Nella raccolta di opere mediche in dialetto ionico attribuite a Ippocrate e definita Corpus Hippocraticum è trasmesso anche il De arte (o περὶ τέχνης, cfr. Fichtner n. 24), un discorso epidittico che asserisce e argomenta l’esistenza della medicina in quanto τέχνη – in quanto “arte” appunto. L’interesse storico e letterario di quest’opera fu puntualizzato per la prima volta da Gomperz (1889), la cui monografia fu seguita da una serie di studi, fra i quali vanno soprattutto citati l’importante saggio di Vegetti (1963-64), l’edizione critica di Jouanna per “Les Belles Lettres” (1988) e il dotto studio di Jori (1996). Il dibattito quindi è stato ripreso da Joel Eryn Mann, studioso americano educato alla storia della filosofia, che sul De arte si è addottorato qualche anno fa (titolo della dissertazione: Of science, skepticism, and sophistry: The pseudo-Hippocratic On the Art in its philosophical context, Dissertation presented to the Faculty of the Graduate School of the University of Texas at Austin, May 2005) e che ora pubblica una versione riveduta di quel suo primo studio, costituita da una riedizione dell’opera.
Sostanzialmente Mann vi offre un nuovo commento informato alla tradizione filosofica analitica, oggi dominante in area anglofona. Questo non intende superare le precedenti ricerche sul De arte, quanto piuttosto arricchirle di una lettura critica moderna, di marca alternativa a quella cosiddetta “continentale”. In essa il De arte è visto come un pezzo di retorica sofistica con forte impianto argomentativo, e tale considerazione è alla base del commento (cfr. pref., pp. IX-X).
Segue la prefazione una breve nota al testo, in cui si rende conto al lettore dei riferimenti bibliografici e del sistema di citazione impiegati (p. XI). La traduzione inglese di Mann si basa di norma sul testo dell’edizione critica di riferimento (Jouanna); rare modificazioni testuali sono segnalate nel commento. Occasionalmente, poi, sono state considerate anche lezioni contenute nei lavori di Jori (1996), Heiberg (1927), Reinhold (1865), Ermerins (1862), Daremberg (1855), e, più frequentemente, in Diels (1914). Sembra dunque che non vengano utilizzate le edizioni di Littré (1839-61) e Gomperz (1889), né la traduzione inglese di Jones per i tipi Loeb (1923; rist. 1998).
Il testo greco è preceduto da un’ampia introduzione, articolata in cinque sezioni (pp. 1-49). La prima concerne la nozione di τέχνη e offre una panoramica degli usi lessicali in età classica, non solo nel Corpus Hippocraticum, ma anche in altri generi letterari e autori rappresentativi dell’epoca quali i tragici, Platone e Aristotele; in questa contestualizzazione trovano ampio spazio anche sofisti, retori e presocratici, la cui produzione è accostata da Mann al Corpus Hippocraticum per via del suo impianto razionalistico e delle sue ambizioni teoretiche (pp. 1-7). La seconda sezione considera il De arte in quanto discorso epidittico e ne classifica le caratteristiche letterarie formali: ripercorrendo gli studi sul trattato, Mann ne perfeziona l’analisi strutturale e sviluppa la suggestione della somiglianza con la letteratura di ambito forense (Gomperz), suggerendo il paragone finora trascurato con Antifonte Sofista (pp. 8-20). Nella terza sezione il De arte è presentato come trattato filosofico sull’esistenza della medicina – o meglio come replica all’accusa di “non-essere”, che è documentata anche in altri trattati ippocratici ed era evidentemente molto dibattuta in Grecia – e viene definito da Mann come la più antica attestazione di “realismo scientifico” nella storia della filosofia (pp. 20-30). Nella quarta sezione invece il De arte è considerato come trattato medico e accostato ad altre opere del Corpus : oltre a discutere le affinità già segnalate da Vegetti con il De prisca medicina, il De diaeta in morbis acutis e il Prognosticon e a puntualizzarne le caratteristiche distintive, Mann individua nuove analogie di ambito medico con i trattati De locis in homine e De glandulis, e in generale spiega questa molteplice affinità come un segno dell’eclettismo filosofico del De arte (pp. 30-39). L’ultima sezione introduce quindi il testo del De arte da un punto di vista sia filologico sia contenutistico: per gli aspetti filologici – concernenti la storia della tradizione, la genesi, la datazione e le finalità dell’opera – Mann si attiene fondamentalmente alle precedenti edizioni critiche, mentre specula sull’identità dei personaggi celati dal discorso: da un lato infatti accoglie l’identificazione del sofista nemico delle τέχναι che ne avrebbe ispirato la composizione con Protagora di Abdera, dall’altra considera e argomenta l’identificazione dell’autore sia con Ippia di Elide (Diels; ma anche Jori), sia con Antifonte di Ramno (Untersteiner) (pp. 39-49).
