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Il libro è così strutturato: una ‘Introduction’ di Robert Wardy; testo greco della versione α con la traduzione eseguita, per ogni porzione di testo, dagli studiosi che si sono occupati di quella specifica porzione e armonizzata da Maso e Seel; testo greco della versione β con traduzione di Maso e Seel; ‘Preliminary Remarks’ di Morison e Seel; sei studi specifici; due studi in appendice: Seel, ‘The Logical and Semantic Background of Aristotle’s Argumentation’; Primavesi, ‘Aristotle, Physics VII.3.245b3-248a9: Towards a Fuller Synopsis of the Two Versions’. Chiudono il libro la bibliografia e tre indici: dei luoghi, dei concetti, dei termini greci.
Nella sua ‘Introduction’ Wardy discute la collocazione di VII.3 all’interno dell’intero libro VII della Fisica, ma soprattutto formula “an aporetic agenda”, che scaturisce anche da un confronto fra le due versioni del testo (poiché egli non è convinto tanto quanto Ross dell’inferiorità della versione β e anzi mostra come le due versioni propongano, in taluni casi, questioni dissimili) e che solo in parte è stata tenuta in considerazione negli studi successivi (cfr. Morison per il confronto dell’argomento linguistico di 245b9 ss. con Metaph. VII.7 e IX.7, e de Haase per la lettura di APo. II.19 ai fini dell’interpretazione degli stati intellettivi dell’anima).
Benjamin Morison, ‘Commentary on 245b3-246a9’, mette a fuoco soprattutto due questioni. La prima riguarda le li. 245b4-5: Morison abbandona la spiegazione di Wardy, secondo il quale le cose che subiscono le qualità sensibili “per se stesse” sono quelle di cui Aristotele parlerà alle li. 246b12-17 (analogamente Tommaso, In Phys. Liber VII, Lectio V, 1843, pensa che l’alterazione ammessa da Aristotele è quella che le cose subiscono per se stesse in quanto la subiscono dalle qualità affettive, mentre sarebbe un’alterazione secondaria quella che comporta il mutamento di forma, figura e stato, che Aristotele non considera come vera alterazione), e ritiene che Aristotele potrebbe avere in mente enti che sono affetti dalle qualità sensibili in modo derivato oppure perché affetta è una loro parte. La seconda questione riguarda le li. 245b9-246a4: Morison nota che il modo in cui in VII.3 è utilizzato l’argomento sui paronimi non è coerente con il modo in cui Aristotele parla dei paronimi in Cat. 1a12, perché il bronzo non è nella statua come suo soggetto, e chiama in causa Metaph. IX.7.1049a18-24. Di certo, l’argomento che Aristotele assume qui allo scopo di distinguere i casi di generazione (denominazione paronima) dai casi di alterazione (denominazione omonima) ricorre più volte nelle sue opere ( Phys. I 7, 190a14-31, Metaph. VII.7.1033a5 ss., GC II.1.329a13-24) con un’altra funzione, quella cioè di differenziare il suo sostrato naturale da quello di alcuni filosofi precedenti, soprattutto di Platone.
Questi i contributi più rilevanti offerti da Ursula Coope, Commentary on 246a10-b3 : a) puntualizza che qui virtù e vizi non sono semplicemente alcuni stati, ma sono tutti gli stati (questa interpretazione si evince già sia dalla versione β del testo sia da Simplicio In Phys. 1065.7-9); b) ragionando sul fatto che quando una cosa ha la sua propria virtù si dice perfetta ed è massimamente in accordo alla propria natura, Coope pensa che la condizione della cosa che ha la sua propria virtù o il suo proprio vizio corrisponda, rispettivamente, all’avere una corretta disposizione a funzionare bene o a funzionare male, come quando svolge bene le sue funzioni un corpo sano mentre le svolge male un corpo malato (interpretazione già fornita da Simplicio In Phys. 1066.19ss., che riporta anche l’esempio del corpo malato che non può esplicare le sue naturali operazioni); c) ritiene che il τούτου della li. 246a16 si debba riferire a κατὰ φύσιν della li. 246a15 (un’altra soluzione, non del tutto dissimile da questa e ispirata a Simplicio In Phys. 1065.11ss., consisterebbe nel mettere in discussione la parentesi posta da Ross alle li. 246a13-16 e riferire τούτου a τέλειον ἕκαστον della li. 246a14); d) propone tre alternative, tutte riguardanti la ragione per la quale τελείωσις non è per Aristotele un’alterazione, delle quali ritiene fondata la terza: una cosa è perfetta quando le proprietà che essa ha già sono sviluppate in modo più pieno, per cui la perfezione non è un mutamento di proprietà. A proposito di questa alternativa il richiamo a An. II 5 è comprensibile, ma dovrebbe tenere maggiormente conto sia del fatto che per Aristotele il passaggio dalla facoltà alla funzione sensitiva non è alterazione ma potrebbe essere un diverso tipo di alterazione (417b7), sia che qui la percezione non è generazione. Invece, l’alternativa secondo cui la perfezione è definita solo nei termini del fine, per cui mentre nell’alterazione sarebbe essenziale il punto di inizio nella perfezione quest’ultimo non sarebbe essenziale, mi pare debole anche perché, se qualunque mutamento è sempre ἐκ τινος εἰς τι (225a1), Phys. V.1-2 prescrive chiaramente che entrambi i termini sono necessari affinché avvenga ogni tipo di mutamento, compresa la generazione.
