L’universo semantico del greco πίστις copre una rete di significati che ritroviamo anche nella corrispondente fides latina; a differenza di fides, tuttavia, πίστις richiede, come base dell’articolazione, un rapporto di parità tra i contraenti. Concentrando la sua indagine su Parmenide, Gorgia e Platone, Bontempi propone un saggio di filosofia politica di solido impianto scientifico in cui evidenzia le diverse modalità con cui πίστις si configura quale fondamento dello sviluppo dell’interazione. Il saggio è diviso in 7 capitoli, accompagnato da “Fughe e variazioni”, piccole appendici che fungono da contrappunto o approfondimento filosofico ad alcuni concetti impiegati dall’Autrice.
Nei capitoli 1 e 2, dedicati a Parmenide, Bontempi mette nitidamente in luce come πειθώ e πίστις non possano essere intesi come termini intercambiabili, ma indichino due momenti gnoseologici ed ontologici differenti: πειθώ, riferibile sia alle ἀλήθειαι sia alle δόξαι, si delinea come uno stato del parlante (semplice convinzione di verità) nel momento dell’assestamento di una condizione di relazionalità e reciprocità, ma è sempre preceduta da πίστις, credenza o fiducia tipica del λόγος, che si esprime soltanto nell’ambito dell’essere e del pensiero, i quali per Parmenide, come è noto, coincidono. Scrupolosa la critica che Bontempi muove alle traduzioni dal greco che sminuiscono la portata di πίστις a mero fenomeno psicologico o che ne forzano indebitamente il significato (in particolare risulta convincente, a p. 45 n. 80, l’opposizione alla proposta “Evidenz” di Fraenkel-Heitsch, che assimilano πίστις a πειθώ). In Parmenide, la persuasione si concretizza, secondo la formula di Bontempi, in una “relazione assoluta”. Dato che la lingua degli uomini è persuasiva mentre il λόγος è sempre λόγος πιστός, contro il rischio di un’apertura al molteplice e la disposizione di una relazione nella differenza a causa di πειθώ, intervengono i “lacci di πίστις”, conditio sine qua non per l’instaurarsi di una forma reale di reciprocità e che delinea, nell’Eleate, un “modello relazionale contrapposto a quello dis-posizionale che apre al molteplice e al divenire” (p. 52). Nella relazione tra essere, pensiero e linguaggio bisogna evitare che si generi un di più o un di meno: la logica dell’uguale o dell’identico è alla base della proposizione di identità che suggella tutto il pensiero parmenideo, una proposizione tautologica scevra da ogni vizio dialettico (senza gli esiti hegeliani di Essere come Nulla) che si dà come relazione già positivamente determinata risultante dall’esclusione di ogni differenza, dis-crasia o dis-posizione. È l’etica o l’ascetica della ripetizione o dell’uguale, imposta da πίστις: il logos parmenideo non è passaggio di informazioni, né rivelazione o rappresentazione.
I capitoli 3, 4 e 5 prendono in esame il λόγος gorgiano. Come si evidenzia dal trattato Sul Non Essere, Gorgia dimostra l’incomunicabilità dell’ente: il λόγος è puro passaggio di parole, l’ente se ne sta al di fuori e non viene mai comunicato; tuttavia, l’atto di parola non rinuncia ad essere poietico, ma produce una esteriorità che compone una referenzialità rovesciata. La parola non è compressa in un significato predeterminato, ma per essere disponibile ed essere fatta propria da altri deve essere ambigua: il λόγος e la comunicazione si reggono sull’ambiguità delle parole e sulla loro potenza creatrice. Si viene così introdotti all’elogio dell’ ἀπάτη che campeggia nell’ Encomio di Elena : il λόγος è poiesi, e il suo effetto, la persuasione del linguaggio, produce ἀπάτη, inganno; contro Parmenide, la parola è persuasiva quanto più inganna. L’Autrice dedica alcune pagine alla discussione della struttura del processo percettivo rilevando nel testo gorgiano un parallelo tra l’artificio della percezione (declinato anche nella sfera teatrale) e il discorso stesso: “la relazione percezione-emozione non è univoca e dipende dall’intervento ermeneutico -decodificatore, culturale- dell’individuo” (p. 108 n. 138); acute e precise le riflessioni sviluppate intorno alla concezione gorgiana delle funzioni psichiche (p. 92 n. 119 , pp. 94-5 n. 121, e p. 100 n. 130). Rivelato quindi che il λόγος è costituzionalmente scambio e passaggio di parole, benché non di enti, informazioni o vissuti, e che tale scambio produce legami coscienziali e sociali, Bontempi si spinge ad attribuire a Gorgia la categoria ermeneutica della transazione deweyana, intesa come quella “relazionalità assoluta” che sintetizza il λόγος quale τέχνη e poieisi, suprema espressione della sua potenzialità generativa.
