Il volume in esame è il risultato della lunga ricerca condotta da I. Algrain sull’alabastron attico ed è strutturato in due sezioni, la prima dedicata all’origine, alla produzione e allo sviluppo della forma, la seconda ai suoi usi; segue il catalogo degli esemplari figurati e a vernice nera.1
Nell’introduzione si ripercorre la storia delle ricerche sull’alabastron e si mette in risalto una lacuna degli studi: finora le indagini si sono incentrate prevalentemente su aspetti stilistici o iconografici e manca dunque uno studio completo degli esemplari attici e della loro evoluzione formale.2 L’Autrice dichiara di voler analizzare in particolare la figura del vasaio: considerando i raggruppamenti del Beazley, l’esame si concentra sulle forme e si confrontano i profili dei vasi per determinare gli aspetti morfologici peculiari di ciascun vasaio e quelli comuni a un atelier. L’analisi è finalizzata a riconoscere le mani dei ceramisti che lavorano in una stessa bottega (i cui vasi avranno elementi formali comuni; si veda ad esempio la tabella 1, p. 16) e a cogliere l’evoluzione della forma lungo la carriera di uno stesso ceramista; inoltre, si indagano l’organizzazione delle botteghe e le collaborazioni tra vasai e pittori.3 Sono valutati altri importanti elementi, come l’iconografia e lo schema decorativo, quest’ultimo considerato un marchio identitario delle officine. Come evidenziato dall’Algrain, il metodo è applicabile a quelle forme che, come l’alabastron, sono prodotte in un numero limitato di esemplari e che presentano molte varianti formali tra le botteghe.
La ricerca rientra nel filone di studi sulle forme vascolari attiche, un ambito che vanta una lunga tradizione4 e che più di recente è stato condotto integrando l’analisi della produzione con altri aspetti quali la distribuzione, l’iconografia, gli usi. L’Algrain esamina l’alabastron secondo una duplice prospettiva: da un lato integra efficacemente l’analisi morfologica con aspetti più tradizionali e traccia un quadro completo dell’intera produzione attica della forma (Capitoli 1-4); dall’altro illustra il panorama dei contesti d’uso di questo tipo di vaso, affrontando molti temi chiave dell’attuale dibattito scientifico sulla ceramica greca e sulla sua fruizione. Per la sua complessità, il tema della distribuzione degli esemplari esula dagli intenti del volume ed è trattato dall’Autrice in altre pubblicazioni.5
Nel capitolo 1, dedicato alle origini dell’alabastron, l’Autrice circoscrive l’ambito della propria ricerca solo alla forma che, elaborata in Egitto, si diffonde poi in Oriente e nel mondo greco ed è infine introdotta ad Atene; qui, alla metà del VI sec. a.C. circa, è prodotto il più antico esemplare a figure nere, decorato dal Pittore di Amasis. Quanto all’alabastron corinzio, se ne chiarisce una differente origine rispetto all’omonimo vaso ateniese.
Per le molte varianti presenti, l’Algrain opportunamente non presenta una tipo-cronologia generale, ma divide la produzione in tre fasi cronologiche, sulla base delle caratteristiche della forma, della decorazione e delle botteghe: la prima (Cap. 2) comprende gli esemplari databili tra la seconda metà del VI e gli inizi del V sec. a.C. (a parte l’esemplare decorato dal Pittore di Amasis, la produzione è documentata di nuovo a partire dall’ultimo quarto del VI sec. a.C.). L’efficacia del metodo emerge in particolare dall’analisi di realtà molto articolate come, ad esempio, la bottega del “vasaio di Paseas” e dei vasai Pasiades e Paidikos (vedi tabella nr. 5, p. 65). Nella seconda fase (prima metà del V sec. a.C.: Cap. 3) le botteghe che producono alabastra fabbricano principalmente lekythoi e presentano un’organizzazione spesso complessa, come ad es. l’atelier dei “vasai-pittori di Saffo, di Diosphos, di Haimon 1 e Haimon 2” (pp. 95-113). L’analisi è condotta con rigore metodologico e, quando necessario, se ne evidenziano i limiti: ad esempio, di fronte alla massa dei vasi attribuiti al vasaio-pittore di Haimon, l’Autrice si limita a distinguere le mani di due vasai (Haimon 1 e 2), lasciando aperto il problema del riconoscimento di altri ceramisti, poiché ritiene necessario un approfondimento complessivo sulla bottega. Attorno alla metà del V sec. a.C. finisce la produzione degli alabastra figurati, per riprendere solo con la terza fase (fine del V – inizi del IV sec. a.C.: Cap. 4). In quest’ultima, la forma presenta motivi geometrici o vegetali (ad es. del Gruppo Bulas) o è dipinta solo in bianco, a imitare gli esemplari in pietra, già diffusi dalla metà del V sec. a.C.: per questi, privi di decorazione, risulta particolarmente utile il metodo di analisi morfologica. Agli inizi del IV sec. ad Atene cessa del tutto la produzione di alabastra in ceramica e sopravvivono solo quelli in pietra, fabbricati fino all’età ellenistica, quando la forma verrà definitivamente rimpiazzata dal balsamario.