Istvàn Bodnàr, Commentary on 246b3-246b20, divide il testo in tre sezioni, precisamente li. 246b3-10, 246b10-17 e 246b17-20. Relativamente alla prima sezione pone la domanda se il fatto che le virtù siano nei relativi indichi identità fra stati e relativi (cfr. la sua discussione della versione β li. 246a30-31 e di Cat. 6b15-17), oppure una relazione di dipendenza ontologica dei primi dai secondi, avvertendo che tale questione rimane priva di soluzione. Contro l’ipotesi dell’identità trova però indizi anche nella seconda sezione, a proposito della quale segnala anche che εἶδος e μορφή (246b15-16) indicano la forma sostanziale e non il quarto genere di qualità menzionato in Cat. 10a.11-12 e che le li. 246b14-17 andrebbero messe a confronto con Metaph. VIII.3.1043b14-18, che riprende Metaph. VII.8 e VII.15.1039b20-27. A proposito della terza sezione ritiene che Aristotele metta in campo elementi che risultano causalmente responsabili dell’alterazione degli enti, mentre nell’ultima frase riattribuirebbe a virtù e vizi la loro rilevanza causale, creando così quasi un contrasto fra l’efficacia causale degli elementi primi e l’efficacia causale delle virtù e dei vizi.
Fra i vari contributi offerti da Cristina Viano, Commentary on 246b20-247a19, occorre segnalare la riflessione su τὰ οἰκεῖα πάθη (247a3): si tratterebbe delle qualità affettive di Cat. 9b9ss., su cui Aristotele discute alle li. 9b34-10a5 mostrando come le qualità affettive che insorgono nell’individuo sin dalla nascita come affezioni della materia e che si manifestano durante la vita come passioni sono proprietà costitutive dell’individuo e complesse, in quanto si presentano sia come affezioni originarie sia come risultati di un’affezione. Questo tipo di qualità affettive costitutive dell’individuo avrebbero, secondo Viano, un ruolo chiave nella comprensione di come l’alterazione contribuisca alla generazione degli stati sia corporei che psichici. A proposito di ἡ ἠθικὴ ἀρετή (247a7), seguendo Ross, segnala che il modo in cui Aristotele mostra che la generazione di virtù e vizio implica alterazione delle facoltà sensitive dell’anima ad opera dei sensibili coinvolgendo piaceri e dolori ha un taglio molto fisico, ma mostra come questo non contrasti con la distinzione fra piaceri corporei e piaceri psichici di EN III.13.1117b28ss. Non tiene conto, invece, di EN II.2.1104b3ss., in cui Aristotele stabilisce precisamente che la virtù etica riguarda piaceri e dolori e parla, in riferimento alle Leggi di Platone, di una παιδεία ai piaceri e ai dolori il cui risultato è precisamente la virtù etica (cfr. Simpl. In Phys. 1073,3).
Frans de Haas, Commentary on 247b1-247b13, per interpretare queste linee ricorre a diversi passi aristotelici, in primo luogo tratti dal De anima. Significativo è, ad esempio, il collegamento che egli propone fra le li. 247b4-5, An. III.8.432a3-6, Metaph. XIII.10.1087a15-21 e APo. I.18 per mostrare che, per quanto la conoscenza intellettuale abbia come oggetto l’universale, essa è sempre collegata a un oggetto sensibile a cui l’universale inerisce. Analogamente, HA. VI.3.562a17-21, ma anche Metaph. IX.10.1051b23-32, gli consentono di puntualizzare come qui sia il vedere che il contatto siano strettamente connessi al movimento senza però identificarsi con esso. Così il pensare sarebbe una sorta di contatto della mente con il suo oggetto senza che si debba supporre per il pensiero un inizio e una fine. Questa interpretazione mi sembra coerente con quella di Simplicio, In Phys. 1076.4ss., il quale afferma che il passaggio dal non essere in atto all’essere in atto, come il vedere e il contatto, è ἀχρόνως, a differenza della generazione e dell’alterazione. Da ultimo, ricorrendo ad APo. II.19.100a3-9 e 14-15, spiega con molta chiarezza le li. 247b9-13, e cioè come la conoscenza consista in un arrestarsi agli universali, per cui gli stati intellettivi dell’anima sono stati statici che escludono la generazione oltre che l’alterazione.
