L’edizione delle Satire di Orazio curata da Lorenzo De Vecchi presenta un’introduzione, una nuova traduzione italiana e un commento ai singoli componimenti.
Nel panorama italiano, l’ultima edizione commentata dei Sermones oraziani aveva visto la luce nel 1994, a opera di Paolo Fedeli, nell’ambito della benemerita edizione degli opera omnia di Orazio (Roma: Libreria dello Stato). Nel 2012, Emily Gowers ha pubblicato per la CUP un’edizione del primo libro delle Satire. L’edizione di De Vecchi si presenta dunque come il primo strumento, nel nuovo millennio, teso a offrire una nuova prospettiva a tutto campo sul panorama delle Satire oraziane.
Il volume ha il merito non soltanto di esplorare a pieno e con lucidità la complessità della materia satirica oraziana, dalla natura ‘varia, sorprendente, ambigua’ (26), ma anche di aver soprattutto reso fruibile il testo a un pubblico di lettori non esperti, operazione, questa, possibile soltanto se si è capaci di muoversi agevolmente tra gli eterogenei percorsi, ispirati dalla musa pedestris. A riprova dell’attenzione riservata all’elaborazione di un’opera che costituisca un agile strumento per chi si avvicina per la prima volta alla satira oraziana, vorrei citare l’ incipit dell’introduzione (9). De Vecchi esordisce proprio interrogandosi su che cosa rappresenti il concetto di “satira” per gli studenti liceali. Se la risposta più ovvia e comune contempla lo ‘spirito satirico’ e l’‘attività da esso esercitata’, l’obiettivo del volume, egregiamente perseguito, è illustrare come siano il sermo merus oraziano, i sermones Bionei e il sal niger a rappresentare il contributo fondamentale per la definizione del genere satirico.
Il testo latino seguito è quello di Klingner (Lipsiae 1939), con qualche variazione, discussa via via nel commento.
L’introduzione (9-30), priva di qualsiasi corredo di note, e il titolo complessivo Varietà e unità nelle ‘Satire’ di Orazio mi pare rappresentino un’opportuna sintesi della ‘riflessione multiforme’ (9) tipica del genere e insieme della coerenza, che caratterizza la facies poetica oraziana, il cui praeceptum più significativo, come si ripete sovente, è quello di insegnare la verità attraverso il risus. Insegnamento, questo, che De Vecchi riscontra e declina in tre momenti: il celebre ridentem dicere verum / quid vetat? (1.1.24 s.), la sentenza ridiculum acri / fortius (1.10.14 s.) e la conclusione della satira 2.1, dove il risus rappresenta il mezzo per piegare ogni diffidenza (25). Dopo il ‘dire la verità ridendo’, in 1.10.9 ss., De Vecchi individua ‘la più chiara enunciazione dello stile e del tono generale della satira’ (383) laddove la reiterazione di opus est, da tono normativo, è in ossimorico rapporto con una dichiarazione di una varietà che abbracci tanto lo scherzo quanto l’austerità (11 opus est modo tristi, saepe iocoso).
Dato che, come si legge a p. 18, l’intenzione dell’autore non è quella di valutare la poesia di Orazio sul metro delle vicende esistenziali, le brevi note biografiche oraziane si condensano nel tratteggiare un’efficace trattazione storica e sociale in cui si incastonano le possibili datazioni delle opere oraziane e in cui un dato, su tutti, è messo in evidenza: è la crisi di un’epoca a plasmare il carattere delle Satire, eredi ‘della forza propulsiva della recente poesia romana e dell’originaria severità del moralismo romano’ (13).
