L’opera di Catherine Collobert, pubblicata nella prestigiosa collana delle “Études anciennes – Les Belles Lettres”, consiste in un’approfondita e documentata discussione di una tesi universalmente nota, enunciata così nell’introduzione (p. 11-26): “l’éthique héroïque repose essentiellement sur la quête d’immortalité”, la quale si può considerare “le résultat de la conscience de la vulnérabilité et de la brièveté de la vie humaine” (p. 13). L’Autrice propone un’interpretazione filosofica dell’epica omerica, senza tuttavia riconoscervi “une philosophie implicite”, ma “l’intention de dire des vérités sur l’expérience et la condition humaines”, intenzione che trova espressione in “une compréhension singulière du monde” (p. 21).
La parte I (“Représentations et expériences héroïques du temps”, p. 27-94) esamina la concezione omerica del tempo in una duplice prospettiva: come rappresentazione cosmogonica e cosmologica e come tempo vissuto dagli eroi (in base alla loro percezione ed esperienza). La spartizione del cosmo tra gli dèi olimpici, che costituisce “l’instauration d’une juridiction politique autant que cosmique” (p. 34), segna una distinzione fondamentale e definitiva: il cielo è il luogo dell’immortalità, mentre “la terre est le lieu du devenir cyclique où le temps signifie pour les êtres qui la peuplent une durée limitée” (p. 36). La circolarità del tempo è identificata con la successione periodica delle stagioni e delle generazioni umane, paragonate alle foglie che cadono e si rinnovano di anno in anno. Tuttavia gli eroi possiedono anche un’altra percezione del tempo, quella lineare, che trova espressione nelle genealogie, a indicare che “le présent est vécu dans la continuité du passé” (p. 47).
Il tempo lineare o diacronico è irreversibile: la giovinezza non ritorna ed è rievocata con nostalgia; nemmeno gli dèi possono prolungare il tempo limitato degli uomini, come dimostra l’episodio di Sarpedone, che Zeus tenta invano di sottrarre alla morte. Il tempo lineare comporta un margine di incertezza, che spesso dipende dall’intervento divino. Ma tale imprevedibilità fa apparire il futuro come un “contenitore vuoto”, che l’uomo è sollecitato a riempire con le proprie imprese: “l’avenir est donc dans une certaine mesure entre les mains du héros”, che si trova “en prise ou en tension permanente avec le présent” (p. 65-66). Al concetto di “temps vide à remplir” corrisponde quello complementare di “temps destinal” o “temps-contenu”, che è “un temps porteur d’événements” (p. 77-78), regolato dal destino, “dont l’activité essentielle est d’apporter la mort” (p. 83). Tuttavia la morte non è concepita tragicamente dall’eroe, il quale “se donne le moyen de la dépasser” (p. 94).
La parte II (“L’éthique héroïque: maîtriser le temps”, p. 95-154) muove dalla premessa pregnante che “la posture héroïque n’est cependant pas une posture tragique puisque le héros se sait mortel et se soumet à son destin de mortel” (p. 96). L’uomo quindi, se da una parte accetta la propria natura limitata ed effimera, dall’altra tenta di superarla con la conquista della gloria, che costituisce una risposta alla coscienza della finitudine, nella misura in cui consente di attingere “une immortalité qui consiste non pas à vivre une vie sans fin, mais à ne pas être oublié”: la ricerca della fama si presenta “sous la forme d’une lutte contre l’oubli” (p. 129). Gli eroi aspirano a compiere grandi imprese, che richiedono qualità eccezionali e specialmente la prudenza, definita “une habilité à se mouvoir dans un monde instable et changeant” (p. 98). La prudenza richiede comprensione della situazione e coscienza di sé, consapevolezza delle proprie qualità e della possibilità di affrontare determinate difficoltà; padronanza di sé, capacità di dominare sentimenti e impulsi istintivi; infine attitudine a prevedere le conseguenze delle azioni. La descrizione di tale fenomenologia interiore rivela lo spessore psicologico dei personaggi omerici, che a torto è stato negato, in passato, da B. Snell: infatti l’eroe, pur non possedendo un concetto di sé pienamente consapevole, manifesta pur sempre “un ensemble de dispositions, de traits de caractère, de capacités, d’intérêts qui constituent sa personnalité” (p. 103). Da questa vita interiore scaturisce altresì la libertà dell’eroe, vale a dire “celle qui permet au héros de prendre une décision sur la base de raisons et de justifier son action, donc de la faire sienne” (p. 134).
