BMCR 2011.10.30

Epistemologia greca del VI e V secolo a.C. Eraclito e gli Eleati

, Epistemologia greca del VI e V secolo a.C. Eraclito e gli Eleati. Rome: Aracne, 2011. 428. ISBN 9788854838932. €24,00.

Il corpo del volume è dato da capitoli così intitolati: “Le intuizioni di Eraclito”, “Le dimostrazioni di Parmenide”, “Le ragioni di Zenone”, “Gli equivoci di Melisso”, nonché da due capitoli di contorno. Seguono testo e traduzione dei frammenti dei quattro autori qui studiati, bibliografia, index locorum, index nominum e indice degli argomenti trattati.

Idee innovative caratterizzano ampie sezioni dell’opera e sono degne di nota. Leggiamo, ad es., che «Nelle pagine che seguono intendo mostrare che si possono leggere i frammenti di Eraclito come espressione di una precisa tesi epistemologica, che enuncia la natura inevitabilmente soggettiva della conoscenza umana. Eraclito ritiene che la presa di coscienza di questa realtà possa aiutare gli uomini a superare i loro punti di vista individuali, creando una prospettiva comune. Come accennato … Eraclito risulta così l’iniziatore di un paradigma epistemologico che si svilupperà, passando per gli Eleati, fino ai Sofisti» (59); secondo Eraclito «sia la conoscenza, sia il comportamento (etica, leggi) reagiscono come possono a condizioni che l’uomo non controlla e che trascendono le leggi umane» (89 s.). Questa interpretazione è innovativa in quanto ravvisa in Eraclito non teorie con cui provare a rendere conto del mondo e dell’uomo, ma una (meta)riflessione sulle insidie del pensare, sui passi falsi con i quali dobbiamo sempre fare i conti e sulle limitate possibilità che abbiamo di uscire dal vortice delle opinioni soggettive. Ora, siccome una lunga tradizione interpretativa ha puntato, invece, a identificare dottrine positive di Eraclito, la sua proposta si configura quale invito a ripensare il suo pensiero su basi completamente nuove.

Anche in Parmenide Calenda vede anzitutto un intellettuale impegnato a marcare la distanza tra verità deduttiva e intrinseca precarietà delle opinioni legate all’osservazione: «Credo che Parmenide avrebbe sicuramente proseguito lungo il sentiero della verità certa, se avesse ritenuto di poterlo fare; ma cos’altro è mai possibile dedurre logicamente dal concetto di essere come formulato da Parmenide? Non rimangono dunque a noi mortali che le opinioni che la dea invita ad apprendere. … L’ordine è ingannevole perché il discorso della dea da questo punto in poi non ha più le garanzie della verità, non segue più rigorose deduzioni logiche … L’ordinamento non è errato, ma può ingannare » (176 s.). Di nuovo, salvo a proporre anche una rassegna particolarmente pregevole delle doxai parmenidee, l’autore addita la centralità della riflessione su limiti del sapere di cui siamo capaci.

Con questa stessa logica Calenda propone di ravvisare in Zenone un parmenideo ortodosso i cui argomenti «mostrano che, se ammettiamo l’esistenza in sé degli oggetti e degli enti che gli uomini pongono, nascono inevitabili contraddizioni … Gli oggetti, gli enti non esistono in sé ma sono costruzioni mentali, concezioni umane» (263). Quanto a Melisso, Calenda indugia invece nel sostenere che «gli è completamente sfuggita l’intima coerenza delle argomentazioni di Parmenide» (197).

Ovviamente, questo primo colpo d’occhio necessariamente sorvola su numerosi contributi particolari che tuttavia sono degni di nota, come per esempio l’argomentata condivisione dell’integrazione (dovuta al Cordero) di ἄρξει in 28 B 5.3, o l’argomentata opzione per τὸ πλέον (28 B 16.4) nel senso di “pieno” e non di “più”, dettagli che ci parlano di competenze decisamente ‘alte’.