Come anticipa la nota al testo, il περὶ τέχνης stampato da Mann è quello stabilito da Jouanna (pp. 51-56). Dell’edizione francese esso conserva anche la ripartizione strutturale, ad eccezione del posizionamento della traduzione, che non corre parallela al greco, ma lo segue, con qualche detrimento per la consultazione. Questa scelta di impaginazione – che era già adottata nella dissertazione e dunque suppongo dovuta a una scelta dell’autore – mi sembra discutibile; ugualmente mi chiedo se le divergenze dall’edizione Jouanna non fossero da segnalare in nota piuttosto che nel seguente commento (cfr. ad es. a p. 56 in 12.2: ὧν τὰ σημεῖα ταῦτα in luogo di ὧν τε σημεῖα ταῦτα, discusso poi a p. 217).
Quanto alla traduzione inglese, è da rilevare un’impostazione piuttosto libera, non scevra, a mio avviso, da qualche imprecisione (pp. 57-64). Su questo aspetto – non essendo madrelingua inglese – ho cercato conferma delle mie impressioni nel confronto con Jones, che in genere è piuttosto fedele al greco. Innanzitutto si nota scarsa aderenza all’ ordo verborum : lo mostra ad esempio la resa di 13.1, dove la posposizione della dichiarativa Ὅτι μὲν οὖν καὶ λόγους ἐν ἑωυτῇ εὐπόρους ἐς τὰς ἐπικουρίας ἔχει ἡ ἰητρικὴ… ἂν παρέχοι, insieme alla separazione dei soggetti οἵ τε νῦν λεγόμενοι λόγοι δηλοῦσιν αἵ τε τῶν εἰδότων τὴν τέχνην ἐπιδείξιες (p. 56), toglie efficacia espressiva, a mio parere, e riconfigura la struttura stessa del passo (p. 64). Si notano inoltre adattamenti stilistici non proprio rigorosi: ad esempio in 8.2: Οἱ μὲν οὖν ταῦτα λέγοντες (p. 53), tradotto “such people” (p. 60); in 9.1: τὰ μὲν ὁ παροιχόμενος [scil. λόγος] (p. 54), tradotto “the first half of this discourse” (p. 61); o ancora in 13.1: οἵ τε νῦν λεγόμενοι λόγοι (p. 56), tradotto “the discourse given here” (p. 64). In alcuni casi si ha l’impressione che tali imprecisioni siano indotte dall’interpretazione del testo di Jori, ad esempio in 1.1: ὃ ἐγὼ λέγω (p. 51), tradotto “the result I just mentioned” (p. 57), similmente a Jori “quel che ho detto” (p. 69); e inoltre ἱστορίης οἰκείης (ibidem), tradotto “of their special «skill»”, come Jori “della loro propria «dottrina»” (cfr. Jori, ibidem); e ancora in 4.1: Ἐστὶ μὲν οὖν μοι ἀρχὴ τοῦ λόγου (p. 58), tradotto “now my discourse starts from the following premise” (p. 58), analogamente a Jori “il mio discorso muove da un punto” (p. 75). Talvolta, insomma, sarebbe stato preferibile stampare la “traduzione di lavoro”, molto più letterale, di cui si ha qualche saggio nel commento: è il caso di 1.2: τὸ τὰ ἡμίεργα ἐς τέλος ἐξεργάζεσθαι ὡσαύτως (p. 51), che a testo è tradotto liberamente “to accomplish fully what has been accomplished only in part“ (p. 57), ma invece, giustamente, “the full completion of what is half-done” nel commento (p. 68).
