critica senza mezzi termini una teoria avversaria (che rimane anonima) per cui tutte le cose tenderebbero verso il centro. Sulla base di un confronto ravvicinato (non esente da difficoltà) con un passo di Ario Didimo su Zenone (Fr. 23 Diels = SVF I 99) Bakker riprende con solidi ragionamenti la tesi di un libro—a torto dimenticato—di J. Schmidt ( Lukrez, der Kepos und die Stoiker, Frankfurt am Main 1990), per cui gli Stoici e non Aristotele (Furley) o dei Platonici sotto la guida di Polemone (Sedley) costituirebbero il bersaglio polemico di Lucrezio (p. 195),15 benché Bakker non condivida l’ipotesi di Schmidt per cui Lucrezio dipenderebbe da «neo–epicurean sources» (ivi). In ogni caso, nella Schlussbemerkung del suo lavoro, Schmidt sostiene che non è possibile provare che Lucrezio dipenda solo da modelli neo–epicurei ma che «Epikur sicher nicht die einzige [in grassetto nel testo] Quelle des Lukrez gewesen ist» (p. 223). Non mi sentirei di escludere che Lucrezio possa dipendere da altre fonti epicuree che polemizzarono con gli Stoici. La parte conclusiva del capitolo (pp. 223 ss.) si occupa, infine, della cosmogonia lucreziana di DRN V 449–508; Bakker non ha dubbi sul fatto che si tratti di un « Fremdkörper » (p. 234), dal momento che qui Lucrezio ammette che in principio i vari corpi della terra a causa del loro peso e del fatto che erano aggrovigliati, coibant in medio (450–451). Per Bakker questa è una contraddizione con DRN I 1053, in cui Lucrezio mette in guardia Memmio dal credere che tutte le cose convergano verso il centro, assumendo, quindi, come corrette la cosmologia lineare/parallela (del resto implicata anche dalla dottrina del clinamen : cfr. pp. 214–216) e, pertanto, la piattezza della terra. La conclusione che Bakker raggiunge è (condivisibilmente) piuttosto problematica e aporetica:

«It is true that the Epicureans assumed a parallel downward motion (with the curious exception of Lucretius’ cosmogony), but they did not infer from this, as their predecessors had, that the earth is flat. Nor do their astronomical theories suggest one specific shape of the earth. It would seem, then, that the Epicureans had no firm conviction as to the shape of the earth at all […]» (p. 262).

Mi chiedo, tuttavia, se la sezione filodemea sui cosiddetti star–gods ( De dis III [ PHerc. 152/157] coll. VIII–IX Essler) non possa gettare una qualche luce per chiarire la questione. 16 In breve Filodemo confuta la (falsa) credenza nella teologia astrale, asserendo che i corpi degli dei si riflettono su quelli degli astri, cosicché l’osservatore ha l’impressione che gli dei e gli astri si identifichino, occupando il medesimo luogo; per il Gadareno ovviamente non è così, dato che l’immagine di un oggetto riflessa da uno specchio non è l’oggetto in sé.17 Mi chiedo, pertanto, quale forma specifica abbiano gli astri di cui parla Filodemo e se la forma sferica (o comunque tondeggiante) non sia la più idonea a riflettere il quasi corpus divino; un astro che sia piatto potrebbe riflettere efficacemente il corpo degli dei?18 Al di là di questa che rimane una pura suggestione, il punto che mi sembra più interessante è il fatto che, fermo restando che per motivi cronologici Epicuro non poté polemizzare con gli Stoici, il rifiuto della cosmogonia basata sul movimento centripeto non può che essere diretta contro gli Stoici, dunque DRN I 1052–1093 «must be considered post–Epicurean» (p. 266), il che si oppone alla ben nota tesi di Sedley circa il fondamentalismo epicureo di Lucrezio.