La categoria della transazione dall’io parlante all’altro che ascolta segna il passaggio dall’ Encomio di Elena all’ Apologia di Palamede, orazione dove domina l’aspetto relazionale del λόγος gorgiano, quasi assente nell’ Encomio. Bontempi mette in luce come πίστις venga ad assumere nella perorazione tre livelli di significato: nell’ipotetico scambio tra Palamede e il barbaro, πίστις si configura come pegno, garanzia o vincolo, ma per la mancanza di un movente ragionevole, e per l’incompatibilità tra i beni offerti dallo straniero e il male assoluto che colpirebbe il traditore, πίστις assume l’accezione di fiducia che viene data allo scambio e non della garanzia dello scambio stesso, ponendosi come discriminante rispetto alla follia. Palamede serra l’argomentazione ed estende la transazionalità logologica sino alla dimensione unica che permette l’atto della parola: la sua dimensione sociale. Il tradimento, infatti, mette a rischio la partecipazione dell’uomo libero alla vita della polis, ne mina la sua identità: chi perde la πίστις non può avere transazione alcuna. Bontempi opera una buona disamina del par. 14 dell’orazione e allarga gli orizzonti inserendo l’argomentazione gorgiana all’interno della riflessione etica della Grecia del V secolo; pertinente ed equilibrata è la sua comparazione tra l’ epideixis gorgiana e l’intellettualismo etico socratico. L’Autrice procede a chiarire, seppur con una certa ripetitività, la funzione del λόγος come atto sociale, evidenziando la tragicità di fondo dell’ Apologia di Palamede : l’eroe non può fare appello alla sua esistenza precedente, in cui ha dimostrato di essere πιστός tra gli uomini: la parola appare nuda, scoperta, disarmata, e l’elogio di se stessi si rivela meramente un discorso, sullo stesso piano della calunnia. La πίστις vive quindi un paradosso: a meno di non essere deficitari di diritti costituzionali (come i folli) o socio-culturali (come gli schiavi), il gioco di decostruzione della credibilità del discorso altrui rappresenta una minaccia sempre latente anche per il proprio λόγος: la relazionalità, che πίστις sostanzia tra gli uomini, non solo è dubbia, ma è sempre revocabile.
Rifuggendo letture gorgiane orientate alla messa in luce di derive solipsistiche del Leontino, Bontempi nel capitolo 5 riscopre in Gorgia un io poetico, produttore dell’atto comunicativo, irriducibile alla parola, mai risolvibile nel λόγος stesso: nello scarto tra l’io che si esprime e la parola stessa risiede la possibilità della comunicazione, poiché ogni parlante mette in circolazione un qualcosa di esterno, indipendente da lui e produttivo (ambiguo) verso gli altri. Diversamente da Parmenide, per cui Bontempi conia la formula di “relazione nell’identità”, ovvero di “identità senza differenza” (λόγος, ἐόν e νοεῖν), per Gorgia la prospettiva è ribaltata, per cui si può parlare di “uguali nel differire”, ovvero di “differire senza identità”. Solo rifuggendo dal vincolo identitario lo scambio può essere produttivo; Bontempi lo chiama generativo, per rimarcare il legame quasi genitoriale tra l’io po(i)etico e il λόγος. Acutamente, l’Autrice rimarca che, come per Parmenide, anche per Gorgia πίστις non va confusa con πειθώ: πειθώ non ha alcun freno, è pura forza, e si avvicina subdolamente a βία, cieca e unilaterale violenza che agisce su soggetti inerti (le donne, come Elena) o impossibilitati (come gli schiavi). In secondo luogo, Bontempi ha buon gioco nello svincolare πίστις dalla fides romana: se fides trascina con sé un universo giuridico, religioso o politico, πίστις fonda l’uguaglianza che sta alla base della relazione sociale all’interno dell’uomo Greco; come il fr. 276 Radt di Eschilo suggerisce, non sono i giuramenti a fondare la garanzia, ma è l’uomo, con la sua εὔνοια, che si pone a garanzia del giuramento.
Se Πίστις è categoria sostanziale alla relazione e delimita il sociale in quanto generazione costruttiva, risultano esclusi dai rapporti sociali sia lo schiavo sia il folle. Accomunate a queste due categorie di parlanti infidi, seppur in maniera problematica, sono le donne, esseri della socialità ma non della società, ossia della politica. Tradizionalmente dipinte come truccate, ove l’estetica è ossessivamente inganno e seduzione e l’ornamento è intenzionalmente raggiro, la donna esprime il differire come condizione pre-politica, laddove la deriva di πειθώ non è trattenuta dall’attività delimitante di πίστις. In controluce, escludere la donna dalla politica significa intendere il sociale come relazione in cui ci si espone nudi, non camuffati o nascosti, poiché “πίστις è una relazione sociale fra individui che si mettono l’uno nelle mani dell’altro, senza veli” (p. 239).
