In questo volume sono raccolti tutti i contributi dedicati da Alessandro Perutelli al teatro latino: un ambito nel quale lo studioso – noto soprattutto per i suoi lavori su Virgilio, sull’epica (valeriana in particolare), sull’epillio, sulla poesia neoterica, e ancora su Sisenna, Ovidio, Petronio, e per il bel libro su Ulisse nella cultura latina – ha pure lasciato una traccia significativa.1
Si tratta di dodici lavori, di cui tre inediti, e i rimanenti scritti tra il 1989 e il 2003. Nove, in particolare, riguardano la commedia: dedicati a problemi di struttura, di lingua e stile e ad analisi di singole commedie con specifica attenzione alla caratterizzazione dei personaggi.
Il primo studio, ‘L’uso del greco nella Palliata latina’ (pp.9-15), prende in esame il diverso atteggiamento adottato dai singoli commediografi nella scelta dei loro titoli: un atteggiamento che s’inserisce “nello sviluppo linguistico-culturale del rapporto tra letteratura latina e greca” (p. 9). Plauto risente ancora del senso d’inferiorità nei confronti della grecità che caratterizza gli esordi della letteratura romana, e per questo adotta o conia titoli latini, tranne che nel caso di nomi propri. Le cose cambiano dopo la sua morte: la minore diffidenza nei confronti della cultura greca autorizza la scelta di titoli greci, totale in Terenzio, ma ancora parziale in Cecilio. La considerazione della produzione (sia pur frammentaria) di quest’ultimo, “poeta di frontiera tra due scelte linguistiche e culturali”, consente di ipotizzare che “la novità del titolo greco” corrisponda “a una diversa stilizzazione complessiva della commedia, tale da incrementare il carattere grecizzante dell’opera ed estendere l’uso di espressioni greche” (p. 13).
Segue una breve nota, ‘Il significato di una pubblicazione. La cosiddetta contaminazione nell’antica commedia romana di Pietro Ferrarino’ (pp. 17-22), che riproduce il contributo fornito dall’A. alla Giornata triestina sulla contaminatio del 7 aprile 2003. Lo studioso non si limita a illustrare la tesi di Ferrarino ma ne definisce la personalità scientifica, lumeggiandone il rapporto (e i limiti di questo rapporto) col maestro Gino Funaioli e tratteggiando i caratteri di un’attività critica aperta ad ampie prospettive storico-culturali e appassionatamente impegnata nel perseguire una “filologia totale”. I successivi tre studi riguardano altrettante commedie plautine. Il primo, ‘Il tema della casa nella Mostellaria’ (pp. 23-41) fornisce un’acuta lettura della commedia alla luce di un tema, quello appunto della casa, intorno al quale si intesse l’ordito dell’inganno. Il tema si presenta fin dall’inizio, nell’acceso contrasto tra i due servi Tranione e Grumione; poi si sviluppa nel lungo canticum di Filolachete, che assume una funzione metateatrale, cui anche il padroncino è chiamato a collaborare, fornendo l’immagine sulla quale il servo costruirà la trama della commedia. Gli altri due saggi, ‘Una commedia doppia’ (pp. 43-55) e ‘Un autore alla ricerca del nuovo’ (pp. 57-68), costituiscono le introduzioni alle edizioni (tuttora inedite) nella B.U.R., rispettivamente della Rudens e del Truculentus. La destinazione al vasto pubblico non pregiudica la qualità e l’importanza dei due contributi. La Rudens è una commedia bipartita, le cui due sezioni – il naufragio che coinvolge il lenone Labrace e le due giovani da lui sfruttate e il ritrovamento in mare di una cassetta che porterà al riconoscimento di Palestra – restano distinte, raccordate soltanto dal coro col quale i pescatori, in termini inusuali in Plauto, lamentano l’angoscia della loro povertà. Questo coro risale probabilmente al modello greco, ma “ha un’interferenza nella struttura dell’azione, che lo porta vicino alla funzione svolta nella tragedia o nella commedia antica” (p. 47). Il saggio sul Truculentus, invece, prende in esame lo “statuto eccezionale” di questo personaggio, marginale nella vicenda e tuttavia chiamato a dare il titolo alla commedia. Un fatto che si spiega probabilmente con l’interesse che poteva suscitare nel pubblico il suo carattere rozzo e volgare, che imprevedibilmente si evolve in una improbabile urbanitas. Questa, del resto, non è la sola singolarità della commedia: anche altre innovazioni, come la funzione demiurgica assegnata alla cortigiana, il carattere del giovane Dinarco e il ruolo del denaro, inducono a definirla una “commedia sperimentale, protesa verso soluzioni differenti e più articolate di quanto suggerisse la tradizione” (p. 69).
