BMCR 2012.03.28

Publio Virgilio Marón Volumen II; Volumen III; Volumen IV

, , , , Publio Virgilio Marón. Eneida: Volumen II (Libros IV-VI). Alma mater. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 2011. xxviii, 179 pages. ISBN 9788400092832.
, , , , Publio Virgilio Marón. Eneida: Volumen III (Libros VII-IX). Alma mater. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 2011. xxiv, 176 pages. ISBN 9788400093396.
, , , , Publio Virgilio Marón. Eneida: Volumen IV (Libros X-XII). Alma mater. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 2011. xxiii, 395 pages. ISBN 9788400093402.

Questi volumi proseguono e completano l’edizione dell’Eneide a cura di A. Ramírez de Verger (testo e apparato critico), L. Rivero (traduzione), M. Librán (note di commento), J. A. Estévez (verifica dei manoscritti, delle edizioni e delle testimonianze indirette). Ciascun volume comprende tre libri (dal IV al XII), una bibliografia (divisa in editiones e commentationes) funzionale alla lettura dell’apparato critico, un conspectus codicum et subsidiorum. Il quarto e ultimo volume include anche gli indici dei nomi, dei passi citati, dei loci similes e di (alcuni) temi ed espedienti letterari. Non capisco per quale motivo quest’ultimo indice comprenda principalmente voci attinenti alla sfera amorosa, che certamente è parte integrante dell’ Eneide, ma non ne esaurisce la ricchissima gamma tematica.

Per un giudizio complessivo si può confrontare il mio review-article dedicato al vol. I (libri I-III del poema, con un’ampia introduzione dal taglio monografico), in “BMCR” 2010.01.03. Infatti i volumi II, III e IV conservano l’impostazione e le principali caratteristiche del primo, di cui confermano altresì le qualità e le carenze (imputabili quasi sempre alla finalità ambiguamente indecisa tra concezione scientifica e compilazione divulgativa). Mi limiterò perciò a discutere qualche punto, che funga anche da esempio del modo in cui è condotto il lavoro di revisione testuale, traduzione e commento.

IV, 93-95, egregiam uero laudem et spolia ampla refertis / tuque puerque tuus: magnum et memorabile nomen, / una dolo diuum si femina uicta duorum est (Giunone a Venere, sull’innamoramento di Didone): la scelta di nomen con Geymonat e Conte vs numen, presente nella maggior parte della tradizione manoscritta, è resa plausibile anche dalla congruenza del sostantivo con l’aggettivo memorabile, che si riferisce (ironicamente) alla fama più appropriatamente che a un dio. La struttura della frase risulta ugualmente decisiva a V, 767-768, ipsi quibus aspera quondam / uisa maris facies et non tolerabile nomen (i Troiani che rimangono in Sicilia), dove nomen del Mediceus (M) è preferibile a numen del Palatinus (P) in quanto meglio appaiato con facies del primo emistichio, ma è consigliato altresì dalla tradizione indiretta (Servio ad Aen. IV, 560; Tiberio Claudio Donato).

Non mi convince invece la scelta di VI, 383, gaudet cognomine terra (Palinuro), dove terra soppianta terrae, presente nei principali codici: non nego che l’ablativo sembri lectio difficilior — perciò è preferito dai maggiori editori moderni (da Mynors a Geymonat, da Goold a Conte); tuttavia mi sembra stridente la successione di due ablativi con diversa funzione, di cui il primo (cognomine) dipende dal secondo, creando inevitabilmente un’ambiguità, poiché è forte la tentazione di legarlo direttamente al verbo. Una maggiore audacia avrebbe giovato a VI, 851-852, tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, dove paci viene dalla maggior parte della tradizione manoscritta e compare nelle principali edizioni; ma forse è preferibile pacis, che Hirtzel accoglie al seguito di Servio e che E. Kraggerud difende con ottimi argomenti, insieme col plurale mores (SO 66, 1991, 115-117; Gymnasium 118, 2011, 457-462).