Nei capitoli 6 e 7 Bontempi rileva l’eredità gorgiana alla base della concezione platonica del λόγος. Restringendo l’analisi ai dialoghi Gorgia, Repubblica e Leggi, Bontempi rileva come il rapporto di fiducia, che in Gorgia si definisce secondo la disponibilità, la trasparenza e la revocabilità, si ritrova anche in Platone, ma si amplia ulteriormente, perché l’iniziativa dell’uomo significa tensione verso il bene: “solo un dire legato ad un pensare è produttore di senso e realtà” (p. 203). È la razionalità che guida l’uomo nelle scelte e nelle situazioni di giudizio: la generica intelligibilità gorgiana cede il posto alla ragione, mentre il parlare poetico di Gorgia viene ridotto a esempio di imitazione. La πιστότης, che si configura come vicinanza alla ἀλήθεια, diviene, nelle Leggi, la caratteristica preferibile nell’uomo correttamente inserito nel contesto della socialità politica. Se il Palamede gorgiano metteva a paragone la città con lo straniero, le Leggi platoniche riconducono il rapporto con l’altro all’interno della città stessa e lo spingono sin dentro l’anima di ognuno. La città è integrazione e armonizzazione dell’individuo nel legame comunitario: l’uomo πιστός, per non scivolare in un astrattismo morale kantiano, deve saggiare la bontà della sua relazionalità all’interno della comunità, mettendo in gioco, in una prospettiva etica molto più ampia di quella gorgiana, anche se stesso. Nel gioco della differenza dell’io con l’altro, nell’irrimediabile distanza reciproca, nella stasioticità latente quale elemento essenziale della comunicazione politica, trova la sua collocazione πίστις, la quale, come forma dell’opinione e non del sapere, agisce come memento della precarietà dei legami sociali: è infatti sottile la linea che separa l’affidamento dall’acquiescenza al sistema vigente. Pertanto, l’affidamento all’interno delle differenze deve mantenersi dialettico, preservando quella tensione critica negli assetti comunitari per non ritrovarsi ingabbiati nella gerarchia e in realtà sovra e sub-ordinate. Poiché l’altro si configura come istanza sempre da integrare (e mai di fatto completamente integrabile) in una relazione costantemente revocabile che trova la sua ragion d’essere proprio nella sua irrisolutezza e frantumazione, la comunità non è il superamento omogeneo delle differenze, ma è confronto tra soggetti irriducibili e discreti i cui rapporti divengono riconoscibili nell’interazione con gli altri. Il λόγος non è universale, si immiserirebbe nella ὁμολογία che sanerebbe le differenze, eliminando quella tensione ossimorica alla base della politica, che Bontempi chiama della “resistenza generativa”. Se il λόγος diventa semplice riconoscimento oppure organizzazione, e non più costruzione di nessi dialettici tra identità e differenze, rischia di tradursi in oppressione. Questa eventualità è scongiurata dalla criticità della ragione che, surrazionalmente, si interroga su di sé e conosce la possibilità di modificare anche se stessa: davanti al “non” dell’altro, l’io diventa più potente e al contempo, in tale sovrabbondanza, la relazione con gli altri si attiene alla sua dimensione politica e non oppressiva.
Nel complesso, il saggio si muove con grande disinvoltura tra problemi testuali, questioni filosofiche, e implicazioni socio-politiche, proponendo prospettive organiche e convincenti. Bontempi mostra grande rispetto per il testo e solidità filologica. La scelta di traslitterare il testo greco (tranne nelle note a carattere più tecnico) mira a coinvolgere lo studioso del pensiero politico prima che il filologo, che comunque troverà nel saggio un valido strumento di confronto (unico refuso nel greco a p. 100 n. 80). Apprezzabile è l’acribia terminologica e l’utilizzo delle etichette di “relazione assoluta” e “relazionalità assoluta”. Ciò che, invece, risulta poco attraente e rende il saggio non di agevole lettura è una certa ripetitività ed una eccessiva ridondanza retorica dell’argomentazione, talvolta legata ad una compiaciuta prolissità, specie nei capitoli dedicati a Platone, che soffrono di una eccessiva enfasi ermeneutica. Questo rischia di limitare la conoscenza del saggio presso gli studiosi che vogliano approfondire la valenza politica della nozione di πίστις, e di privarlo della diffusione che, per robustezza e finezza di analisi, esso sicuramente merita.