Ancora alla palliata sono dedicati altri tre lavori. Le ‘Note a Cecilio Stazio’ (pp. 83-98), di taglio rigorosamente filologico, vertono sui frammenti dell’ Aethrio e sul problema, ricorrente nella critica a partire da Leonhard Spengel (1829), di una qualche affinità con la vicenda dell’ Amphitruo di Plauto: un’ipotesi che un esame spregiudicato, attento anche alla problematica testuale, induce a ridimensionare. Gli altri frammenti ceciliani presi in considerazione sono quelli corrispondenti ai vv. 11-12, 56, 61, 90, 98 R 3, sui quali sono avanzate plausibili proposte testuali ed esegetiche. I due saggi che seguono, ‘Il prologo dell’ Andria ’ (pp. 99-116) e ‘La conclusione degli Adelphoe ’ (pp. 117-131), costituiscono due importanti contributi all’interpretazione di queste due pagine terenziane. Nel primo, dopo alcune puntualizzazioni filologiche (al v. 8 è da prediligere animum adtendite, difficilior rispetto ad a. advortite; al v. 11 pare da adottare, in quanto più economica, l’inversione delle parole dissimili sunt), Perutelli esprime la sua convinzione che il prologo, nella forma in cui lo leggiamo, non appartenga alla prima edizione dell’ Andria ma sia stato scritto in un secondo momento, per rispondere alle critiche ricevute; e, riguardo al problema della “tradizione del prologo che contiene una polemica letteraria” (p. 109), ne ammette cautamente la presenza in Nevio e poi avanza l’ipotesi, suggestiva e tutt’altro che improbabile, di una suggestione del prologo degli Aitia callimachei. Il secondo contributo terenziano, invece, ha per argomento la crux esegetica riguardante l’improvviso rovesciamento, alla fine degli Adelphoe, del comportamento tenuto da Demea per tutto il corso del dramma. Perutelli fa sue le argomentazioni di Sandbach (basate sull’analisi delle citazioni terenziane in Donato) a favore di una innovazione di Terenzio rispetto al modello menandreo e le integra con altre considerazioni. Ogni qualvolta introduce mutamenti di un certo peso, Terenzio usa la contaminazione; ed è questo che sembra verificarsi anche nel caso di cui si tratta. Un frammento di Cecilio, il v. 91 R 3 (dalla Hypobolimaeus rastraria, risalente anch’essa a Menandro), presenta una straordinaria somiglianza col v. 985 degli Adelphoe. Un rapporto, questo, che è stato da tempo segnalato nei commenti, ma che Perutelli estende al contenuto dei due drammi: “è ragionevole supporre che la contaminazione terenziana coinvolgesse stavolta anche un’altra commedia di Menandro nei modi in cui era stata vivacizzata da Cecilio” (p. 131).
Una menzione particolare merita, fra questi studi dedicati alla commedia romana, quello intitolato ‘Pensieri sulla togata’ (pp. 69-81): un “testo provvisorio che l’autore non fece in tempo a sviluppare e a rielaborare compiutamente” (così i Curatori in calce a p. 69) e che costituisce comunque un contributo fondamentale, per il metodo e le proposte critiche, destinato a fornire la base per ulteriori approfondimenti. Perutelli riprende in esame vari problemi riguardanti la togata, dalla cronologia all’esegesi di singoli frammenti (suggestiva, a p. 75, l’ipotesi che nel v. 7 R 3“il problematico spurius celi un Porcius con cui far concludere il verso giambico”), ma soprattutto si concentra sulla caratterizzazione di questo genere teatrale. La lettura dei frammenti del Barbatus di Titinio (in buon numero probabilmente riferentisi alla rivolta femminile del 195 per l’abrogazione della lex Oppia), ma anche della Fullonia (particolarmente 26 s. R 3), dell’ Hortensius (60 s. R 3) e della Psaltria o Ferentinatis (85-90 R 3) mette in evidenza un’accentuata attenzione ai temi di natura sociale, in particolare al ruolo della donna. Al “conflitto … fra generazioni” che caratterizza la palliata si sostituisce, nella togata, “l’antagonismo fra marito e moglie, … ma ancor di più la lotta che le donne conducono per la propria dignità e i propri diritti” (p. 79). Una commedia, quindi, impegnata in una riflessione civile e politica, che sembra presupporre, a differenza della palliata, un diretto influsso dell’ archaia.
