BMCR 2011.10.45

Wille und Handlung in der Philosophie der Kaiserzeit und Spätantike. Beiträge zur Altertumskunde, Bd 287

, , Wille und Handlung in der Philosophie der Kaiserzeit und Spätantike. Beiträge zur Altertumskunde, Bd 287. Berlin/New York: De Gruyter, 2010. viii, 337. ISBN 9783110221312. $140.00.

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Il volume raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Bonn tra il 6 e il 9 luglio 2008, dedicato al tema del libero arbitrio nella filosofia tardoantica: i convegnisti si proposero di vedere in che misura tale nozione filosofica possa essere rintracciata nei pensatori che precedettero Agostino. Il volume si articola quindi in quattro sezioni: nella prima si affrontano autori stoici, nella seconda compare un lungo saggio dedicato al peripatetico Alessandro di Afrodisia, nella terza sono presi in esame filosofi neoplatonici, nella quarta i filosofi ‘cristiani’. Dodici saggi sono scritti in tedesco, uno in inglese.

Dopo una introduzione ai temi del volume, firmata dai due curatori, C. Jedan (‘Göttliches und menschliches Handeln in der frühen Stoa’, pp. 25-44) si interroga sul pensiero del primo stoicismo intorno al libero arbitrio e al determinismo. L’autore fa alcune considerazioni circa il metodo dell’indagine storiografica, che deve evitare gli anacronismi che derivano dall’uso di categorie moderne per leggere i testi antichi (egli intende favorire il ‘Cambridge contextualism’, contro una lettura attualizzante dalla quale non sarebbero immuni, a suo giudizio, gli studi di R. Salles e M. Schallemberg: cfr. n. 14 a p. 29); Jedan ritiene che un’analisi storicamente accurata ci porti a concludere che i primi stoici non vedevano come confliggenti due tesi cruciali da loro formulate, ovvero (a) esiste il destino (εἰμαρμένη), che determina ogni fatto che accade nell’universo, e (b) uomini e dei sono liberi nel loro agire. Secondo Jedan, è verosimile ‘dass den Stoikern die Tatsache, dass sie tatsächlich eine ganze Bandbreite von Rhetoriken verwendeten, gar nicht bewusst gewesen sein dürfte’ (p. 43).

J. Müller (‘ “Doch mein Zorn ist Herrscher über meine Pläne” — Willensschwäche aus der Sicht der Stoiker’, pp. 45-68) si chiede se si possa parlare di ἀκρασία fra gli Stoici: la letteratura si è divisa infatti su questo punto, dal momento che la psicologia unitaria e intellettualista degli Stoici sembra potere spiegare con fatica questo fenomeno, che tuttavia è di esperienza così diffusa che pare difficile poterlo semplicemente negare. Müller osserva che gli Stoici hanno introdotto due modelli per spiegare l’ἀκρασία: il modello dell’oscillazione diacronica e il modello della persistenza sincronica. Secondo il primo, in tempi successivi si presentano rappresentazioni successive e fra loro opposte di ciò che è giusto fare, rappresentazioni a cui la ragione dà il suo assenso (un esempio di questo atteggiamento può essere l’avvicendarsi dei pensieri di Medea in Eur. Med. 1042-62). Soltanto il secondo, secondo Müller, riesce tuttavia a dare conto dell’ἀκρασία, pur collocando tutto il conflitto tra volontà all’interno dell’anima razionale, in contrasto quindi con la prospettiva platonica.

T. Fuhrer (‚Wollen oder Nicht(-)Wollen. Zum Willenskonzept bei Seneca’, pp. 69-94) passa in rassegna numerosi testi senecani in cui occorrono termini legati all’area semantica di uelle e di nolle. La conclusione che la studiosa ricava è che in Seneca l’uso denota che i verbi si riferiscono a un volere inteso come capacità psicologica di porre in atto una decisione (‘Antirebspotential’), non tanto alla riflessione e alla decisione tra una serie di scelte possibili (‘Dezisionsvermögen’). Interessante l’analisi della Fedra senecana (vv.177-180), in cui Fuhrer mostra come lo stoico romano (a differenza, ad esempio di un Agostino) non ponga la decisione come una scelta tra bene e male, ma come un conflitto fra capacità e incapacità di realizzare l’unico ‘Wertmaßstab’ riconosciuto dal poeta-filosofo.

