Come recita il titolo di questo corposo saggio, gli autori hanno inteso presentare l’opera di Porfirio che più di ogni altra continua a suscitare controverse interpretazioni – Perì tes ek logíon Philosophias – aggregando ad essa quei frammenti di altre opere che, a parere degli studiosi, possono essere omologati entro le categorie di magia, stregoneria, teosofia e teurgia, le quali – nell’ottica ampiamente argomentata nei rispettivi saggi introduttivi – ne definiscono l’identità peculiare. A fondamento della raccolta di testi si pone l’edizione di A. Smith, Porphyrii Philosophi Fragmenta, Stuttgart-Leipzig: G.B. Teubner, 1993, rispetto alla quale, come avverte la “Nota editoriale”, sono apportate alcune modifiche, tra le quali la principale risulta la sostituzione del testo della cosiddetta Teosofia di Tubinga nell’edizione di P.F. Beatrice1 a quella di H. Erbse,2 utilizzata dallo Smith. Anche l’Apparato critico contiene aggiunte e modifiche.
In conformità al progetto formulato dagli Autori, la struttura del volume contempla un’utile e cospicua raccolta di Testimonianze sulla vita e le opere di Porfirio, offerte da fonti greche, latine, arabe e siriache, queste ultime nella traduzione inglese dei rispettivi editori,3 con a fronte quella italiana; al suo interno si stabiliscono delle “sotto-categorie” che intendono illustrare i diversi aspetti del tema. Seguono, in una sezione denominata Scritti di etica, i frammenti del De regressu animae di cui, come è noto, unico testimone è Agostino,4 in quella designata Miti e misteri, sull’esempio dello Smith, i frammenti del trattato Perì tes ek logíon Philosophias 5 e del Perì agalmaton.6 Ai primi, identificati secondo la classificazione di Smith, segue, quale Appendice I, una serie di oracoli presenti nella Teosofia di Tubinga desunti – come si è detto- dall’edizione di P.F. Beatrice 2001 e quindi, quale Appendice II, l’edizione della stessa Perì tes ek logíon Philosophias di G. Wolff (Berlin 1856). Quest’ultima scelta, utile in quanto mette a disposizione del lettore un’opera difficilmente reperibile, rimane tuttavia a livello di operazione antiquaria in quanto non sono discusse le problematiche storiografiche relative all’opera del Wolff nel quadro delle ricerche per la ricostituzione del testo porfiriano.
Sotto la rubrica Altri scritti sono addotte le testimonianze su opere porfiriane perdute (il Commento Su Giuliano il Caldeo (Smith 1993, 435-440) e Contro il libro di Zoroastro (Smith 1993, 440-441), scritto anti-gnostico che l’autore avrebbe composto su sollecitazione del maestro Plotino per confutare le dottrine di quei “cristiani gnostici” che frequentavano la scuola romana. Segue la Lettera ad Anebo, ricostruita dal De mysteriis giamblicheo, secondo l’edizione di A.R. Sodano (Napoli 1958),7 mentre quale Appendice alla medesima opera sono addotti in qualità di Frammenti i numerosi passi della Lettera riferititi quali citazioni letterali o parafrasi da Eusebio di Cesarea, da Agostino e da altre fonti (Cirillo di Alessandria, Teodoreto di Cirro, Giuseppe di Tiberiade). Infine, in una sezione miscellanea di Testimonianze e frammenti di dubbia collocazione – sempre secondo la classificazione di Smith sostanzialmente adottata,8 sia pure con alcune varianti – si adducono le notizie residue e i frammenti su scritti perduti, fra cui alcuni di forte spessore filosofico e metafisico, come ad esempio Sull’Uno e su Dio, Sull’intelletto, Sull’anima, Sul cielo e sul mondo, Sulla materia, Sulla Provvidenza e sul libero arbitrio, i quali non possono rientrare nella vasta categoria formalizzata nel progetto di ricerca. Essi tuttavia forniscono elementi di primaria importanza per la definizione della fisionomia intellettuale ed etico-religiosa del filosofo, certo non riducibile alla dimensione del “magico” privilegiata non solo, come è naturale in base al progetto dell’opera in esame, nella silloge dei testi ma anche nei saggi interpretativi degli studiosi che tale progetto hanno formulato e realizzato.
