BMCR 2013.11.35

Guerra per la Sicilia e guerra della Sicilia: il ruolo delle città siciliane nel primo conflitto romano-punico. Storia politica costituzionale e militare del mondo antico, 6

, Guerra per la Sicilia e guerra della Sicilia: il ruolo delle città siciliane nel primo conflitto romano-punico. Storia politica costituzionale e militare del mondo antico, 6. Napoli: Jovene editore, 2012. xv, 251. ISBN 9788824321655. €25.00 (pb).

Il libro qui recensito si basa sulla revisione della tesi di dottorato discussa dall’autore presso l’Università degli Studi di Palermo nel 2011 e insignita nello stesso anno del premio “Giuseppe Nenci” della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Diremo subito che si tratta di un’opera ben articolata, supportata da una più che esauriente ed aggiornata bibliografia, e corredata infine da alcune mappe della Sicilia che permettono di visualizzare diacronicamente le dinamiche della presenza romana in Sicilia nel contesto della prima guerra punica. L’apparato delle fonti riproduce in lingua originale i passi trattati nel testo, organizzati secondo l’ordine di citazione, e contraddistinti da un titoletto che ne chiarisce il contenuto. Di grande utilità risultano gli indici posti nell’ultima sezione dell’opera (delle fonti; prosopografico; dei luoghi), che rende ancora più agevole la ricerca all’interno del volume stesso. L’opera dunque, da un punto di vista formale, è senza dubbio da considerarsi pregevole, anche in assenza pressoché totale di refusi.

Lo scopo che Vacanti si prefigge è rovesciare “l’immagine quasi gattopardesca dei Siciliani impotenti che alzano le spalle” (p. 16, n. 100) ventilata più o meno direttamente dalle fonti antiche e riproposta da taluni studiosi a proposito della prima guerra punica. Vacanti si pone l’obiettivo di dimostrare, tramite nuove interpretazioni delle fonti antiche e grazie al raffronto con altri tipi di materiale documentario (primariamente archeologico), che tale non fu l’atteggiamento delle comunità siciliane; esse anzi svolsero un ruolo attivo se non decisivo nello svolgimento delle attività militari romane in Sicilia. Già nella breve ma densa premessa alla trattazione vera e propria, Vacanti (p. XIII) riconosce che l’ostacolo maggiore a questa revisione è di essenzialmente di tipo storiografico ed è costituito dal “fuoco prospettico romanocentrico” (p. XIII) delle fonti, che, più che distorcere i fatti, avrebbero relegato sullo sfondo il ruolo siciliano nella prima guerra punica. Questa interessantissima notazione non viene tuttavia ulteriormente sviluppata nelle pagine successive. In effetti, l’autore si prodiga a reperire ed evidenziare tutti quei punti che, pur se sottovalutati dalla critica moderna, mostrano non solo il ruolo siciliano nel conflitto ma anche la sua complessità. E tuttavia, la questione storiografica non viene mai davvero posta: non solo non si affronta, se non marginalmente, la possibilità che nelle nostri fonti principali (Polibio, Diodoro Siculo, etc.) siano confluite tradizioni non “romanocentriche” se non addirittura anti-Romane, ma neppure si rende ragione, se non sporadicamente, dei motivi che spingono a privilegiare una fonte ad un’altra. Una trattazione più approfondita di questo aspetto avrebbe forse permesso di rendere ragione di quell’atteggiamento che Vacanti giustamente definisce tipico nella premessa.

Veniamo dunque alla trattazione vera e propria, che consta di due sezioni principali – “La grande strategia del consenso. Dinamiche e variabili dell’attrazione politica nell’isola” e “Naves et Sicilienses. Tecnologia, supporto e informazioni tra Cartagine, Roma e Siracusa” — a loro volta suddivise in paragrafi. Dalla sproporzione tra le due sezioni del volume emerge chiaramente la vera natura dell’indagine: la prima parte, che conta poco più di 50 pagine, funziona infatti da introduzione— per quanto ampia – alla seconda, dove, in quasi 100 pagine, si cerca di dimostrare il ruolo attivo se non determinante svolto dai Sicilioti a fianco dei Romani. Diremo subito che è nella seconda parte che, a nostro avviso, si raggiungono i risultati più importanti e innovativi, mentre il tentativo, nella prima sezione del volume, di inquadrare la strategia del consenso romano in Sicilia in predeterminate categorie ermeneutiche ben precise e prese a prestito da altre discipline lascia spazio a qualche perplessità.

