Come segnalato nei Ringraziamenti dai curatori, il carattere eterogeneo e il numero notevole di questi contributi ne ha scoraggiato una ripartizione tematica, a vantaggio di quella cronologica già seguita nel convegno, a sua volta ordinata in tre macrosezioni; le principali tematiche – poteri e indirizzi, forme del controllo, idee e prassi di tolleranza – vengono però subito definite e precisate, in riferimento ai saggi raccolti, nella Introduzione di Giovanni Cecconi.
La prima macrosezione, Grecia e Asia ellenistica, si apre con lo studio dedicato da Giorgio Camassa alla figura di Oreste e all’uso politico della sua figura fatto da Sparta in epoca arcaica: gli Spartani in piena espansione territoriale, di fronte alle impreviste difficoltà incontrate contro Tegea, anche al fine di evitare una pericolosa alleanza fra Tegeati e Messeni ilotizzati, nel corso del VI sec. a.C. concepirono l’idea di una symmachía da loro guidata (la futura Lega del Peloponneso) e la sancirono tramite la traslazione delle ossa di Oreste proprio da Tegea; probabile ma più difficile invece da accertare è la possibilità che la presenza, in una sezione dell’ Odissea in cui si avverte chiara l’impronta spartana, di un Oreste vendicatore del padre, che anticipa l’atto sanguinoso che avrebbe altrimenti macchiato la figura del re di Sparta Menelao, sia da ricondursi alla stessa politica lacedemone di stampo egemonico.
Il saggio di Hans-Joachim Gehrke è centrato su un brillante contributo di Henrik Versnel relativo all’analisi delle Baccanti di Euripide come luogo di analisi dell’interazione politica e religiosa che caratterizzava la comunità della polis antica:1 da tale lavoro egli trae spunto per proporre la dicotomia “ polis totalizzante– divinità totalizzante”, che in ultima analisi gli consente di rivelare i meccanismi di integrazione culturale della polis classica, fra i quali è paradigmatico il binomio Atene-Dioniso.
Chiara Pecorella Longo – pur consapevole della difficile reperibilità di risposte univoche ed esaustive – sceglie di riprendere i problemi più dibattuti in merito al reato di empietà ( asebeia) e alla sua definizione nel diritto attico; un punto di vista privilegiato sulla questione è offerto dal cosiddetto “decreto di Diopite”, emanato probabilmente poco prima del 430 a.C., il cui testo è stato spesso messo in relazione proprio con l’introduzione del reato di empietà e con la procedura dell’ eisangelia a esso relativa.
Sulla scorta di alcuni contributi di A. B. Bosworth e ricollocando le notizie fornite dalle fonti antiche in una prospettiva politica – a danno di quella morale da loro privilegiata, Andrea Zambrini analizza il difficile rapporto fra Alessandro Magno e i gimnosofisti indiani da lui tanto ammirati: si possono così comprendere l’incapacità greca di comprendere pienamente il ruolo ricoperto in India dalla locale casta sacerdotale e la speculare avversione dei brahmani – e degli indiani in genere – verso un esercito invasore e devastatore non solo della loro terra ma anche della loro cultura.
Federico Squarcini focalizza invece la sua attenzione su un fraintendimento dei “moderni”, mettendo in discussione il valore etico dei celebri Editti di Aśoka, potente sovrano della dinastia Maurya convertitosi al buddhismo nel III sec. a.C. Affiancando una attenta analisi delle fonti primarie alle suggestioni della moderna sociologia dei processi culturali – e in particolari all’opera di Pierre Bourdieu2 – l’autore persegue con successo lo scopo di dimostrare che gli atteggiamenti e le scelte di politica religiosa, a volte intolleranti altre tolleranti, di Aśoka non devono intendersi come il prodotto esclusivo dell’intima disposizione morale del sovrano, bensì come l’esito del rapporto vincolante che legava tale disposizione d’animo all’insieme sistemico dei mutamenti storici e politici del tempo.
Nel suo ampio contributo Federicomaria Muccioli analizza le forme assunte dal Ruler Cult in età ellenistica in relazione al culto divino e agli onori eroici tributati nel mondo greco ai dinasti e ai capi politici nelle epoche precedenti. In un’ottica esemplificativa l’autore affronta tre casi paradigmatici – Ierone I, Lisandro, la tirannide di Eraclea Pontica: per loro tramite è possibile comprendere il progressivo mutamento di mentalità nel modo greco relativo al conferimento di onori e culti divini, annuncio della ben più decisa svolta in tal senso dell’età ellenistica.