La seconda sezione si apre con un capitolo (Cap. 5) dedicato agli usi dell’alabastron. Se precedenti trattazioni su questo tema si erano basate principalmente sulle raffigurazioni vascolari, lo studio in esame propone un approccio più complesso, che tiene conto delle fonti letterarie, epigrafiche, iconografiche e archeologiche: ne esce un quadro variegato degli usi della forma, valutato in un’ampia prospettiva storica e archeologica. Legato prevalentemente — ma non esclusivamente — ad un pubblico femminile, alla toilette, alla cura del corpo e all’ornamento, l’alabastron appare sovente collegato ai riti del matrimonio, ma anche ad ambiti diversi, quali i rituali funerari, le offerte nei santuari, il banchetto e il contesto atletico. Per necessità di sintesi ci si sofferma in questa sede solo su alcuni aspetti della ricerca, che offre al lettore numerosi spunti di riflessione. L’Algrain esamina le immagini vascolari che mostrano gli usi dell’alabastron riconoscendo il valore simbolico (e non mimetico del reale) di queste raffigurazioni ed evidenziandone la polisemia e il carattere spesso volutamente ambiguo. Risulta così superata l’idea che il corpus delle immagini sugli alabastra costituisca un insieme uniforme e coerente, connesso in prevalenza alla donna e alle pratiche della seduzione.6 Al contrario, nel volume in esame si evidenzia come tale corpus sia molto più vario e non si presti a letture univoche, se non a costo di forzature. Emblematico è il caso delle figure femminili identificate come etere, quando, ad esempio, nella scena è presente un uomo che offre un dono ad una donna (pp. 160-161, cat. II.67, fig. 100); l’Algrain vi ravvisa invece una più complessa strategia narrativa che prevede l’unione del tema della seduzione e del matrimonio, cui rimanda il gesto compiuto dalla donna che allaccia la cintura del chitone. Più in generale l’Autrice, richiamandosi a recenti studi orientati verso la rivalutazione della figura femminile nella società ateniese,7 propone per questa e altri tipi di scene letture alternative, come nel caso delle cosiddette “ hetaires fileuses ” (pp.165-168). Notevoli risultati sono ottenuti anche dall’analisi contestuale, una prospettiva di indagine che è un punto di forza di questo lavoro e che si auspica verrà approfondita in futuro. L’esame dei diversi contesti d’uso, limitato nel volume agli esempi più significativi — in particolare ateniesi — chiarisce che l’alabastron non è un vaso di esclusiva pertinenza femminile. L’Algrain, anzi, si chiede se per l’Antichità sia legittimo distinguere nettamente tra vasi maschili o femminili o, piuttosto, se sia più corretto considerare tali differenze in modo meno rigido. Il capitolo esamina infine il contesto commerciale dell’olio profumato: l’alabastron e la pelike sono introdotti insieme nel repertorio del Ceramico ateniese quando, alla fine del VI sec. a.C., si diffondono qui pratiche di lusso di matrice orientale, testimoniate anche da altri oggetti di prestigio come phialai, parasole, olii profumati. Il capitolo finale (Cap. 6) approfondisce il tema dei profumi antichi e del loro rapporto con l’alabastron. La preziosità del contenuto è evidente se si considera la ridotta capacità della forma, mentre la scarsa praticità del vaso testimonia la voluta adesione al prototipo orientale, per evocarne l’origine prestigiosa. Alla provenienza esotica della forma e del contenuto rimandano, secondo l’Autrice, anche le raffigurazioni sul Gruppo degli alabastra del Negro, cui è dedicata ampia trattazione.
