BMCR 2014.11.32

Sguardi interdisciplinari sulla religiosità dei Geto-Daci. Rombach-Wissenschaften: Reihe Paradeigmata, Bd 23

, Sguardi interdisciplinari sulla religiosità dei Geto-Daci. Rombach-Wissenschaften: Reihe Paradeigmata, Bd 23. Freiburg im Breisgau; Berlin; Wien: Rombach Verlag, 2014. 249. ISBN 9783793097518. €48.00 (pb).

Il volume raccoglie i contributi presentati al convegno internazionale ‘La religiosità dei Daci’, tenutosi a Trento dal 6 all’8 giugno 2013 sotto l’egida dell’Associazione Italiana di Cultura Classica (delegazione di Trento ) e del Consolato Onorario di Romania per l’Alto Adige. Si tratta di quattordici articoli, scritti in italiano, francese, inglese e tedesco (tutti con abstract in inglese), che affrontano il tema da differenti punti di vista e sulla base di differenti competenze.

Circa il panorama religioso di quel segmento dell’ ethos tracio cui gli Antichi hanno di volta in volta attribuito il nome di Geti o Daci, oggi si sa assai meno di quanto fino a non molti anni orsono si pensava di sapere. Barbari famosi nell’antichità proprio per la peculiarità delle pratiche e convinzioni religiose, la loro pretesa di essere immortali — insieme al nome del dio/eroe culturale Zalmoxis — è rimbalzata da un auctor all’altro, per diventare infine oggetto di numerose speculazioni e teorie, spesso audaci e non sempre esenti da componenti extra-scientifiche (di tipo spiritualistico e identitario). La ricerca più recente ha però duramente criticato anche le maggiormente accreditate tra queste ricostruzioni moderne e una messa a punto dell’argomento risulta quindi necessaria e urgente. L’opera in esame costituisce senz’altro un passo importante in questa direzione. Inoltre, grazie alle copiose informazioni bibliografiche fornite nei singoli studi, ha il merito di far meglio conoscere alla comunità scientifica internazionale la produzione est-europea in questo specifico campo.

Preceduto da una sintetica introduzione del Curatore (7–10), apre il volume un breve articolo di Luciano Canfora (La colonna traiana come rotolo librario, 13-17), che non ha nulla a che fare con la religione, ma sottolinea la fecondità degli approcci interdisciplinari.

Nigel G. Wilson (A note on the ‘immortal’ Getae [Hdt. 4.94], 19) mette in dubbio il testo tràdito dai codici circa due specifici punti.

Franco Ferrari (L’incantesimo del Trace: Zalmoxis, la terapia dell’anima e l’immortalità nel Carmide di Platone, 21- 41) mostra come l’episodio di Zalmoxis sia stato inserito da Platone nel Carmide al fine di mostrare la differenza tra l’immortalità basata sui rituali religiosi e quella donata dalla filosofia.

Sorin Bulzan (Some Aspects of Getian and Dacian Rulership: Burebista and the Wine, 43- 56) approfondisce il passo straboniano circa l’abbattimento delle viti voluto dal re Burebista su suggerimento del sacerdote Dekinais (7.3), mettendo questa iniziativa in relazione con l’ideologia tripartita degli Indo-Europei: la ‘Grande dea’ spesso rappresentata nella produzione toreutica Carpato-balcanica tra il V e il I sec. a.C. potrebbe avere un legame con talune figure femminili di quella tradizione.

Claudio Bevegni (Rileggendo le fonti greche su Zalmoxis: le testimonianze dei Padri della Chiesa, 57–70) e Matteo Taufer (Un’oscura menzione di Zalmoxis in Gregorio Nazianzeno [ carm. II 2, 7, 274], 71–89) si occupano entrambi della citazione di Zalmoxis da parte dei Padri della Chiesa, il primo mettendo in evidenza come il personaggio fosse ben noto agli scrittori cristiani e, pur variamente inteso a seconda delle differenti funzionalizzazioni, generalmente presentato sotto una luce positiva; il secondo offrendo una plausibile ed elegante ricostruzione di due difficili versi di Gregorio Nazianzeno.

Ivan Sodini (Pianto per i nati e letizia per i defunti. Riflessioni intorno a un topos da Erodoto ad Archia di Mitilene, 91–105) ripercorre le numerose citazioni greche intorno ad un comportamento dei Traci che appare ribaltare la ‘normalità’, chiedendosi se dietro a un topos che così bene interpreta una certa attitudine pessimistica del pensiero greco possa esserci un dato storico. La stessa domanda Magdalena Indrieş (Pomponius Méla et la croyance des Thraco-Gétes en l’immortalité de l’âme, 107-121) se la pone a proposito del passo della Chorographia che parla dell’attitudine dei Geti verso la morte (II 2).

Gelu A. Florea (L’archéologie d’une religion ‘anonyme’, 123–135) osserva come i dati dell’archeologia facciano pensare a una grande varietà di culti — su base cronologica, regionale e sociale — e rendano insostenibile l’ipotesi di un culto unico, centralizzato e protratto nel tempo.

Sorin Nemeti (La religione dei Daci in età romana, 137–155) e Alessandro Cavagna (Monete e templi: alcuni aspetti della religiosità nella Dacia Romana, 177–201) arrivano entrambi, attraverso differenti percorsi, a constatare la non identificabilità nella Dacia romana di divinità sicuramente autoctone.