L’interesse per la tragedia è rappresentata, nel libro, da tre studi riguardanti Seneca. Nel primo, ‘Il primo coro della Medea di Seneca’ (pp. 135-150), l’A. si pone il problema del “significato drammatico o comunque patetico” (p. 135) di questo canto corale che non ha corrispondenza nel dramma euripideo. Le due linee interpretative prevalenti, che sottolineano rispettivamente il rapporto (antitetico) con l’inizio del dramma e quello col séguito della tragedia, appaiono unilaterali, e hanno altresì il difetto di considerare questo coro come un’unità indistinta, laddove esso è strutturato in quattro diverse sezioni, chiaramente differenziate anche dal metro. L’esame analitico di questa costruzione mette in luce un’articolazione complessa riconducibile a un preciso intento drammaturgico: Seneca ha probabilmente derivato lo spunto dalla Medea ovidiana, ma ha inteso “svolgere un epitalamio che rispecchiasse tutta la tradizione di tale componimento e dotarlo di una funzione drammatica nel testo, innestarlo insomma nella storia di Medea” (p. 148). All’ Agamennone è dedicato il saggio dal titolo ‘Il delitto ricorrente’ (pp. 151-167), pensato e pubblicato come introduzione all’edizione della B.U.R. Il confronto col dramma di Eschilo – esordisce Perutelli – mette in luce una sostanziale identità contenutistica, ma anche “differenze … talmente rimarcate, che Seneca potrebbe benissimo aver composto la sua opera senza tener presente quella di Eschilo” (p. 151). Un’affermazione che non ripete, come si vede, e tuttavia non supera del tutto, lo scetticismo talora espresso sulla conoscenza di Eschilo da parte di Seneca: un confronto tra i due drammi – scrive l’A. – si rivela utile, “come nessun altro punto di riferimento, a definire la costruzione del dramma senecano” (p. 152). Io credo che si possa andare ancora oltre, riconoscendo nell’ Agamennone latino un vero e proprio dialogo con il precedente greco;2 ma nei fatti le cose non cambiano, e la convinzione di Perutelli è più che idonea a garantire un approccio fecondo alla problematica. Opportunamente l’analisi si sviluppa a partire dalla funzione del coro: una funzione “apparentemente disgregante”, più ancora che nelle altre tragedie di Seneca, ma che “si definisce meglio attraverso alcuni fili più sottili” che “guidano alla rivelazione dei conflitti su cui si costruisce la tragedia” (pp. 152-158, passim). È qui che emerge con chiarezza la distanza da Eschilo: l’azione appare segmentata, la narrazione spezzata e discontinua; la valutazione morale investe la figura di Agamennone e l’intera stirpe degli Atridi, che per suo mezzo rinnova gli antichi suoi scelera; e la morte del re non è presentata solo come vendetta di Egisto e Clitennestra, ma anche dei Troiani, che alla fine dichiarano, per bocca di Cassandra, la loro vittoria (v. 869). Infine, ‘Antigone e Giocasta da Seneca a Stazio’ (pp. 169- 178): una rivisitazione dei passi delle Phoenissae (427 ss.; ma non manca qualche cenno all’ Oedipus) e della Tebaide (7, 470 ss.; 11, 315 ss.), riguardanti i tentativi delle due donne di scongiurare la lotta fratricida. I rapporti tra questi due testi sono noti da tempo; Perutelli illustra efficacemente la loro struttura narrativa e la caratterizzazione dei personaggi attraverso una lettura comparata che tiene conto delle premesse culturali e ideologiche da cui nascono le rispettive opere. Felici le notazioni sulla ‘follia’ di Giocasta nei due poeti e sulla similitudine con la Eumenidum … antiquissima ( Theb. 7, 477) e, più in generale, la caratterizzazione della diversa drammaticità delle due elaborazioni poetiche.
Tre indici, rerum et verborum, locorum e “degli studiosi moderni”, chiudono il volume.
La (ri)lettura degli studi qui raccolti consente di apprezzare ancora una volta le doti di uno studioso che seppe far convivere in sé, in una sintesi intelligente e feconda, le istanze del rigore filologico con una curiositas vivace e appassionata e con una straordinaria ampiezza di interessi; e in più ci testimonia una vigorosa capacità di leggere il testo drammatico interpretandone anche la specificità teatrale, la dimensione spettacolare implicita nella scrittura. Anche per queste ragioni dobbiamo essere grati ai curatori del volume e a quanti ne hanno favorito la pubblicazione.
Notes
1. Un’accurata Bibliografia di Alessandro Perutelli, curata da Alessandro Russo, si può leggere negli Studi offerti ad Alessandro Perutelli, I, ed. P. Arduini et al., Roma 2008, pp. XIII-XXI.
2. In tal senso mi sono espresso in Le morti di Agamennone, Aevum(ant) 3, 1990, pp. 29-41.