La seconda macrosezione, Roma repubblicana e imperiale, parte con il saggio di F. Marco Simón sulla politica romana relativa ai culti indigeni e provinciali in Occidente. L’autore dimostra come la politica romana – nei confronti dei culti indigeni prima, di quelli provinciali poi – abbia subito un’evoluzione da un iniziale confronto, spesso repressivo (nei confronti del druidismo, ad esempio, o di particolarità culturali celtiche quali le bracae), a un successivo, e spesso riuscito, tentativo di integrazione nel sistema provinciale stesso; perciò, anche se forse non si può sempre parlare di una vera e propria politica religiosa, è indubbio che vi sia stata una cosciente strategia volta a ridefinire le cosmologie indigene e a incanalare nuove in forme rituali il lealismo verso il principe.
Valentina Arena concentra la sua attenzione sull’idea di libertà religiosa, notando come da un lato i romani non individuarono mai concettualmente tale nozione – evidentemente in contrasto con la stessa concezione repubblicana di libertas – e dall’altro come fosse un cristiano, Tertulliano, il primo a usare l’espressione libertas religionis, creando così un’innovazione ideologica, ovvero la nozione di libertà (religiosa) dall’interferenza statale.
Attilio Mastrocinque dedica un breve contributo al sempre maggiore significato politico assunto, nella tarda età repubblicana, dal culto della Bona Dea; un’importanza crescente che pare sia da mettere in relazione con il carattere dionisiaco di questo culto, soprattutto nelle sue celebrazioni nel mese di dicembre. Tale cerimonia infatti, affine a quella della Basilinna ateniese (che celebrava il rito segreto delle nozze di Arianna e Dioniso), fu l’occasione di un celebre scandalo che, nel 62 a.C., vide protagonista Clodio Pulcro.3 In seguito ne sfruttò la valenza politica Antonio, che si presentò come novello Dioniso accanto alla moglie Ottavia, novella Arianna; ciò però non fece che aumentare lo scandalo dei Romani rispetto alla successiva ierogamia del triumviro con Cleopatra. Dopo Azio fu Livia, moglie di Ottaviano, a prendersi cura del culto di Bona Dea.
Silvia Cappelletti prende le mosse dai passi delle Antichità Giudaiche in cui Giuseppe Flavio riporta dei privilegi concessi dalle autorità romane ad alcuni centri della diaspora e, focalizzando la propria attenzione sullo studio di una particolare comunità (Sardis), cerca di definire fino a che punto sia possibile distinguere la politica che Roma tenne in Giudea da quella sviluppata in diaspora, cercando così di cogliere tratti di continuità o di frattura in tale linea politica.
Giuseppe Zecchini sgombra il campo da un possibile equivoco: il paganesimo romano non può essere considerato tollerante perché il concetto stesso di tolleranza è estraneo al mondo antico. Roma ammette la coesistenza di molte religione etniche, purché esse siano compatibili con quella capitolina e a essa subordinate; perciò il cristianesimo, religione non etnica ma universale, che contrappone il Cristo a Giove, fu perseguitato, come in passato era toccato, per altri motivi, al culto dionisiaco e al druidismo.
James B. Rives realizza una messa a punto delle diverse visioni degli studiosi sulle basi legali delle accuse nelle corti romane che, dal 64 al 250 d.C., costituirono a livello locale l’opposizione romana alla cristianità, alimentata dalla preoccupazione che i cristiani si stessero separando dalla comunità più ampiamente intesa. Le successive persecuzioni organizzate da Decio, Valeriano e Diocleziano furono quindi solo il segnale che l’opposizione alla cristianità si era spostata dall’ambito locale alla comunità dell’impero nel suo insieme.
Mark J. Edwards sostiene che prima della “grande persecuzione” del 303 molti cristiani dubitavano della capacità dei demoni di intervenire nel mondo. Fu il filosofo Porfirio che affermò invece che essi erano addirittura capaci di inviare epidemie e terremoti; i cristiani perciò sfruttarono l’opera porfiriana – in particolare il testo Sulla filosofia tratta dagli oracoli – per dimostrare che la persecuzione dei cristiani era stata ispirata proprio dai demoni.
La terza e ultima macrosezione, Tarda Antichità, è aperta dall’articolo di Nicole Belayche che, esaminando attentamente la celebre riforma organizzativa del paganesimo “di Stato” attribuita all’imperatore Massimino Daia, ne mette in luce il carattere tradizionale e la sostanziale coerenza con la riorganizzazione territoriale voluta da Diocleziano; ne emerge che tale “riforma” pare essere più concretamente un mito storiografico.