Dan Dana (Possibles témoignages sur des cultes daces: la documentation épigraphique de la Mésie inférieure, 157–176) studia dal punto di vista dell’onomastica un gruppo di epigrafi greche e latine della Mesia Inferiore risalenti ai secc. II e III, riuscendo a individuare dietro all’iconografia pan-trace del ‘Cavaliere Tracio’ alcune figure di dèi ed eroi specificamente daco-mesii. A suo parere, queste epigrafi non vanno intese come testimonianze di una volontà di resistenza alla romanizzazione/ellenizzazione, ma come la prova di una coesistenza tra volontà d’integrazione e espressione di una identità culturale distinta.

Octavian Munteanu (Découvertes des complexes avec dépôts d’os humains dans des contextes non-funéraires au S-E de l’Europe, 203–221) prende in esame i resti umani provenienti dai numerosi contesti non-funerari riferibile alle culture basso-danubiane del periodo di Hallstatt (in particolare, la cultura Babadag), suggerendo che essi testimonino della pratica del sacrificio umano e ipotizzando che tale tipo di offerta sacrificale abbia sostituito, al passaggio da Ha A a Ha B, quella degli oggetti in bronzo.

Markus Zimmermann (Zum Aussagewert ritueller Deponierungen für die Kenntnis der geto-dakischen Religion (2. Jh. v.Chr. – 1. Jh. n.Chr.), 223–237) segnala come alla vigilia della dominazione romana il quadro archeologico geto-dacico fosse omogeneo a quello di molte culture europee del’età del ferro, e come — in particolare — le testimonianze di sacrifici umani trovino stringenti paralleli in area celtica e germanica.

Sintetizzando i risultati del convegno, Matteo Taufer prende atto del fatto che allo stato attuale della ricerca una precisa ricostruzione della religione dei Geto-Daci è impossibile, e sottolinea, in particolare, la difficoltà di armonizzare i dati archeologici con quelli offerti dalle fonti letterarie. Questo è senz’altro vero per quanto riguarda l’età romana, come viene chiaramente mostrato da tutti i contributi che affrontano con gli strumenti dell’archeologia e dell’epigrafia lo spazio geto-dacico — inteso nel senso più ampio — in relazione a quel periodo. Ma il discorso cambia quando la prospettiva temporale dell’indagine archeologica si amplia. In questo caso, ciò che ostacola la formulazione di positive ipotesi di lavoro sembra essere soprattutto una sorta di eccessiva circospezione. La ‘tentazione’ di accostare — come esplicitamente fa Munteanu (213) — le probabili prove di sacrifici umani a Herod. IV 94-95 viene da Taufer respinta attraverso una lettura banalizzante delle osservazioni di Zimmermann circa la diffusione su scala europea, durante tutta l’età del ferro, delle uccisioni sacrificali, osservazioni che potrebbero essere lette in senso ben diverso. Tenendo presente quanto Posidonio dice circa le dottrine druidiche e quanto le fonti medioevali, descrivendo il Valhalla, permettono di inferire circa l’idea di sopravvivenza presso i Germani, esiste infatti la possibilità di inserire quella che per i Greci del V sec. a.C. era una convinzione inaudita e peculiare in un specifico panorama culturale, caratterizzato dal sacrificio umano e da una vivace rappresentazione dei destini oltretombali che, a confronto dell’esistenza larvale condotta nei grigi aldilà mediterranei e vicino-orientali, poteva a buon diritto essere intesa come una sorta d’immortalità.

Una certa sfiducia nei confronti delle testimonianze intorno alle quali per tanto tempo è stato costruito il discorso sui Geti — come se tutte riflettessero sempre e soltanto l’immaginario ellenico — sembra in effetti trasparire da molti dei contributi (in particolare, dalle prudenti conclusioni di Sodini e Indrieş). E non può non colpire il fatto che soltanto una brevissima nota di carattere filologico sia stata dedicata alla testimonianza di Erodoto, il testo che sta alla base della maggior parte delle citazioni antiche e di tutte le speculazioni moderne. Probabilmente, un qualche disagio a valorizzare le fonti greche deriva dal verdetto liquidatorio espresso nei loro confronti da Dan Dana nei suoi lavori del 2008 e 2011,1 due libri importanti che sono ormai diventati imprescindibili testi di riferimento (ripetutamente citati in tutti gli articoli). Si tratta di un giudizio in linea generale condivisibile, ma che, almeno per quel che riguarda Erodoto, appare un po’ troppo severo, forse per influenza della visione riduttiva propria di François Hartog.2

Certamente, come Dana torna a ribadire in apertura e chiusura del suo contributo (157 n.2- 171), sulla base delle notizie relative a Zalmoxis e all’immortalità è stata edificata una quantità di teorie fallaci, ma il rischio che si intravede è che insieme all’acqua sporca venga gettato via anche il bambino.

Notes

1. D. Dana, Zalmoxis de la Herodot la Mircea Eliade. Istorii despre un zeu al pretextului, Iaşi 2088; D. Dana, Fontes ad Zalmoxin pertinentes. Accedunt fontes alii historiam religionum Thracum Getarum Dacorumque spectantes, Iaşi 2011.

2. F. Hartog, Le miroir d’ Hérodote. Essai sur la représentation de l’autre, Paris 1980.