Di contro, è apprezzabile il coraggio dimostrato a IX, 128-130, Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse / auxilium solitum eripuit non tela neque ignis / exspectans Rutulos (la trasformazione delle navi troiane in Ninfe marine, nell’interpretazione fuorviante di Turno): il participio exspectans (Giove) di M è preferito (in modo plausibile, per il significato) all’indicativo exspectant (i Troiani) di P, del Vaticanus lat. 3225 (F) e del Romanus (R), accolto dai principali editori. Ugualmente coraggiosa la scelta a IX, 486-487, nec te tua funera mater / produxi (dal lamento della madre di Eurialo): la lezione manoscritta funera, confermata anche dalla tradizione indiretta (Servio, Macrobio, Tiberio Claudio Donato), è recuperata credibilmente a scapito della congettura funere, che risale a Bembo e piace ai maggiori editori moderni (Mynors, Hardie, Goold, Conte); tuttavia la conservazione della lezione manoscritta richiederebbe una revisione della punteggiatura, con l’aggiunta di una virgola tra te e tua.

X, 244-245, crastina lux, mea si non inrita dicta putaris, / ingentis Rutulae spectabit caedis aceruos (dalla profezia di Cimodocea a Enea): Servio conosce l’esistenza delle due lezioni spectabit (R) e spectabis (M, P e Veronensis = V) e propende nettamente per la prima; il Servius auctus riconduce la seconda a Velio Longo, a conferma dell’origine antica della corruzione. La presenza di altre apostrofi rivolte a entità naturali o inanimate (personificate) nell’ Eneide ha favorito la diffusione della forma spectabis nella tradizione manoscritta e potrebbe perfino deporre a suo favore; tuttavia tale forma rischierebbe di sembrare maldestramente appaiata col precedente putaris (riferito senza dubbio a Enea), da cui paradossalmente può aver avuto origine la corruzione. Il contributo degli eruditi antichi non è meno importante a X, 444, socii cesserunt aequore iussi (gli uomini di Turno, che obbediscono al suo comando di lasciare il campo di battaglia): la tradizione manoscritta offre la lezione iusso (concordato con aequore), che Servio interpreta pro ipsi iussi; con questa spiegazione collima la congettura iussi, che compare nell’edizione Aldina del 1501 ed è accolta da Harrison e Goold, mentre la lezione manoscritta (ritenuta evidentemente difficilior) continua a figurare nelle principali edizioni moderne. D’altronde mi chiedo per quale motivo, se proprio si vuole regolarizzare, non si opti per il più semplice e ovvio iussu.

XI, 81-82, uinxerat et post terga manus, quos mitteret umbris / inferias caeso sparsuros sanguine flammas (i giovani catturati da Enea per offrire un sacrificio umano al defunto Pallante): la lezione sparsuros dei codici del secolo IX, avallata dalla spiegazione di Tiberio Claudio Donato (uinciri praecepit ea ratione, ut rogi Pallantei flammas suo sanguine spargerent) più che dal parallelo omerico citato in apparato (Il. XXIII, 181-182, dove Achille dice che il fuoco divorerà i giovani destinati al sacrificio sul rogo di Patroclo), mi pare effettivamente migliore di sparsurus (scil. Enea), che pure è presente nella maggior parte della tradizione manoscritta; infatti non sarà Enea ad amministrare il barbaro rito, il cui compimento è passato deliberatamente sotto silenzio da Virgilio. Sull’aderenza alla tradizione manoscritta, oltre che sulla regolarità della forma, si basa invece la scelta di XII, 605, filia prima manu flauos Lauinia crinis / et roseas laniata genas (quando la ragazza apprende il suicidio della madre): la lezione manoscritta flauos, che potrebbe sembrare facilior, è preferita (con i principali editori moderni, da Mynors a Geymonat, da Perret a Goold, compreso Giancotti, pur con qualche dubbio) alla variante di tradizione indiretta floros, che Servio definisce antiqua lectio spiegando: id est florulentos, pulchros, et est sermo Ennianus — tuttavia Conte accoglie quest’ultima, al seguito di M. L. Delvigo (Testo virgiliano e tradizione indiretta. Le varianti probiane, Pisa 1987, 81-96) e di S. Timpanaro (Virgilianisti antichi e tradizione indiretta, Firenze 2001, 77-93).