L’ampia “Monografia introduttiva di Giuseppe Girgenti” (IX-CXV) inquadra la personalità scientifica di Porfirio nel suo contesto storico-culturale e percorre le opere comprese nella silloge illustrandone con competenza e buona informazione bibliografica i contenuti e le finalità. Senza poter entrare nei dettagli dell’interpretazione proposta dallo studioso e nel rispetto delle sue personali convinzioni, si può notare tuttavia che alcune affermazioni apodittiche avrebbero potuto esse sfumate, in considerazione del dibattito aperto su molti dei temi affrontati. Così, ad esempio, la dichiarazione secondo cui “gli Oracoli caldaici … presentano una teogonia platonizzante di matrice zoroastrina” (LXXX-LXXXI) appare troppo perentoria in considerazione delle forti riserve se non chiare negazioni espresse nella pertinente letteratura scientifica su tale supposta “matrice”. Né si può tacere una troppo disinvolta affermazione presente nella “Conclusione” del saggio, relativa a “La polemica mimetica tra platonismo e cristianesimo” (CIX-CXV). Se opportunamente si sottolinea la comune base filosofica a forte densità platonica dei rappresentanti dei due fronti in polemica – pagano e cristiano – non è accettabile l’inclusione di Origene e di Agostino, insieme con Giustino, nella categoria dei “convertiti” al cristianesimo dal platonismo, che sembra da intendere –proprio per il riferimento a Giustino che ci narra il suo itinerario spirituale e intellettuale dall’identità pagana a quella cristiana – appunto come “conversione” da tale identità (CIX: “… del resto, furono frequenti le conversioni al cristianesimo dei platonici (si pensi a Giustino e a Origene, ma anche ad Agostino)…)”.
Quanto al Maestro alessandrino, sebbene l’autore non offra alcuna motivazione di tale conclusione, dandola per scontata, si può facilmente ritenere – da parte di chi abbia la necessaria familiarità col problema (… mentre il lettore meno esperto sarà indotto ad accogliere senza riserve tale recisa affermazione) – che il Girgenti faccia riferimento ad un giudizio, di ispirazione polemica, di Porfirio (Eusebio, HE VI, 19, 1-8= Porfirio Contro i cristiani Fr. 39 Harnack) su Origene, il quale avrebbe travasato la solida formazione filosofica di marca ellenica nella propria opera di esegeta cristiano. La letteratura scientifica su Origene, figlio del martire Leonida ed educato in una famiglia cristiana (Eusebio, HE VI, 1-3), è unanime nel riconoscere che lo stesso Porfirio non avrebbe inteso parlare di una “conversione” dal paganesimo, anche se l’interpretazione di Eusebio, parimenti polemica, forza in tal senso il giudizio porfiriano.9
Per quanto riguarda Agostino, non devo fare qui la dimostrazione della solida componente giudeo-cristiana, rivisitata in chiave gnostica, del messaggio del Profeta Mani, che si auto-proclamava “Apostolo di Gesù Cristo”, accolto da Agostino nella sua giovinezza e custodito per più di dieci anni, fino all’approdo alla Cattolica. Se il Girgenti allude alla “conversione” da questa lunga e intensa esperienza religiosa, da cui l’Ipponate dichiara di essersi distaccato anche per l’influsso dei Platonicorum libri, basti ascoltare lo stesso Agostino per rendersi conto che nulla di “pagano” rientra in questo quadro. Nell’intensa rivisitazione della propria esperienza nelle Confessiones III, 4, 8-6, 10 egli rievoca la forte attrazione esercitata dall’ Hortensius ciceroniano. “Questo solo – dichiara – mi respingeva, che colà non c’era il nome di Cristo”, quel nome – sottolinea – che aveva “bevuto col latte materno”. Per contrasto, fra i principali motivi dell’adesione al messaggio dei Manichei egli indica la circostanza che essi pronunciavano i nomi di Dio Padre, di Gesù Cristo e dello Spirito Paracleto.