R. Hofmeister Pich (‘Προαίρεσις und Freiheit bei Epiktet: Ein Beitrag zur philosophiscen Geschichte der Willensbegriff’, pp. 95-127) si sofferma in primo luogo sulla teoria stoica dell’azione, spiegando che essa non sembra dare molto peso alla προαίρεσις. Epitteto tuttavia fa di questa nozione un elemento cruciale della sua filosofia. A giudizio di Epitteto tutte le cose che sono in nostro potere (τὰ ἐφ᾿ἡμῖν) cadono nell’ambito della προαίρεσις, la quale infatti ha per oggetto ‘der Inbegriff der Entscheidung, die rationale Zustimmung zu einem Trieb zum Handeln’ (p. 104). Hofmeister Pich indaga poi il legame che Epitteto stabilisce tra προαίρεσις ed ἐλευθερία (cfr. Epict., Diss., IV, 1, 56, 262-263), suggerendo che la libertà non deve essere intesa in senso socio-politico, ma nel senso del dominio di ciò che dipende da noi: di qui il legame tra le due nozioni.

B. Strobel dedica un saggio piuttosto ampio al De fato di Alessandro di Afrodisia (‘Zur Konzeption von τὸ ἐφ᾿ἡμῖν bei Alexander von Aphrodisias’, pp. 132-174). Il saggio si divide in tre parti: Strobel passa in rassegna i significati di ἐφ᾿ἡμῖν nella letteratura coeva ad Alessandro di Afrodisia, cerca di definire cosa il termine significhi negli scritti del commentatore aristotelico ed espone le differenze tra gli usi di Alessandro e quelli degli Stoici. Strobel chiarisce puntualmente che il nodo della questione, per Alessandro, si può ridurre a questo: è possibile che alcune cose siano ἐφ᾿ἡμῖν e che al tempo stesso sia vera la tesi stoica, secondo la quale tutto ciò che accade, accade secondo il destino (καθ᾿εἱμαρμένην, ‘dem Schicksal gemäß’)? Per non negare la libertà umana, Alessandro raffina la tesi stoica in questo senso: tutto ciò che accade avviene secondo il destino, nel senso che avviene secondo natura (cfr. De fato 169, 18-23; p. 138). Strobel, nella sua analisi ricchissima di dettagli, conclude tuttavia che la definizione alessandrista di ciò che avviene ἐφ᾿ἡμῖν non è poi molto diversa da quella stoica. Il saggio di Strobel è sicuramente pregevole e colpisce molto l’accuratezza con cui egli analizza i testi.

E. Eliasson, già autore di una monografia sulla nozione di τὸ ἐφ᾿ἡμῖν in Plotino ( The Notion of That which Depends on Us in Plotinus and its Background, Philosophia Antiqua 113, Leiden-New York, Brill, 2008), affronta lo stesso tema nel suo saggio ‘Aspects of Plotinus’ account of what is ἐφ᾿ἡμῖν’ (pp. 177-184). Eliasson osserva che Plotino trae da Alessandro l’idea per cui il destino è la natura – e da ciò inferisce che ciò che avviene ἐφ᾿ἡμῖν non avviene per natura. Plotino argomenta infatti che l’anima discesa nel corpo è in parte condiziata dagli oggetti fisici che la circondano ed in parte può condizionarli. Anche il saggio di Eliasson si segnala per la puntuale attenzione ai testi.

Nel suo breve saggio ‘Mensch und Freiheit in Plotins Enneaden ’ (pp. 195-209), R. A. Ullman si propone forse un obiettivo troppo ampio: dare conto schematicamente dell’antropologia plotiniana e della sua libertà, il cui vertice consiste nella ἕνωσις con l’Uno. Ullman sottolinea il carattere ‘antimoderno’ della proposta metafisica plotiniana (cfr. p. 208); il breve saggio di Ullman, verosimilmente uno degli ultimi che scrisse (cfr. p. 334) deve forse essere letto come un testamento filosofico da parte dello studioso, più che come un contributo alla comprensione del pensiero plotiniano.

F. Rey Puente (‚Kann man das eigene Ende wollen? Zum Problem des Freitods bei Plotin’, pp. 211-222) si interroga sul problema del suicidio (ἐξαγωγή) in Plotino. Rey Puente ritiene che ci sia stato uno sviluppo nella riflessione plotiniana sul suicidio, uno sviluppo parallelo all’affinamento della psicologia del filosofo neoplatonico. Nella sua seconda dottrina sull’anima, Plotino presenta l’anima non discesa come una forma indipendente e l’anima discesa nei corpi come la forma (in senso aristotelico) dei corpi. Quindi, mentre nei suoi primi scritti Plotino riteneva che il sapiente potesse separare lecitamente la sua anima dal corpo, successivamente il filosofo ritenne il suicidio lecito solo se l’anima non discesa trova una occupazione migliore. A me pare che i testi presentati da Rey Puente rendano probabile, ma non incontrovertibile, l’interpretazione che egli propone.