La prima parte del volume (pp. 3-58) descrive dunque gli strumenti tramite i quali i Romani riuscirono progressivamente e dopo un’iniziale fase di scontro ad accaparrarsi l’appoggio dei Sicelioti. Dopo aver brevemente descritto i meccanismi tramite cui Pirro si accaparrò il consenso dei Sicelioti, per poi perderlo poco dopo, l’autore si prefigge di dimostrare che (p. 18, nt. 107) “indipendentemente dalla stipula formale di un’alleanza militare, la collaborazione tra il re di Siracusa e Roma sia stata volontaria, abbia riguardato il campo politico e militare e sia stata una delle armi vincenti per la vittoria romana”. L’autore propone un’analisi (p. 17) “dei meccanismi attraverso i quali uno stato può influenzarne un altro”, proponendo un’interessante interpretazione di Pol. I 16, 3 sulla base del concetto di suasione, intesa come forma sia di deterrenza che di persuasione. Secondo Vacanti, la decisione di Ierone di appoggiare Roma, dunque, fu determinata primariamente dalla constatazione della superiorità del potere di suasione dell’esercito romano nei confronti delle città siceliote. Tale ricostruzione, senza dubbio innovativa e stimolante, lascia in secondo piano l’aspetto più propriamente storiografico della questione, che pure avrebbe forse aiutato ad articolare ulteriormente il discorso. L’assedio di Echetla, ad esempio, è al centro di un problema storiografico non secondario, che coinvolge Polibio, Fabio Pittore (il cui apporto ad una tradizione di stampo anti-claudio andrebbe forse valutato) e Filino oltre che la versione alternativa fornitaci da Zonara, e tuttavia non è che sfiorato a p. 20. L’autore interpreta il successo della suasione romana, rispetto a quella cartaginese, non tanto come inadeguatezza di quest’ultima quanto piuttosto con “l’efficacia straordinaria” della prima, che l’autore spiega ulteriormente grazie al ricorso al concetto di soft power. Vacanti ritiene che l’esercizio di soft power permise a Roma, in definitiva, di rendere la sua opera di suasione nei confronti dei Sicelioti particolarmente efficace.

Nei paragrafi successivi si tenta di definire in positivo cosa si intenda per soft power, i suoi rapporti col concetto di propaganda e quali ne fossero le fonti (p. 38). Al di là del lato più prettamente teorico della trattazione, vale la pena menzionare il tema della syggeneia tra i vari temi propagandistici addotti da Roma per stabilire relazioni amichevoli con taluni centri sicelioti (p. 39). Rileviamo a questo proposito l’equivalenza, proposta da vari studiosi e accettata da V., tra la syggeneia che legò Roma a Segesta e Centuripe e l’homophylia romano-mamertina, laddove quest’ultima non si configura come una relazione di parentela sul modello della syggeneia e soprattutto non ebbe nulla a che fare col mito troiano.1 Una più corretta e ampia trattazione del problema—che è di fatto confinato in nota 196 a p. 39—avrebbe senza dubbio aiutato a comprendere un lato fondamentale della propaganda romana in Sicilia, o del soft power romano, per dirla con la terminologia scelta dell’autore. Rilevante è anche il riferimento al tema della fides come elemento costituente delle buone relazioni tra Sicelioti e Romani: in particolare, è di grande interesse la trattazione dell’ambasciata di Ap. Claudio a Ierone, dove il tiranno siracusano sembra polemicamente farsi beffe del concetto stesso di fides (p. 43).

I meccanismi della collaborazione romano-siceliota sono al centro della seconda ampia sezione del volume. In primo luogo, Vacanti riconosce nella svolta di Centuripe e nella resa di Ierone il punto di svolta del conflitto, che da romano- punico/siceliota divenne romano/siceliota-punico (p. 59 e p. 61). Il primo problema affrontato è quello del salto di qualità a cui Roma andò incontro proprio a partire dal 264, testimoniato indirettamente anche dallo sprezzo con cui i Cartaginesi consideravano fino a quel momento (p. 64). Contro la cosiddetta “tesi del miracolo”, Vacanti mostra come le fonti conservino traccia di un ben più preciso e realistico percorso nel miglioramento romano in ambito navale, e che si configura, in quegli anni, nell’adozione delle quinqueremi di tipo cartaginese. Negando che sia stata—solo—manodopera romano-italica ad occuparsi della riproduzione di questo modello, anche perché Polibio (I 20, 15-16), come l’autore pone giustamente in risalto, enfatizza l’inesperienza romano-italica a questo proposito, Vacanti ritiene che un ruolo importante sia stato giocato da quella siceliota, e più in particolare siracusana, a cui andrebbe attribuito il know how necessario alla riproduzione delle quinqueremi (p. 68-70). Pur in assenza di fonti esplicite in questo senso, Vacanti propone una stringente argomentazione che porta a considerare come probabile l’intervento siracusano sotto questo preciso profilo, che si sarebbe poi anche esplicato nell’aggiunta dei corvi agli scafi romani. Il binomio corvi-quinqueremi, che Vacanti, nel silenzio delle fonti e con argomentazioni non sempre condivisibili, tende ad attribuire ad Archimede (pp. 70-73), permise a Roma di fronteggiare Cartagine fino alla sconfitta subita dal console P. Claudio Pulcro, al largo di Drepana nel 249 a. C. Tale sconfitta, che pure è al centro di un problema storiografico solo sfiorato da Vacanti (p. 75) e che coinvolge sia Fabio Pittore—oltre all’Anziate—sia l’esistenza di una tradizione ostile ai Claudii, è segnale, secondo Vacanti, che dopo 15 anni qualcosa era cambiato nella flotta cartaginese a scapito di quella romana, di cui Polibio critica la pesantezza e l’inesperienza degli equipaggi (I 51, 4): grazie ad un’analisi dettagliata della serie di vittorie cartaginesi successive a quella di Drepana (pp. 76-78), l’autore riconosce non tanto in una indimostrabile contro-arma per neutralizzare i corvi romani la carta vincente punica, quanto piuttosto in una serie di modifiche apportate allo scafo. L’autore si dilunga ulteriormente su questo aspetto del problema, sempre ponendo in risalto l’importanza dell’elemento siceliota (pp. 102-120), per poi passare ad analizzare ulteriori aspetti della collaborazione romano-siceliota, che si esplicò anche nel campo della poliorcetica.