Dopo cenni su Lucilio, i cui rapporti con Orazio saranno più efficacemente illustrati nei commenti alle satire 1.4. e 1.10, in uno spazio breve, ma incisivo, De Vecchi fornisce un sintetico profilo delle influenze letterarie che hanno operato sulle Satire. Ennio, i comici greci, la diatriba, modelli che la grandezza del poeta non si limita a riproporre, ma la cui lezione è piuttosto rielaborata in una nuova arte raffinata e insieme colloquiale. Soffermandosi invece sul retroterra filosofico dei Sermones (21), caratterizzato dai principi etici dell’ autárkeia e della metriótes, quest’ultima che agisce con effetto mitigante sulla prima, De Vecchi ribadisce la libertà intellettuale del poeta, lontano da ogni rigido dogmatismo e da ogni schematizzazione morale della vita.
Il paragrafo sull’organizzazione interna dei due libri (14) permette di osservare più da vicino l’atteggiamento dell’autore che, di fronte all’ossessiva necessità di imbrigliare il sermo oraziano in sistematiche interpretazioni, alla ricerca di talvolta sterili rispondenze (tematiche e stilistiche), non si lascia tentare e dimostra un sensibile rispetto per un linguaggio, una costruzione poetica di cui quell’‘irrequietezza’, sottolineata da Mario Labate,1 è sicuramente un carattere rappresentativo. De Vecchi individua una sicura uniformità per i primi tre componimenti e ipotizza dunque la deliberata ricerca, per le satire successive, di una maggiore libertà compositiva. Varietà, opposizione, contrasto sembrano rappresentare le chiavi interpretative predilette da De Vecchi per decriptare il testo oraziano e, riguardo all’ultimo elemento, è particolarmente apprezzabile la riflessione sul sistema binario (20), che vede schierate una pars construens e una destruens, di cui la prima coincide con la voce di Orazio, ma che, per la costante autoironia sui propri limiti, rifugge il rischio di ripiegarsi in rigidi moralismi. L’esigenza di individuare le parti construens e destruens riaffiorerà puntuale nel commento, a rispettare una chiave interpretativa che vede nella marcata polarità un elemento essenziale.
Il paragrafo La persona di Orazio nelle ‘Satire’, (24), costituisce ancora un tentativo programmatico per svincolarsi tanto dalla critica tradizionale quanto dalla tendenza ‘allegorica’ diffusasi negli ultimi decenni. Tendenza sovrainterpretativa che viene criticata anche nel commento, dove però, per evidente scelta dell’autore, non vi sono associati nomi di studiosi e precisi riferimenti bibliografici. La ponderata posizione dello studioso implica l’abbandonarsi alla natura contraddittoria e paradossale del genus satirico, rinunciando alla pretesa di uniformare le incoerenze del poeta per riuscire piuttosto a decifrare ‘la coerente varietà delle pose che l’“io” assume in ciascun componimento’, la sua ‘multiforme costruzione’ che riflette il poliedrico sentire della persona umana. D’altra parte, la presenza di “molteplici Orazi”, del ‘divided self’ era già autorevolmente rivendicata da Martindale2, contributo non citato in bibliografia. La lettura della satira 1.7, in passato considerata la meno riuscita, mostra come il componimento possa essere riabilitato senza necessariamente vedervi tout court una metafora sullo stile poetico-letterario. È ancora nell’analisi della costruzione poetica, nella più onesta comprensione del testo, che De Vecchi coglie le qualità del senso dell’attesa, del gusto metaforico e dell’estro satirico.