Per la traduzione, mi piace citare l’ultimo monologo di Didone (IV, 651-662), che mette alla prova la sensibilità più ancora che la competenza del traduttore, per il vibrante contrappunto di note solenni e note patetiche, note struggenti di nostalgia e note frementi di rabbia, in un sussulto di orgoglio che agonizza e declina nel rimpianto, per poi risollevarsi e raggiungere il culmine nel proposito suicida:

‘dulces exuuiae, dum fata deusque sinebat,
accipite hanc animam meque his exsoluite curis.
uixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,
et nunc magna mei sub terras ibit imago.
urbem praeclaram statui, mea moenia uidi,
ulta uirum poenas inimico a fratre recepi,
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae!’
dixit, et os impressa toro ‘moriemur inultae,
sed moriamur’ ait. ‘sic, sic iuuat ire sub umbras.
hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis’.

“Despojos dulces mientras destino y dios lo permitía, / recibid esta alma y libradme de estas cuitas. / Viví y al cabo recorrí la jornada que Fortuna me diera / y ahora una imagen grande de mí irá bajo las tierras. / Fundé una ciudad preclara, vi mis propias murallas, / por vengar a mi esposo castigo recibí de mi enemigo hermano, /feliz ¡ay de sobra feliz, sólo con que jamás / carenas dardanias hubieran arribado a nuestras costas!’ / Dijo, y clavando su boca sobre el lecho: ‘Moriremos sin venganza, / pero muramos’ dice. ‘Así, así me place marchar bajo las sombras. / Desde alta mar engulla con sus ojos este fuego el cruel / dárdano y consigo porte el augurio de nuestra muerte’.

Come si vede, il testo spagnolo è così fedele da consentire un riscontro quasi uerbum de uerbo (quando è possibile, finanche la disposizione delle parole coincide), senza degenerare però nel ricalco meccanico. Al contrario, l’andamento sintattico e ritmico tende a riprodurre il flusso dei sentimenti e, in certa misura, ci riesce. Qua e là si può avanzare qualche riserva, e.g. sull’espressione “una imagen grande de mí”, dove forse sarebbe stato preferibile l’articolo determinativo, non soltanto per un motivo congiuntamente linguistico e culturale (tale immagine è l’ umbra, che corrisponde alla persona nella sua unicità), bensì per rendere più solenne il tono di quel particolare snodo del discorso.

Le note di commento talvolta sono felicemente congruenti, con riferimenti puntuali ed essenziali a problemi specifici e con richiami bibliografici pertinenti. Qualche esempio dal vol. II: p. 4, n. 1, sulla passione amorosa di Didone; p. 41, n. 192, su IV, 436 (ma non ugualmente bene p. 42, n. 197, sul v.449, dove sfugge l’ambiguità dell’espressione lacrimae uoluuntur inanes); pp. 80-81, n. 83, sulla clamide dorata donata da Enea al vincitore della regata nautica (V, 250 ss.). Particolarmente accurate risultano le note ai libri VII, VIII e IX (vol. III), di argomento geografico, etiologico, storico-culturale e antropologico (città e popolazioni italiche, leggende e tradizioni arcaiche etc.). Talvolta, invece, le note rivelano una certa superficialità, un’eccessiva sinteticità e qualche lacuna bibliografica, soprattutto per il libro VI, che per la pregnanza e la complessità dell’argomento avrebbe meritato più spazio e, almeno in alcuni punti (come gli episodi di Palinuro, Didone e Deifobo, nonché l’esposizione filosofica di Anchise), una maggiore attenzione. Una carenza, questa, non imputabile all’Autrice, ma alla mole dell’opera, che fornisce comunque una visione d’insieme dell’Eneide largamente attendibile e apprezzabile.