Quanto ai libri dei Platonici ( Confessiones VIII, 2, 3), se ancora aperto è il dibattito sulla loro identificazione (opere di Platone, di Plotino o/e di Porfirio?), non è dubbio l’influsso che la loro lettura – coniugata all’esegesi spirituale delle Scritture appresa dalla predicazione di Ambrogio ( Confessiones V, 13,23-14,24) – ha avuto, per ammissione dello stesso Agostino, nel determinare la sua definitiva “conversione” alla Chiesa cattolica. Di fatto, fu proprio la “scoperta” fatta in quella lettura della natura del male come defectus boni piuttosto che autonoma sostanza, come volevano i Manichei, a permettergli di superare gli ultimi dubbi sull’adesione alla dottrina cattolica. La linfa platonica, dunque, fu strumento e insieme apporto ideologico essenziale nel mutamento di rotta nell’itinerario spirituale e intellettuale di Agostino, del quale poi rimase componente importante, ma non certo elemento di una identità non cristiana da cui “conventirsi”.
Tali dati immagino siano ben noti allo stesso Girgenti, ma questa argomentazione mi è sembrata necessaria per rivelare le “trappole” in cui anche gli studiosi più esperti possono cadere quando si concedono affermazioni troppo rapide e disinvolte, le quali tuttavia ingannano i lettori non sufficientemente informati.
Il medesimo problema si ripropone, e in proporzioni molto più ampie, nella lettura del saggio di G. Muscolino, “Magia, stregoneria, teosofia e teurgia. La trasformazione del Neoplatonismo” (CXVII-CCXI). Sebbene lo studioso riveli ampie letture di buon livello scientifico, egli indulge troppo spesso ad affermazioni generiche se non francamente erronee, attinte invece a fonti meno raccomandabili.10 Di fatto non è ammissibile, in un saggio che affronta i temi sopra enunciati, trovare una “storia della magia” che evoca al lettore esperto – e rende evenemenziale – quella di chiaro stampo ideologico tracciata da Plinio in un passo famoso della Naturalis Historia XXX, 1. 1-6.18, peraltro non citato dall’Autore. Egli, in perfetta tranquillità e con assoluto disdegno del dibattito attuale (… e antico) sulla natura del fenomeno, afferma: “In termini molto generici si può dire che la magia nasce in Persia, per giungere poco dopo in Egitto… Dalla Persia e dall’Egitto arriva in Grecia e in Italia divenendo nel tempo parte integrante del sostrato culturale di quei luoghi” (CXXVIII).
Venendo ora alla Silloge di testi e alla loro traduzione, mentre si apprezza l’accurato lavoro filologico riflesso nell’apparato critico che accompagna i primi, nel confronto con le edizioni di riferimento, non si può tacere la frequenza troppo grande di imprecisioni o di veri e propri travisamenti nella seconda. Non è necessario spendere molte parole sulla difficoltà di ogni “traduzione”, sull’ambiguità spesso non superabile del senso di molti termini e locuzioni e sul carattere discrezionale delle scelte cui spesso il traduttore è costretto. Tuttavia tutto ciò non autorizza l’interprete a distorcere il significato il testo, soprattutto quando esso è perfettamente comprensibile nei suoi termini fondamentali. In tali circostanze il lettore poco familiare con la lingua greca e quella latina è posto fuori strada e il lettore esperto non può sottrarsi ad un legittimo fastidio. A conferma di questo giudizio, che può apparire molto duro e che comunque si riferisce solo ad alcuni – anche se numerosi – casi di cui giudicheranno i lettori, cito soltanto il Testo 6 della Appendice I, relativo ad un oracolo della Teosofia di Tubinga. Qui il dio profeta Apollo, da “interrogato” ( erôtêtheis), ossia destinatario della consultazione – come in tutti i casi paralleli –, diventa il consultante e quella che nella prospettiva teosofica del contesto è la somma divinità assolutamente trascendente e inattingibile, diventa il suo interlocutore che si auto-definisce nei propri attributi qualificanti, con l’inserzione illegittima da parte del traduttore di un “io sono” che meglio si adatterebbe al Dio biblico. Questa infatti è la traduzione del testo oracolare proposta dal Muscolino: “Così Apollo aveva chiesto chi fosse dio, egli rispose così:’Io sono colui che appare da sé, non generato, incorporeo e anche immateriale ‘ etc.“ (180-181).