Ho cercato di rendere conto, anche se cursoriamente, della ricchezza del lavoro di Bakker che apporta notevoli progressi e comprovate novità nel campo degli studi sull’Epicureismo. Un lettore attento saprà carpire i molti pregi di questo volume estremamente curato anche nella veste editoriale.19 Non da ultimo va segnalata la peculiare chiarezza con cui Bakker conduce le proprie argomentazioni che, essendo spesso complesse e articolate, sono sempre adeguatamente sintetizzate; molto utili anche le numerose tabelle e le illustrazioni che corredano queste pagine. I miei pochi rilievi critici, ça va sans dire, non oscurano affatto l’importanza di quest’opera ma, anzi, sono l’esito dei molti stimoli ricevuti dal serrato livello argomentativo che questo volume offre. In breve, un libro esemplare di storia della filosofia e di storia della scienza. ​

Notes

1. Cfr. D. Sedley, Creationism and Its Critics in Antiquity, Berkeley–Los Angeles–London 2007, pp. 155–166.

2. Bakker (pp. 67–68) menziona De igne 1 4–11 in cui Teofrasto menziona effettivamente diverse motivazioni della generazione del fuoco; tali ragioni, però, sono essenzialmente connesse ai diversi materiali combustibili che fanno da sostrato al fuoco, pertanto, non si tratta di vere e proprie spiegazioni alternative.

3. Solo di passaggio segnalo che l’uso dell’analogia non è ignota nemmeno all’anonimo autore del De mundo (un testo di cui Bakker si occupa nel secondo capitolo), come mostrano G. Betegh–P. Gregoric, Multiple Analogy in Ps.-Aristotle, De Mundo 6, «Classical Quarterly» 64/2 (2014), 574–591.

4. Chiunque volesse rendersi conto della ricchezza di questi riferimenti (soprattutto ai filosofi “presocratici”, tra cui, in massima parte, gli Atomisti antichi) limitatamente all’ Epistola a Pitocle può prendere in considerazione le annotazioni in E. Boer (Hrsg.), Epikur: Brief an Pythokles, Berlin 1954.

5. Forse sarebbe stato utile considerare brevemente anche Meteor. IV (cfr. p. 80) che, se non è attribuibile con sicurezza ad Aristotele, conserva materiale peripatetico (cfr. almeno C. Baffioni, Il IV libro dei «Meteorologica» di Aristotele, Napoli 1981, pp. 200–244).

6. Bakker (p. 79) decide di non occuparsi dei frammenti meteorologici di Posidonio e di Arriano; forse la figura di Posidonio avrebbe meritato qualche attenzione in più non solo perché probabilmente Posidonio criticò il pleonachos tropos epicureo (cfr. F. Verde, Posidonius against Epicurus’ Method of Multiple Explanations?, «Apeiron» 49/4 (2016), pp. 437–449), ma anche perché generalmente si considera Posidonio come una fonte influente del De mundo.

7. H. Daiber, The Meteorology of Theophrastus in Syriac and Arabic Translation, in W.W. Fortenbaugh–D. Gutas (eds.), Theophrastus: His Psychological, Doxographical, and Scientific Writings, New Brunswick–London 1992, pp. 166–293.

8. P. Podolak, Questioni Pitoclee, «Würzburger Jahrbücher für die Altertumswissenschaft», 34 (2010) pp. 39–80.

9. Secondo Bakker la distinzione (tradizionalmente aristotelica: cfr. p. 76) epicurea (più o meno implicita) tra fenomeni astronomici e meteorologici potrebbe spiegare anche lo “strano” ordine degli argomenti in Pitocle, dove si passa dalla cosmologia/astronomia alla meteorologia per poi fare nuovamente ritorno, alla fine della lettera, all’astronomia e alla meteorologia (pp. 93–94).

10. Rimane ancora assai utile la raccolta di A. Giannini (ed.), Paradoxographorum Graecorum Reliquiae, Milano 1966. Tra i trattati paradossografici studiati da Bakker vi sono la Historiarum mirabilium collectio di Antigono (difficilmente identificabile con Antigono di Caristo: cfr. T. Dorandi, Accessioni a Antigono di Caristo, «Studi Classici e Orientali» 51 (2005), pp. 119–124, spec. pp. 121 ss.) e la versione latina del XIII sec. del Liber de inundacione Nili per R.L. Fowler attribuibile a Teofrasto (cfr. p. 116 n. 111).

11. Per un primo orientamento cfr. F.R.D. Goodyear, The ‘Aetna’: Thought, Antecedents, and Style, «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt» II 32.1 (1984), pp. 344–363.