D’altra parte la scelta di vita orientata alla ricerca della gloria non è puramente autoreferenziale, ma si realizza “en fonction des figures de l’altérité” (p. 145): il giudizio degli altri costituisce per l’eroe “un guide pour l’action” (p. 149). Si perviene dunque a una nuova formulazione della definizione di “shame-culture”, risalente a R. E. Dodds: la vergogna, non necessariamente suscitata dalla presenza degli altri, ma interiorizzata e identificata col giudizio che l’eroe ha di se stesso, “est une remise en question de l’image de soi, et par conséquent, le moment d’une autocritique de la part du héros” (p. 150). Anche l’idea di un’etica eroica esclusivamente individualistica è revocata in discussione alla luce dell’importanza della “compassione”, che è “une force contraignante, inhibitrice” rispetto agli impulsi egoistici, “qui pousse le héros au respect et au souci de l’autre” (p. 151). L’ideale eroico si pone quindi in un precario equilibrio tra interesse individuale e collettivo.
La parte III (“L’épopée: une poétique du temps”, p. 155-228) verte principalmente sulla funzione della poesia, che possiede “la capacité à transformer le mortel en immortel” (p. 156) mediante una trasfigurazione o sublimazione delle imprese umane, interpretate e presentate come gesta eroiche: l’epica si caratterizza come “une totalité poétique où éléments réels passés et présents et éléments poétiques se juxtaposent” (p. 161). Il racconto si sviluppa su quattro piani che si avvicendano e si intersecano: il piano degli avvenimenti, che si identifica con i diversi punti di vista dei personaggi; quello del narratore, che si inserisce di tanto in tanto a commentare gli eventi; il piano dei racconti esposti dai personaggi stessi; infine il piano “metanarrativo”, che svolge la funzione di “mettre en lumière l’acte narratif, c’est-à-dire la production du récit primaire” (p. 169). L’esame del realismo omerico, fondato su determinati procedimenti (come l’invocazione alla Musa a garanzia di verità, la tecnica delle descrizioni, l’attenzione per le genealogie e l’aneddotica biografica), riprende e integra utilmente il discorso condotto a suo tempo da E. Auerbach.
Tanto l’eroe quanto il poeta sono resi immortali dall’epos, la cui sopravvivenza tuttavia presuppone una condizione necessaria: “l’enchantement”, l’effetto estetico che affascina e avvince il pubblico, il quale “prend plaisir à écouter des récits de souffrances et de mort, comme plus tard l’auditoire de la tragédie” (p. 196). L’apprezzamento estetico richiede, da un lato, che il pubblico non sia coinvolto realmente nei fatti narrati (come Ulisse, che non riesce a provare piacere per il canto di Demodoco, pur riconoscendone il valore), dall’altro lato, che esso si identifichi emotivamente con i personaggi, provando “satisfaction intellectuelle et morale” (p. 205). L’interesse si sofferma poi sugli espedienti adoperati dal poeta per suscitare “l’engagement émotionnel” del pubblico, specialmente l’apostrofe, che svolge una funzione di intensificazione patetica, ma serve anche a “modifier le point de vue sur la scène en focalisant sur ce que voit et éprouve le personnage et non plus le narrateur” (p. 209).
Il coinvolgimento emotivo del pubblico non è funzionale a un piacere estetico fine a se stesso: esso fornisce piuttosto un orientamento etico, quasi un insegnamento morale: l’ Iliade appare “la mise en récit d’un mouvement émotionnel qui va de la colère à la pitié et dont le but est de conduire l’auditeur à privilégier une vision coopérative du monde” (p. 212), ossia la visione che emerge dalla conclusione, quando Achille restituisce al vecchio Priamo il corpo di Ettore. L’antitesi tra ira e pietà è ugualmente importante nell’ Odissea, che si chiude anch’essa con una nota di pacificazione (una volta consumata la necessaria e legittima vendetta di Ulisse sui Pretendenti): “les deux épopées s’achèvent sur un monde où règnent sérénité, stabilité et justice” (p. 225).