Su un piano più generale mi sembra di poter fare due o tre ordini di considerazioni. Io trovo semplicemente istruttivo il fatto che la nostra attenzione venga attirata sulla dimensione epistemologica del pensiero di Eraclito e Parmenide, dunque sul bisogno di capire anzitutto il fenomeno del capire e del non capire, delle opinioni ‘solide’ e di quelle precarie, con speciale attitudine a ‘lavorare’ sulle opinioni precarie. Calenda è tentato di spingersi a negare che Eraclito abbia avuto anche veri e propri insegnamenti, da proporre accanto a una serie di pregevoli considerazioni di tipo epistemologico ante litteram, ma si direbbe ammissibile anche l’affermazione del contrario (che Eraclito ebbe degli insegnamenti), pur mantenendo la sottolineatura della sua specialissima sensibilità per le insidie del sapere. In effetti ho difficoltà a seguire il Calenda quando si spinge a negare che si possa parlare di una ‘dottrina’ della coincidentia oppositorum. Invero, nel capitolo su Eraclito – che, per la mia sensibilità, è il migliore di tutta l’opera – scompaiono dalla vista anche i non molti elementi della cosmologia eraclitea (una idea del mondo sicuramente vicina a quella di Senofane ed Anassimene). Pertanto, specialmente dopo l’uscita dei Placita, il cospicuo volume che Mouraviev ha dedicato alle sole testimonianze sulle ‘dottrine’ eraclitee (S. N. Mouraviev, Heraclitea, III.2, 2008), è virtualmente impossibile non ribadire che diverse ‘dottrine’ eraclitee sono sicuramente individuabili.

Al confronto, la sezione su Parmenide è già più sfumata. I contributi di tipo epistemologico, qui posti in piena evidenza, hanno attitudine ad essere trattati come un ulteriore livello del suo insegnamento, non come la sua preoccupazione unica o primaria. La competente interpretazione proposta prende posizione su numerose questioni controverse e in generale è partecipe della tendenza, affermatasi di recente, a non liquidare superficialmente tutto il sapere concentrato nel secondo logos, quindi le dottrine riguardanti la configurazione del cosmo, il sapere intorno al mondo della vita, le spesso dimenticate riflessioni su mente, pensiero, anima e l’interazione corpo-mente. Però, ancora una volta, avevamo proprio bisogno che ci venisse segnalata l’esistenza di un sapere di tipo epistemologico di Parmenide: un sapere inteso, peraltro, non come sensibilità più o meno spiccata per le dinamiche del sapere ma come una riflessione strutturata intorno ai limiti della condizione umana. Calenda da un lato ci invita a ravvisare nel fr. 8 non l’acquisizione di certezze su ciò che trascende l’umano ma l’acquisizione di certezze sull’insanabile incommensurabilità fra essere e mondo degli uomini, dall’altro ci invita a ravvisare nel fr. 16 la teorizzazione di «un legame tra lo stato cognitivo dell’uomo e il suo stato fisico, rappresentato dalla disposizione delle membra» (211). In effetti pensare questo equivale ad abbattere un tabù e disporsi a sospettare che siamo stati educati a vedere un solo aspetto della multiforme personalità culturale del maestro di Elea e, di conseguenza, a ragionare come se certe altre componenti semplicemente non fossero osservabili.

Osservo inoltre che Calenda, come moltissimi altri studiosi, si è completamente disinteressato della dimensione comunicazionale dell’opera di questi antichi maestri, tanto da non aver niente da dire sulla loro straordinaria creatività nel comunicare. So bene che mi accingo a parlare di una tematica sulla quale si registra, tuttora, una estrema penuria di contributi specifici (in effetti qualcosa su Zenone c’è, ma temo che su Melisso sia disponibile solo qualche pagina del volume di Flavia Marcacci, Alle origini dell’assiomatica: gli Eleati, Aristotele, Euclide, Roma 2009 2), e ciò vale dunque come robusta attenuante. Ma in gioco non sono delle innocue elegantiae; infatti a Zenone e Melisso si dovrebbe riconoscere il non piccolo merito di aver inventato e messo a punto il linguaggio dell’argomentazione inteso quale linguaggio controllato e controllabile in base a schemi di ragionamento, cioè di aver gettato alcune essenziali fondamenta di quella che, appena più di un secolo dopo, diverrà la logica formale. Già nel fr. 1 Zenone dà prova di saper fare un discorso così ben oggettivato da riuscire a rappresentarselo e, inoltre, a comporlo (o scomporlo). In questo frammento compare infatti una frase, a mio avviso strepitosa, che suona così: καὶ περὶ τοῦ προύχοντος ὁ αὐτὸς λόγος, “il medesimo ragionamento si applica anche a ciò (alla parte) che gli sta davanti”, in altre parole: “potrei ripetere ogni volta il medesimo argomento”. Ciò dimostra, se non erro, che Zenone è cosciente di avere a disposizione uno o più logoi già strutturati, logoi oggettivati e pronti per essere proposti di nuovo e a più riprese, senza alcun bisogno di rimodularli ogni volta. Chiaramente, questi logoi sono ben altra cosa dei proemi e delle perorazioni raccolti da Antifonte, sono enunciati, nuclei argomentativi identificati dalla funzione logica, i quali nulla o quasi nulla aggiungono alla particolare funzione logica che sono chiamati a svolgere. Mi pare dunque di primaria importanza rilevare che Zenone fu innovativo anche per il fatto di saper individuare delle tessere argomentative replicabili. Perché mai tacere di una benemerenza così memorabile proprio mentre l’informatica celebra i suoi tronfi?