Dopo l’introduzione generale, il volume prosegue con la traduzione delle singole satire, preceduta da un breve “cappello” introduttivo, che fornisce una panoramica sulle principali tematiche proposte e offrendo, nella sua parte conclusiva, una raccolta del principale materiale bibliografico aggiornato per ogni singolo componimento. L’autore non propone, nel suo commento, la disamina dei loci paralleli, sacrificando così la complessa filigrana intertestuale delle Satire. La scelta tuttavia, viste le caratteristiche dell’opera, appare non insensata, giacché a essere privilegiata è una lettura tutta oraziana dei componimenti, in un serrato percorso attraverso la trama dei versi, di cui sempre attenta è l’analisi della struttura, tanto nelle proposte esegetico-interpretative quanto nelle note più descrittive. Leggendo “Orazio con Orazio”, De Vecchi manifesta una sensibile percezione dello stile e della lingua del poeta, dimostrando via via di penetrarne le pieghe più profonde delle sfumature lessicali: si osservi la ‘natura nuda del poeta’, espressa dai pronomi quid e quod della satira 1.6 vv. 55 e 60 (259), la spiegazione sulla libertà da tutti i vincoli veicolata dal verbo solvere, al termine della stessa satira, (264), o, ancora, l’associazione della ricercatezza ‘delle sorprese grus e anser ’, presentati con il genere variato, alla raffinatezza dei cibi offerti nella tavola di Nasidieno (389). Vorrei inoltre segnalare i punti del commento che permettono un più facile accesso alla complessità della materia metrica, come la considerazione sull’ aprico di serm. 1.8.15 (270), che, presentando una successione di lunghe e rendendo dunque ‘arioso’ il verso, suggerisce la salubrità e il godimento evocati dall’ambientazione sull’Esquilino.
Un’attenzione particolare è rivolta poi all’analisi, questa più tecnica, della costruzione poetico-retorica, sviscerata nel mostrarne le simmetriche impalcature, le coppie chiastiche, le rispondenze, le opposizioni, formando una griglia che non costituisce una forzatura del dettato poetico, ma anzi ne riproduce rispettosamente la morfologia: ‘Tigellio (…) è membro di una delle due coppie che oppongono scialacquatore e avaro (vv. 4-17, ABAB). Nella seconda coppia (vv. 7-17), il primo membro è presentato in un periodo chiastico, con protasi e apodosi che introducono rispettivamente domanda e risposta (vv. 7-11)’ (208); ‘la sapiente costruzione degli esametri del sermo recitato da Cazio (2.4) ha la più chiara manifestazione nell’iperbato tra aggettivo e sostantivo (…)’, (341) oppure, circa l’esordio della satira 1.5, leggiamo: ‘anche in questo incipit l’opposizione è, se non morale, non priva di valore simbolico: il tragitto va dal grande al piccolo, dal centro del mondo alla periferia. A magna [ Roma ] è speculare modico ’ [ hospitio ] (242).
Spiccato è il gusto per l’analisi dell’aspetto “dialogico”, argomento che a oggi appare non attentamente sondato dalla critica e su cui si concentrano gli spunti a mio avviso più originali presenti nel commento. Un’attenta indagine si snoda man mano che si procede nella lettura, con lo scopo di tracciare il profilo dell’interlocutore, delle singole o molteplici voci che animano il discorso poetico. Grande considerazione è anche rivolta al tema del rapporto tra pubblico e autore, di cui sono costantemente indagati i marcatori stilistici: penso alla conclusione del commento alla satira 1.8 (272), in cui il videres, dispiegando un uso del “tu” che appare ‘limitato a tre casi nelle Satire ’ (271) e riprendendo il vidi dell’ incipit, ‘pone autore e pubblico su un piano privilegiato’. Nonostante il commento sia limitato a compilare un pur esaustivo prospetto delle varie interpretazioni, relativamente a numerosi punti delle singole satire, non mancano tuttavia proposte esegetiche non prive di originalità. Segnalo il commento a 1.6.59 (262-263): De Vecchi individua, nel caballus Satureianus, un gioco allusivo del poeta con i ‘lettori suoi amici’, evidenziando l’insistenza di Orazio sulla ‘vera