12. Cfr. già L. Taub, Aetna and the Moon: Explaining Nature in Ancient Greece and Rome, Corvallis, OR 2008, spec. pp. 49 ss.

13. Diog. Oen. NF 182 III ( Theol. XVI) Hammerstaedt–Smith.

14. È noto che Epicuro si occupa di questo argomento nell’ Epistola a Erodoto in più luoghi tra cui il § 60; solo en passant è utile ricordare che già E. Montanari ( Una polemica fisica in Epicuro, «Prometheus» 5/1979, pp. 124–36) aveva ipotizzato che il bersaglio polemico di questo paragrafo fosse Stratone di Lampsaco e non Aristotele.

15. Cfr. comunque anche K. Kleve, The Philosophical Polemics in Lucretius: A Study in the History of Epicurean Criticism, in O. Gigon (éd.), Lucrèce, Entretiens sur l’antiquité classique, Tome XXIV, Fondation Hardt, Genève 1978, pp. 39–71, nonché C. Lévy, Lucrèce et les stoïciens, in R. Poignault (éd.), Présence de Lucrèce, Actes du colloque tenu à Tours (3–5 décembre 1998), Tours 1999, pp. 87–98.

16. È interessante osservare che, nel contesto della trattazione dei luoghi (naturali) occupati dagli dei, Filodemo (col. VIII 14–15 Essler) informa che Epicuro si occupava del movimento verso il basso (π̣ερὶ  τῆc̣ κ̣άτ̣ω φ̣[ορᾶc) nel quinto libro (ἐν τ̣ῷ π̣ε̣[μ]π̣[τωι]) verosimilmente del Peri physeos (cfr. H. Essler, Glückselig und unsterblich: Epikureische Theologie bei Cicero und Philodem: Mit einer Edition von PHerc. 152/157, Kol. 8–10, Basel 2011, pp. 278–280).

17. Cfr. H. Essler, Glückselig und unsterblich, cit., p. 291.

18. Bakker si occupa anche di un’altra vexatissima quaestio epicurea, la grandezza del sole (pp. 236 ss.); assai velocemente mi limito a osservare che l’interpretazione del problema fornita da K. Algra ( Epicurus en de zon: Wiskunde en fysica bij een Hellenistisch filosoof, Amsterdam 2001) e riferita da Bakker a p. 236 n. 184 mi sembra convincente. Epicuro e Lucrezio si riferirebbero alla grandezza del sole relativa all’osservatore, il che può essere confermato anche dall’espressione τὸ φάν| τασμα τὸ ἡλιακόν di Dem. Lac. PHerc. 1013 col. XXI 5–6 Romeo.

19. Mi limito a segnalare solo pochi punti: i frammenti di Eudemo, in attesa della pubblicazione della nuova edizione di P. Stork, vanno citati secondo la numerazione di Wehrli (cfr. e.g. n. 134 p. 52; il passo di Teone [145 Wehrli] va anche indicizzato); la paginazione di De mundo IV nella tabella 3.1. (p. 102) è 395b… e non 5b…; il passo del PHerc. 1012 (p. 109 n. 87) va citato secondo l’edizione di E. Puglia (= col. XXXVII 4–5); p. 71 n. 194 e p. 131 n. 136 “van Raalte” e non “Van Raalte”; p. 169: datazione di Posidonio/Varrone/Cicerone (rispettivamente: 135–51 e non 151; 116–27 e non 127; 106–43 e non 143); p. 169 n. 36 il passo di Strabone corrisponde al Fr. 134 Broggiato (Cratete di Mallo); p. 187 l. 20 della traduzione inglese: Nor e non nor; p. 277: lo studio di J. Barnes (1989) è stato ristampato in Id., Mantissa: Essays in Ancient Philosophy IV, Edited by M. Bonelli, Oxford 2015, pp. 1–20; p. 296: i frammenti di Stratone di Lampsaco vanno ormai citati secondo l’edizione di R.W. Sharples (in M.-L. Desclos–W.W. Fortenbaugh, eds., Strato of Lampsacus: Text, Translation, and Discussion, New Brunswick–London 2011, pp. 5–229).