Vacanti sottolinea come in pochi anni, a partire dall’assedio di Camarina nel 258, l’arte poliorcetica romana fu interessata da uno spiccato sviluppo tecnologico, che l’autore attribuisce, in via ipotetica alle know how siracusano (pp. 124-126), visto che proprio nel caso di Camarina le macchine da assedio furono fornite da Ierone stesso (Diod. Sic., XXIII 9, 5). Vacanti approfondisce ulteriormente l’apporto siceliota, riconoscendolo sia nel campo degli approvvigionamenti forniti da Ierone, sia più in generale nell’apporto logistico prestato da altre città siceliote (pp. 132-133), che nei capitoli precedenti era rimasto un po’ sullo sfondo, in favore del ruolo di primo piano svolto da Siracusa (p. 134). Il ruolo di altri centri sicelioti rispetto a Siracusa emerge anche nel paragrafo dedicato al ruolo attivo che gli alleati svolsero nella difesa della Sicilia (pp. 134-142). Partendo dall’ipotesi secondo cui in età repubblicana la difesa dell’isola, in assenza di guarnigioni romane, era affidata ad un esercito di Siciliani, Vacanti si chiede se sia possibile estendere questa caratteristica già al primo conflitto punico (p. 134). In effetti, un’analisi delle fonti – in particolare Diodoro Siculo (pp. 134-136) relative ai vari stadi dell’impresa romana in Sicilia dimostra la presenza attiva di truppe siceliote a fianco di quelle romane. L’autore conclude che è “giocoforza” ipotizzare una “pianificazione congiunta romano-siceliota” dei “compititi tattico operativi”, a meno di non credere ad una “campagna disorganizzata ed avulsa dal contesto politico isolano” (p. 140).

Infine, un possibile contributo delle città siceliote è ipotizzabile nella fornitura di dati “sensibili” relativi agli spostamenti punici nelle acque intorno all’isola. L’autore cerca in questo ultimo paragrafo (pp. 142-154) di rimediare ad una lacuna della letteratura moderna relativa ai servizi di intelligence nel mondo antico, in verità riconducibile al fatto che le uniche testimonianze esplicite in questo senso si riferiscono al più presto al secondo conflitto punico. Pur riconoscendo il sostanziale silenzio delle fonti a questo proposito, Vacanti ipotizza che, anche in questo caso, la collaborazione romano-siceliota abbia svolto un ruolo determinante. Sebbene essenzialmente ipotetico soprattutto nella lettura di alcuni fatti che rivelerebbero appunto la presenza di una sorta di counter-intelligence romano-siceliota, in sostanza il paragrafo risulta convincente, soprattutto perché posto a conclusione di una serie di argomentazioni che avevano già mostrato, a mio avviso convincentemente, l’apporto attivo dei Sicelioti alla guerra contro Cartagine sotto molteplici punti di vista.

Infine, le conclusioni, che riassumono in poco meno di due dense pagine i punti più salienti della ricerca.

Si tratta insomma di un’opera senza dubbio pregevole e originale, che cerca di analizzare un fatto ampiamente studiato – la prima guerra punica – da una prospettiva nuova e di fatto inesplorata. Le conclusioni sono quasi sempre condivisibili, soprattutto nella seconda parte, mentre nella prima alcune argomentazioni appaiono talvolta poco convincenti o contradditorie. Ciononostante, e a parte una certa carenza dal punto di vista della trattazione delle fonti, quest’opera rappresenta uno strumento prezioso e stimolante per chi voglia ri-studiare la prima guerra punica, che si presenta davvero come un conflitto romano-siceliota/punico.

Notes

1. Su questo aspetto si veda F. Russo, Il concetto di Italia nelle relazioni di Roma con Cartagine e Pirro, “Historia” 30, 2010, pp. 74-105, citato ma non disucsso da Vacanti.