meta, pur taciuta’ della Satira 1.5: Taranto. Se quest’ultima satira terminava con l’arrivo a Brindisi, l’ipotesi è che, con il «ronzino di Puglia» di serm. 1.6.59, Orazio alluda alla propria libertà di raggiungere Taranto con il proprio umile mezzo e nei tempi da lui dettati. Anche il commento alla satira 2.4, particolarmente ricco e denso, offre una meditata prospettiva su un componimento, che personalmente ritengo essere tra i più complessi, ed è proprio sull’ambiguità, e conseguente difficoltà di interpretazione, che De Vecchi pone l’accento. Mostrando come Cazio sia tutto sommato vicino all’Ofello della satira 2.2 – condividono anzi lo stesso ‘nemico’ –, l’autore lascia emergere la difficoltà di interpretare un bersaglio satirico che sfugge a ogni esemplificazione. Gli studiosi si sono orientati a far coagulare la critica oraziana nei confronti del dogmatismo filosofico, propugnato dal misterioso auctor, nella deriva di un epicureismo che appare suffragato da un’allusione lucreziana: De Vecchi sembra non tanto confutare tale interpretazione, quanto “orazianamente” dubitare di una presa di posizione così perentoria. Una satira come la 2.4 non sembra propriamente formulare una critica esplicita, tanto più che, per le tematiche, per il numero di versi occupati e per il colore epicureo, si pone come inevitabilmente vicina alla sensibilità di Orazio. La conclusione ‘restiamo di nuovo sorpresi, respinti e insieme attratti dai praecepta che Orazio tramanda nel suo viaggio attraverso il II libro’ mi pare sia da considerarsi un’efficace epigrafe dell’atteggiamento che uno studioso, e prima ancora un lettore, dovrebbe mantenere nell’interagire criticamente con la poesia oraziana.
Riguardo alle scelte testuali, metto qui in luce il disaccordo per la scelta di pubblicare l’imperfetto resonarent dei codici poziori, al v. 41 della Satira 1.8, scelto da De Vecchi, sulla scia di Lejay, per indicare azione prolungata, lo ‘sfondo sonoro’, contro il perfetto resonarint, dei codici deteriori e stampato dalla maggior parte degli editori (272). Gowers, da ultima (277), stampa resonarint, ribadendo la stranezza di un imperfetto dipendente dal presente memorem – e che è per giunta seguito da due perfetti – e aggiungendo come anche, poco sotto, l’effetto durativo della paura, causata dalle grida, sia espresso dal perfetto (v. 45, horruerim).
Per quanto riguarda la traduzione, l’autore si propone di riformulare il ritmo spondaico e dattilico dell’esametro latino e il risultato appare piuttosto vicino al ritmo del verso, mentre il lessico mostra la giusta disinvoltura, come si addice alla “conversazione” satirica. Propongo qui lo specimen di 1.2.28 ss.:
«non c’è misura. Qualcuno schifa il contatto con le donne / alle quali una fascia in fondo alla veste non copra i talloni; / e un altro la vuole in attesa dentro un bordello fetente. / Mentre uno, famoso, usciva da un bordello, ‘Sia lode / alla tua virtù’ Catone si espresse in sublime sentenza; / ‘Infatti, quando libidine turpe ha gonfiato le vene, / è bene che i giovani scendan qua sotto, e non che le mogli / degli altri si sbattano’. ‘Lungi da me una simile / lode’, così Cupiennio, amante di vulve col velo».
In conclusione, De Vecchi sembra voler stabilire un fitto dialogo con la voce di Orazio, offrendo agli studenti di Licei e Università una prospettiva sui Sermones chiara, articolata e non priva di originalità. Per chiosare la sapiente rinuncia a forzare la spesso difficile interpretazione testuale, basti la conclusione del commento a 1.5 in cui, alle domande che il lettore potrebbe porsi, si legge: ‘Orazio stesso ci dà la consueta risposta a simili domande: nil equidem, «nulla davvero» (2.6.53)’.
Notes
1. M. Labate, La satira di Orazio: morfologia di un genere irrequieto, in Id. (a cura di), Orazio. Satire, Milano 1981.
2. C. Martindale, Introduction, in D. Hopkins-C. Martindale (edd.), Horace Made New: Horatian Influences on British Writing from the Renaissance to the Twentieth Century, Cambridge 1993, pp. 1-26.