Jörg Rüpke concentra la sua attenzione sull’importanza, spesso sottovalutata, delle cariche sacerdotali pagane in età tardo-imperiale. Mentre il clero cristiano andava definendo le proprie strutture, si è soliti credere che i sacerdozi pagani stessero perdendo importanza; è più corretto invece affermare che la tipologia di questi ultimi stava cambiando, come dimostrato anche dall’inserimento di cariche sacerdotali nelle carriere equestri e senatorie.
Barbara Scardigli prende in esame la politica religiosa di Costanzo, analizzando il suo atteggiamento relativamente conciliante non solo nei confronti degli ariani, come Teofilo e Ulfila, ma anche verso l’ortodosso Frumenzio; una linea politica evidentemente dettata da motivi non solo religiosi, ma anche economici e militari.
Maijastina Khalos focalizza la sua attenzione sulla difesa, operata da Temistio, della diversità religiosa, in particolare nelle sue orazioni 5 e 6; lo scrittore discute l’evoluzione delle politiche religiose e poi, facendosi portavoce delle istanze dell’imperatore Gioviano in tal senso, tenta di plasmare l’opinione pubblica.
Caroline Humfress utilizza un approccio comparativo, analizzando il diritto romano ed ecclesiastico come concrete pratiche sociali, allo scopo di portare in evidenza le esperienze e conoscenze necessarie per manovrare le dispute legali nell’ambito di dispute politico-religiose.
Concentrandosi soprattutto sull’analisi delle fonti ispaniche di età tardo-antica, Chantal Gabrielli ha analizzato le modalità della lotta mossa dal cristianesimo cattolico al priscillianesimo, e ad altri movimenti religiosi a esso associati come il manicheismo; in particolare nel contributo si sottolinea come, dalla fine del V secolo, venendo progressivamente meno la capacità di controllo del potere imperiale, la lotta sia stata guidata dalle istituzioni ecclesiastiche ispaniche e dalla Chiesa di Roma.
Francesco Maria Petrini ripercorre, in una serie di sezioni periodizzanti, l’evoluzione dei governi ariani in Italia fino alla loro eradicazione dovuta al successo di Giustiniano nella guerra Gotica; l’autore si dedica in particolare all’indicazione di proposte interpretative e di potenziali spunti di ricerca in merito alla vigenza della legislazione teodosiana in Italia nel V secolo e allo stato giuridico della chiesa ariana nel regno ostrogoto.
Francesco Grelle evidenzia il ripensamento radicale, in merito alla collocazione della disciplina della fede e degli altri culti, rappresentato dal Codex Iustinianus rispetto al precedente Codex Theodosianus; nella seconda edizione del Codice di Giustiniano, in vigore dal 534, l’ortodossia è infatti assunta come fondamento della coesione sociale e presupposto dell’ordine giuridico.
Completano il volume le Riflessioni Conclusive – affidate a Guido Clemente, John Scheid e Rita Lizzi Testa; gli abstracts dei contributi, in lingua inglese e in italiano; un indice analitico e un indice generale.
Visto l’arco cronologico amplissimo ricoperto dalle tematiche affrontate e la rinuncia in partenza ad affrontarne talune sfaccettature – sicché è esplicita l’esclusione, ad esempio, di studi di carattere antropologico (p. 8), era inevitabile che il volume non potesse offrire uno stato dell’arte esaustivo in merito alle politiche religiose in epoca antica. Tuttavia, i numerosi elaborati offrono uno spaccato ricco e convincente su determinate questioni, segnalandosi sia per il valore paradigmatico che per la completezza dei riferimenti bibliografici, sia primari che secondari. Ne consegue che il volume si segnala non solo come uno strumento utilissimo per chiunque sia interessato alle tematiche trattate, le quali vengono precisate e definite nei dettagli; ma si configura anche come una raccolta di suggestioni e di stimoli alla ricerca, talora valicando in tal senso perfino i confini cronologici assegnati.
Notes
1. H. Versnel, ‘ΕΙΣ ΔΙΟΝΥΣΟΣ. The Tragic Paradox of the Bacchae ’, in id., Ter Unus: Isis, Dionysos, Hermes. Three studies in Henotheism, Leiden 1990, 96-212.
2. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Milano 1998.
3. Cfr. W.J. Tatum, The Patrican Tribune. Publius Clodius Pulcher, Chapel Hill–London 1999, 62-86.