M. Abbate, affermato studioso di Proclo, presenta uno studio sulla volontà e l’azione nel pensiero di questo neoplatonico (‘Handlung und Wille bei Proklos: die Bedeutung und die Rolle der Teurgie und der Pistis’, pp. 223-236): il male, che in sé non esiste, nasce dalla frantumazione del reale. Con la teurgia l’uomo può ritrovare la sua unione col principio primo di tutto: in questo risiede il fine dell’azione del sapiente.

M. Perkams (‘Ethischer Intellektualismus und Willensbegriff. Handlungstheorie beim griechischen und lateinischen Origenes’, pp. 239-258) offre una illuminante analisi del concetto di θέλειν in Origene, in particolare nel commento del grande esegeta a Rm 7. Perkams osserva che Origene ha un concetto intellettualistico dello θέλειν, mentre la traduzione latina di Rufino appare fuorviante, nel restituire questa nozione, dal momento che utilizza in modo poco sistematico il latino uoluntas per restituire il termine greco.

J. Söder (‘Die Selbstmächtigkeit des Menschen: Nemesios von Emesa über das freie Entscheidungsvermögen’, pp. 259-275) riprende la posizione storiografica ormai tradizionale, secondo la quale il concetto moderno di ‘volontà’ si deve ad Agostino. Come si colloca in questo contesto il suo contemporaneo Nemesio, vescovo di Emesa? Per Söder il pensiero di Nemesio è a un punto di svolta e la sua προαιρετικὴ δύναμις ‘ist etwas, das wir als Wille bezeichnen würden’ (p. 272). La volontà opera libera fra alternative, anche se, a differenza di Agostino, Nemesio non la ritiene distinta dalla ragione. Il saggio di Söder è assai ben documentato e persuasivo.

T. Kobusch (‘Der Begriff des Willens in der christlichen Philosophie vor Augustinus’, pp. 277-300) compie un’interessante rassegna delle posizioni intorno al volere e al libero arbitrio di Padri della Chiesa come Cirillo di Gerusalemme, Efrem il Siro, Giovanni Crisostomo e Origene. Questi autori, impegnati a difendere la dottrina cristiana dalle critiche pagane o dalle eresie, dovettero dare ragione della ragionevolezza della punizione e del premio che Dio assegna ai cattivi e ai buoni. Si trovarono quindi nella necessità di elaborare una dottrina del libero arbitrio e di considerare questo dono come il più prezioso che Dio ha fatto agli uomini. Nel saggio di Kobusch non mancano interessanti accenni a temi che saranno poi ripresi da critici pagani come Simplicio (cfr. p. 296) e da filosofi medievali e moderni.

J. Lössl (‘Intellektualistischer Volontarismus—Der Willensbegriff Augustins von Hippo’, pp. 301-330) si chiede se Agostino fu volontarista o intellettualista. Partendo da De lib. arb. 3.1.2 ( (Augustinus:) Numquid negas eo motu [scil. uoluntate ] animum moueri? (Euodius:) Non nego’) si sarebbe tentati di classificare Agostino tra i filosofi volontaristi. E questa sarebbe stata l’ultima posizione del filosofo cristiano, che voleva in questo modo allontanarsi dall’intellettualismo platonizzante dei suoi primi scritti. Lössl ritiene tuttavia che Agostino non si sbagli nel ritenere di non avere cambiato posizione intorno al tema della volontà e del libero arbitrio. Lo studioso cerca quindi di mostrare quale potrebbe essere la posizione unitaria difesa dal vescovo di Ippona durante la sua carriera filosofica. Il saggio si segnala per il dettaglio e l’impegno dell’analisi.

La qualità dei contributi è davvero notevole, anche se varia; alcuni saggi possono più essere visti come pregevoli ‘surveys’ (penso in particolare ai lavori di Abbate e di Kobusch), mentre gli altri sono analisi di testi sempre ben argomentate e spesso non prive di notevole originalità. Ho segnalato le proposte che trovo meno persuasive; altri ne troveranno altre e forse non condivideranno i miei giudizi limitativi.

Come è d’uso nelle pubblicazioni dell’editore Walter De Gruyter, la qualità tipografica del volume è pregevole: i refusi sono rarissimi e tutti perdonabili (ad esempio a p. 60 abbiamo προπάθειαἱ e non προπάθειαι; p. 93 si legge “traduzione Senecana” e non “traduzione senecana”, a p. 201, n. 27 abbiamo “dependenza” invece di “dipendenza”; a p. 222 compare in bibliografia “Dillon 1944”, ma la data corretta è il 1994).

Nel complesso il libro è sicuramente riuscito e risulterà prezioso agli occhi degli studiosi del pensiero tardoantico.