Carlo Natali, Commentary on 247b13-248a9, divide queste linee in tre sezioni. Per quanto riguarda 247b13-17, puntualizza che “ciò che noi non diciamo”, sia nel caso di chi passi da una condizione nella quale non può utilizzare la scienza a una condizione in cui, al contrario, la utilizza, sia nel caso di chi da non sciente diviene sciente, significa che entrambi questi casi non sono casi di generazione. A differenza di quanto ha stabilito in An. II.5, in Phys. VII.3 Aristotele nega che il passaggio dal non essere sciente all’essere sciente sia alterazione (per spiegare questa difficoltà lo stesso Simplicio In Phys. 1079.6ss. è costretto a ricorrere alla teoria platonica della reminiscenza e a Plotino, Enn. I.1.9). Per Natali, Aristotele sa bene che i due casi sono differenti fra loro, ma tali differenze non avrebbero rilevanza per il discorso di VII.3, che indaga un senso molto ristretto di alterazione, da cui entrambi i casi sono esclusi. A proposito di 247b17-248a6 respinge la connessione di 248a2-6 con 247b18-248a2, e considera corretta la connessione di 248a2-6 con 247b17-18, ritenendo che 247b18-248a2 vadano poste tra parentesi. Infine, mostra il rapporto fra 248a6-9 e 245b4-6, sottolineando come l’espressione κατὰ συμβεβεκός costituisca l’esito della dimostrazione, dalla quale risulta che il funzionamento dell’anima intellettiva non è alterazione, ma è connesso all’alterazione del corpo.
A queste analisi puntuali seguono, come ho detto, due appendici. Seel, indagando il senso dell’alterazione in VII.3, per prima cosa suppone una riformulazione delle definizioni di alterazione di. 245b3-4 e 245b4-5 nel senso che, per ogni x e ogni y, x è alterato da y se x è affetto da y per se stesso. Un’indagine accurata, in cui prende in considerazione diversi passi aristotelici, quali Phys. V.1-2 e VII.2, GC I.4, I.7 e 10, lo conduce a congetturare che tale definizione corrisponda al senso ristretto dell’alterazione di Phys. VII.3 con questi requisiti: y è una qualità sensibile; x subisce un mutamento almeno in una delle sue qualità sensibili u; questo mutamento è causato da un contatto diretto con qualcosa che possiede la qualità sensibile y; le qualità sensibili u e y appartengono allo stesso genere di qualità; la qualità che x acquista da questo processo causale è identica a y oppure è collocata fra u e y su una scala comune. Seel mostra, infine, che esempi di alterazione che non possono essere considerati tali sulla base di VII.3 non soddisfano almeno uno di questi requisiti, il che induce a concludere che l’espressione “essere affetto per se stesso” debba essere inteso nel senso di questa formulazione completa della definizione molto ristretta di alterazione. Oliver Primavesi, infine, fornisce una sinossi completa delle due versioni di VII.3, nella quale espressioni che sono trasposte in una delle due versioni sono stampate due volte (pur con distinzione tipografica) in modo da avere totalmente ricostruite le due versioni l’una a fronte dell’altra.
Questo libro è uno strumento utilissimo per la comprensione di Phys. VII.3 sotto diversi profili: innanzitutto perché si concentra su una porzione limitata di testo di cui mette a fuoco gli aspetti testuali, esegetici e filosofici; in secondo luogo perché valuta VII.3 in rapporto agli altri scritti di Aristotele e quindi ne fornisce un’interpretazione globale; infine perché si apprezza lo sforzo che è stato fatto dagli autori di confrontare le proprie posizioni ermeneutiche e di collegarsi fra loro, oltre che lo sforzo dei curatori di armonizzare i contenuti dell’intero libro. L’esito finale è certamente quello di un volume imprescindibile per i futuri studi sull’argomento.
Table of Contents
Foreword, Stefano Maso xiii
Introduction Robert Wardy 1
Greek Text with English Translation (harmonized by Stefano Maso and Gerhard Seel) 15
– Version α 17
– Version β 27
Analysis and Commentary:
Preliminary Remarks, Benjamin Morison and Gerhard Seel 37
Commentaries on the six Sections of the Chapter 43
– 245b3-246a9 by Benjamin Morison 43
– 246a10-246b3 by Ursula Coope 57
– 246b3-246b20 by István Bodnár 73
– 246b20-247a19 by Cristina Viano 85
– 247b1-247b13 by Frans A. J. de Haas 99
– 247b13-248a9 by Carlo Natali 109
Appendices
The Logical and Semantic Background of Aristotles’s Argumentation, Gerhard Seel 121
Aristotle, Physics VII.3.245b3-248a9: Towards a Fuller Synopsis of the Two Versions, Oliver Primavesi 131
Bibliography 137
Index Locorum 143
General Index 147
Index of Greek Terms 151