Nelle conclusioni l’analisi si allarga anche alle forme attiche per profumi (aryballos, lekythos, exaleiptron), delineando un quadro di riferimento utile per la definizione delle specificità dell’impiego dell’alabastron. Nelle ultime pagine l’Algrain torna sui destinatari dell’alabastron e sulla pluralità dei soggetti presenti sulla forma, tra i quali alcuni tipicamente maschili (ad esempio opliti, atleti), o episodi del mito, che la studiosa presenta in un’utile tabella di sintesi che copre l’intera produzione (tabella 11, p. 212). Tale varietà di soggetti è imputabile a diversi fattori: scelte dettate dalla moda del momento o dovute al ceramografo e alla tradizione di bottega, o, forse, a richieste specifiche. Non si può dunque stabilire per l’alabastron un legame costante tra forma e immagine, diversamente da quanto ravvisabile per altre forme del repertorio attico; devono essere invece valutati anche l’evoluzione delle iconografie nel tempo e il più ampio quadro della produzione: ad esempio, la preponderanza dei temi femminili sugli alabastra dopo il 480 a.C. è iscrivibile in un fenomeno più generale che riguarda anche altri tipi di vaso.
L’opera è corredata di due appendici (pp. 219-222), la prima con una tabella riepilogativa dei ceramisti che hanno prodotto alabastra e dei ceramografi che li hanno decorati; la seconda con una tabella in cui sono presentati i profili dei vasi rappresentativi per ciascuna bottega individuata nell’ambito della produzione.
Segue il catalogo dei 658 alabastra attici noti all’Autrice, la più ampia raccolta attualmente disponibile. Il catalogo è strutturato per fasi e, all’interno di queste, per botteghe. Le schede, sintetiche e con le più rilevanti informazioni, riportano anche la misura della capacità dei vasi, calcolata mediante il software disponibile sul sito web del CreA-Patrimonie,8 una bibliografia aggiornata e i riferimenti al Corpus of Attic Vase Inscriptions e al Beazley Archive Pottery Database. Per una più agevole fruizione del catalogo sarebbero risultati utili alcuni indici, ad esempio delle provenienze o del luogo di conservazione.
Il volume è molto curato nella sua veste editoriale ed è corredato di un ampio apparato grafico e fotografico, con molte immagini a colori e numerose tavole dei profili dei vasi più rappresentativi delle tipologie individuate.
Questo libro, rivolto principalmente ad un pubblico di specialisti, non solo presenta un esame aggiornato e completo sull’alabastron attico, colmando così una lacuna degli studi, ma — per originalità del metodo e ampiezza dell’analisi — costituisce anche un valido riferimento per future ricerche sulla ceramica greca.
Notes
1. Lo studio, intrapreso come ricerca di dottorato, rientra in un pluriennale programma del CReA- Patrimonie dell’ Université Libre de Bruxelles dal titolo La céramique dans les sociétés anciennes: production, distribution, usages. Su questi temi vedi anche Tsingarida, A. (ed.) (2009) Shapes and Uses of Greek Vases (7 th -4 th centuries B.C.). Bruxelles: CReA-Patrimoine; BMCR 2010.09.12.
2. In particolare: Luchtenberg, S. (2003) Griechische Tonalabastra. Untersuchungen zu ihrer Formentwicklung, Verbreitung und zu ihrem Ursprung. Münster: Scriptorium; Badinou, P. (2003) La Laine et le parfum. Epinetra et alabastres. Forme, iconographie et fonction. Recherche de céramique attique féminine. Louvain: Peeters.
3. Il confronto dei profili dei vasi è stato utilizzato anche per lo studio di altre forme vascolari, ad esempio: Jubier-Galinier, C. (2003) ”L’atelier des Peintres de Diosphos et de Haimon,” in P. Rouillard & A. Verbanck-Piérard (eds.), Le vase grec et ses destins. München: Biering & Brinkmann, p. 79-89 (lekythos); D. Tonglet, “New attributions to the Sappho-Diosphos Painters’ workshop. A group of black-figure kyathoi reconsidered” BABesch (89). p. 1-25.
4. A partire da: Haspels, C.H.E. (1936) Attic black-figured lekythoi. Paris: de Boccard; Bloesch, H. (1940) Formen attischer Schalen von Exekias bis zum Ende des Strengen Stils. Bern: Benteli.
5. Ad esempio Algrain, I. (2012) “L’alabastre attique. Distribution et usages en Méditerranée occidentale” in D. Frère & L. Hugot, Les Huiles parfumées en Méditerranée occidentale et en Gaule, VIII e s. av. VIII e s. ap. J.-C.. Rennes: Presses Universitaires de Rennes.
6. Secondo quanto emerge in particolare in Badinou (2003), op. cit. (n. 2).
7. Vedi Frontisi-Doucroux, F. (2004) “Images grecques du feminin: tendances actuelles de l’interpretation.” ClioMir (19), p. 2-9.
8. CReA Patrimoine, Calcul de capacité de récipients.