Quanto rischiose siano operazioni di questo tipo è confermato dalla traduzione di un passo dell’opera Sulle immagini citato da Eusebio ( Praep.Ev. III, 11, 45-13,3 = 360 F. Smith), dove Porfirio propone una simbologia cosmica dell’abbigliamento dei detentori delle quattro principali cariche rituali del misteri di Eleusi, rispettivamente lo ierofante, il daduco, l’addetto all’altare (tecnicamente designato nelle fonti come ho epi bômô) e infine l’araldo sacro ( hierokeryx). Nell’evidente ignoranza di questa struttura rituale (e travisando un testo perfettamente chiaro in tal senso), tutto il brano diventa la descrizione di successivi travestimenti dell’unico personaggio, lo ierofante, di cui non resta che ammirare l’abilità mimetica: “Inoltre nei misteri Eleusini lo ierofante viene vestito a somiglianza del demiurgo, (quando è) portatore di torcia (viene vestito) a somiglianza del sole, e quando è all’altare (viene vestito) a somiglianza della luna, quando invece è l’araldo sacro (viene vestito a somiglianza) di Ermes” (312-313).
Tutti i testi, come anche i saggi introduttivi, sono accompagnati da un denso apparato di note, per lo più puntuali ed utili ma spesso appesantite oltre misura dalle citazioni delle opere di riferimento. Soprattutto superflue e più adatte a un manuale scolastico che non a un lavoro scientifico sono le lunghe citazioni di passi da rispettabili Enciclopedie che, di volta in volta, ci informano su Apollo e su tutti gli dèi della mitologia greco-romana secondo i canoni più scontati del genere.
In conclusione, utile per la raccolta di tanti importanti testi porfiriani in un contesto unitario che ne permette una visione globale, l’opera, pure di grande impegno, avrebbe richiesto un maggiore controllo documentario e una più rigorosa auto-disciplina nei giudizi e nelle conclusioni.
Notes
1. P.F. Beatrice, Anonymi Monophysitae Theosophia. An Attempt at Reconstruction, Leiden-Boston-Köln: Brill, 2001. Come è noto, con questa denominazione convenzionale si designa la raccolta di oracoli e sentenze filosofiche in quattro libri contenuta in un Manoscritto custodito nella Biblioteca Universitaria di Tübingen (Tub.Mb 27, fol. 67r-87r), dal titolo Chresmoi tôn Ellenikôn theôn, Oracoli degli dèi greci. Essa, come recita l’Introduzione redatta da un anonimo autore bizantino del VII sec. d.C., era una sorta di appendice di un’opera perduta in sette libri, dal titolo Sulla retta fede. In tale raccolta, intesa a dimostrare la verità del cristianesimo anche sulla base dei testimonia pagani, sono presenti molti oracoli apollinei provenienti dal santuario di Claros e alcuni utilizzati da Porfirio nell’opera La filosofia desunta dagli oracoli, oltre che esempi dagli Oracoli Sibillini.
2. H. Erbse, Fragmente Griechischer Theosophien, Hamburg 1941, di cui si veda la nuova edizione riveduta: Theosophorum Graecorum Fragmenta iterum recensuit H. Erbse, Bibliotheca Teubneriana, Stuttgart-Leipzig: E,G. Teubner, 1995.
3. A. Smith 1993, 1-33.
4. A. Smith 1993, 319-350.
5. A. Smith 1993, 351-407: Mythica et Mystica.
6. A. Smith 1993, 407-435.
7. Si noti che lo Smith non riporta il testo della Lettera ad Anebo, ma rimanda all’opera di Sodano.
8. A. Smith 1993, 494-562.
9. Cito per tutti il contributo di P.F. Beatrice, Porphyry’s Judgment on Origen, in R.J. Daly (ed.), Origeniana Quinta, Leuven: University Press-Peeters, 1992, 351-367, in particolare 353: “Porphyry doesn’t at all speak of a pagan origin of Origen and of his conversion to Christianity”.
10. Basti per tutte la nota 33 di CXXIX, in cui – sull’autorità di una Storia della magia di E. Levi, Roma 1985 – si afferma che “è proprio lo stesso Zoroastro a sostenere che «bisogna conoscere quelle leggi misteriose dell’equilibrio… etc.»”. Il lettore ammirerà questa certezza nella parola di Zoroastro.