Di conseguenza l’Autrice, nella conclusione generale (p. 229-239), tira le somme su una concezione innovativa dell’epica omerica come “réflexion générale sur la condition humaine” (p. 229-230), che esprime una valutazione critica (se non propriamente negativa) sulla morale aristocratica, finalizzata alla conquista della gloria come affermazione individualistica e violenta, la cui sede privilegiata è la guerra. Ecco il “paradosso di Omero”: da un lato, il giudizio disforico sui valori guerrieri; dall’altro, la celebrazione degli eroi che li coltivano con successo, fino ad attingere l’immortalità. Dunque “l’épopée se présente à la fois comme la justification d’une éthique fondée sur la recherche de la renommée […] et en même temps comme une critique de l’entreprise héroïque” (p. 233). Un paradosso superabile soltanto se si considera che “la distance critique du poète à l’égard de la geste héroïque lui confère une autorité morale qui non seulement légitime son rôle d’éducateur, mais donne à son œuvre une couleur singulière, objet d’une expérience esthétique unique” (p. 235).
Come si vede da questa breve esposizione, a partire da un assunto ovvio e perfino banale (nell’epica omerica la conquista dell’immortalità si fonda sulla celebrazione poetica della gloria) si sviluppa un discorso critico approfondito e ricco di spunti innovativi, che spazia abilmente tra diversi aspetti dei due poemi, fino a riconsiderarne in modo originale e provocatorio i caratteri specifici e il significato ultimo. L’argomentazione filosofica, condotta con rigorosa consequenzialità, è talvolta coadiuvata e confermata da sottili e precise analisi linguistiche (e.g. p. 69-77, 118-120).
Nondimeno sento di dover sollevare due punti di dissenso sul piano metodologico. Il primo riguarda il restringimento di campo su Omero quale testimone e interprete esclusivo del quadro culturale che va dal periodo miceneo al secolo VIII: gettare di tanto in tanto lo sguardo a Esiodo e magari al ciclo epico poteva risultare utile, talvolta a conferma, talaltra a parziale rettifica delle osservazioni basate sull’epica omerica. Infatti i poemi ciclici, nonostante siano stati fissati per iscritto più tardi (tra il secolo VIII e l’inizio del VI) con un processo compositivo lungo e complesso, contengono materiale risalente al medesimo sostrato culturale dell’epos omerico; lo stesso vale per Esiodo. Per esempio, le due distinte concezioni del tempo vigenti nell’età arcaica, quella lineare e quella ciclica, sono rappresentate con chiarezza esemplare nella struttura delle due opere esiodee, rispettivamente la Teogonia e le Opere. A proposito del fatto che, sebbene l’invocazione alla Musa ponga la narrazione sotto l’autorità divina, il poeta rivendica “un rôle actif dans la mise en récit des événements, autrement dit, dans la composition du chant” (p. 167), si poteva confrontare l’incipit di (almeno) un poema ciclico, in cui il poeta parla in prima persona e si assume la piena responsabilità del canto ( Ilias parua, fr. 1 Davies = 28 Bernabé; vd. Orazio, Ars 137). L’altra obiezione concerne invece la prospettiva unitaria o sincronica adottata nell’analisi dell’epica omerica, di cui non è tenuta in considerazione la composizione stratificata e, in parte, eterogenea: i due poemi sono inquadrati nello stesso sistema di valori estetici e morali (in base a una costruzione critico-letteraria risalente alla filosofia aristotelica e alla filologia alessandrina). Tra l’ Iliade e l’ Odissea sembra non esserci alcuna evoluzione etica e ideologica; le incoerenze interne di ciascuna delle due opere sono completamente ignorate. Un unico esempio, che mi pare illuminante: l’episodio di Achille nell’Ade ( Od. XI, 471 ss.), dove egli rinnega il proprio ideale eroico per il rimpianto della vita perduta, è considerato uno sviluppo successivo o un epilogo del racconto iliadico, di cui fornisce addirittura una chiave di lettura (p. 128 e passim). Sembra che Achille riconsideri il proprio passato in termini radicalmente diversi o, meglio, che Omero riveli il senso ultimo dei fatti soltanto a posteriori. È più probabile, però, che quell’episodio sia stato concepito in un periodo lontano alcuni decenni dal resto del poema e rispecchi perciò un modo di sentire estraneo all’epos omerico.
Tuttavia la recensione non si deve concludere con tali critiche. Occorre infatti ribadire che si tratta di un libro di notevole spessore, che interessa e arricchisce tanto il filologo quanto il filosofo, tanto lo studioso di Omero quanto lo storico del pensiero antico. L’opera comprende, oltre che un’ampia bibliografia, gli indices locorum e nominum et rerum.