Il commento è dunque un complemento indispensabile all’interpretazione veicolata dalla traduzione (pp. 65-233). Esso consiste di ampie e dettagliate note a lemma, suddivise in paragrafi conformemente al testo. Ciascun paragrafo si apre con un’introduzione generale e prosegue con osservazioni volte all’esplicazione di ciascun lemma. Va notato che i lemmi provengono dalla traduzione inglese, e non dal testo greco, e in effetti nel commento sono prevalentemente discusse scelte di traduzione, – argomentate in considerazione del dibattito medico-scientifico all’epoca del De arte, insieme a contenuti filosofici, talora illustrati con l’ausilio di schemi concettuali (ad es. pp. 294-5). Nondimeno, vi trovano spazio considerazioni sulla lingua e sullo stile dell’opera: particolare attenzione è consacrata ai luoghi paralleli reperibili nel Corpus, ma anche nelle opere di sofisti e retori, tragici, presocratici e naturalmente Platone; su questa base Mann riflette sugli usi lessicali tipici del trattato; analizza le figure retoriche; individua le analogie semantiche; e insomma contestualizza la marca estetica, ma anche gnoseologica, dell’opera.
La contestualizzazione filosofica è trattata nell’appendice seguente il commento (pp. 235-261). Si tratta di un breve saggio, che affronta in particolare tre aspetti del dibattito filosofico sulla τέχνη. In primo luogo investiga la continuità tematica fra il De arte e i discorsi contro la τέχνη di epoca successiva, con particolare riguardo per l’ Adversus mathematicos di Sesto Empirico. Secondariamente, rinviene nel De arte le radici del concetto di medicina come τέχνη stocastica – ovvero di arte con “carattere congetturale” sul piano epistemologico (Vegetti). Quindi, investiga la continuità e la discontinuità del De arte rispetto al dibattito di età ellenistica sul tema dell’ἄδηλον, del non-visibile. Chiude il lavoro una breve bibliografia (pp. 255-261). Questa, che pure ha il pregio dell’essenzialità, appare un po’ lacunosa: ne sono esclusi infatti alcuni titoli imprescindibili sia per il contesto generale dell’indagine – ad esempio l’opera storico-filosofica edita da Geymonat (1975) e quella sul pensiero medico occidentale di Grmek (1993), ma soprattutto il prezioso “Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt” 37.2 (in cui è contenuto, fra gli altri, un contributo di Stock sulla τέχνη stocastica) – sia per la conoscenza specifica del De arte, come ad esempio l’articolo di Lloyd sul destinatario del discorso (uscito nel 1963 e ristampato nel 1991). Rientrano in questo novero anche i contributi pubblicati da Jori in preparazione del suo saggio del 1996 (1984-85; 1990), che non vengono citati.
Con uno sguardo complessivo al lavoro di Mann, ne vorrei illustrare innanzitutto i pregi: è un pregio per se aver offerto una diligente rassegna degli studi sul De arte e aver rilanciato così l’interesse e il dibattito intorno a questo scritto, – a maggior ragione nella lingua dell’ecumene anglofona; ma ancor più credo vada enfatizzato il merito di aver guardato al dibattito interpretativo con una nuova prospettiva culturale. Un apporto personale è inoltre ravvisabile in varie parti dell’opera. Nell’introduzione – e saltuariamente anche nel commento – Mann esamina con competenza la genesi e le caratteristiche letterarie del De arte; nel commento ne investiga fin nelle più lontane implicazioni filosofiche le argomentazioni; nell’appendice tratteggia la fortuna del suo tema in età ellenistica.
Sul versante filologico, però, il lavoro appare meno solido, e forse un po’ ingenuo. Malgrado la buona conoscenza del testo, infatti, Mann non trova il giusto equilibrio fra interpretazione e traduzione. Questo è evidente soprattutto nella traduzione inglese, come ho già rilevato, ma traspare anche da piccole imprecisioni terminologiche nel corso della trattazione (balza agli occhi, a p. 39, la definizione di discendenza dei due codici ippocratici A e M “directly from the original De arte ”!).
Ciononostante, nel contesto degli studi sul De arte l’opera di Mann è da apprezzare perché segna una nuova tappa della ricerca. La scintilla appiccata da Gomperz a fine ’800 è stata rinfocolata per tutto il XX secolo da diverse traduzioni e interpretazioni in Europa: con questo commento Mann rilancia ora l’interesse per questo scritto nel nuovo millennio, e, grazie alla chiave interpretativa filosofico-analitica, nel Nuovo Mondo.