A sua volta Melisso ci ha semplicemente insegnato a costruire un discorso totalmente astratto e formalmente disciplinato, ossia articolato in passaggi argomentativi del tutto trasparenti nella loro architettura logica (un’altra conquista semplicemente memorabile, eppure comunemente ignorata). Poi provvide Gorgia nel Peri tou mē ontos a proporre unità discorsive sottoposte a un controllo formale non meno rigoroso, e l’esempio successivo lo troviamo nella seconda parte del Parmenide di Platone. Ora ciò dimostra che l’insegnamento formale di Melisso ha fatto scuola ed è stato percepito come paradigmatico. Di conseguenza, quand’anche i contenuti del suo insegnamento fossero stati mediocri (cosa di cui dubito), la magistrale architettura espositiva del suo pensiero costituirebbe pur sempre, io credo, una pietra miliare in quanto primo esempio di un pieno controllo cognitivo e logico-formale esteso ad unità testuali ampie. Non a caso, l’inaudito rigore formale di cui dà prova Melisso ha avuto fortuna, tanto che da lì ha preso le sue mosse, coscientemente o meno, tutto il linguaggio dell’ontologia, vale a dire un filone particolarmente significativo della storia della filosofia occidentale.

Ora sulla rappresentazione fortemente riduttiva di Melisso, che Calenda ha condiviso con una lunga tradizione storiografica, pesa la scelta di occuparsi dei soli insegnamenti espliciti malgrado la dottrina appaia fortemente condizionata dall’alto grado di creatività comunicazionale raggiunto. Discorso analogo potrei fare nel caso di Zenone, essendo contestabile la scelta di assumere che egli abbia qualcosa da insegnare, anzi che abbia un preciso insegnamento positivo, malgrado questo suo supposto insegnamento positivo non venga in alcun modo alla luce. Bisognerebbe infatti distinguere accuratamente tra le innovative – e istruttive – nozioni che Zenone introduce e usa, l’inedito controllo formale degli argomenti che egli propone e i demonstranda che egli difende. Questi ultimi non sono degli insegnamenti, io credo, perché l’autore non fa nulla per indicarci come si dovrebbero decodificare i suoi paradossi.

Mi soffermerò, per concludere, su un’altra dichiarazione di Calenda: «È possibile che Parmenide avesse già formulato le sue opinioni scientifiche o parte di esse, quando sentì la necessità di sviluppare le sue teorie epistemologiche, forse proprio a seguito dei dubbi che dovevano essersi manifestati durante il suo studio della natura» (179). Questa affermazione merita, io credo, di essere soppesata accuratamente e forse sottoscritta. Ho due o tre argomenti a favore: intanto il sapere di Parmenide sull’essere e il sapere sulla natura ci vengono proposti come già oggettivati e disponibili (costituiscono i due logoi che la dea ha preparato per il kouros), come due conquiste conoscitive già fatte e, ognuna a suo modo, condotte a buon fine. I due logoi ci vengono proposti anche come profondamente diversi, ed è interessante notare che Parmenide sa perfino attribuire loro un quoziente epistemico differenziato: uno altissimo e uno decisamente basso (ma viene puntualmente introdotta la concessiva ἀλλ᾽ ἔμπης: “ nondimeno ti spiegherò anche questo”, “ nondimeno preparati ad apprendere anche questo”, ed è la dea a dirlo). Inoltre i due logoi rimangono irrelati, non sorretti da apposite mediazioni, dunque, in ultima istanza, sono capaci solo di coesistere l’uno accanto all’altro. Ora siccome è evidente che il discorso sull’essere, malgrado la difficoltà del compito, eccita l’autore, viene percepito come la sua conquista più grande e lo appaga in modo particolarissimo, non si fantastica nel pensare che egli abbia prima dedicato anni a costruire il suo sapere peri physeōs propriamente detto e poi anni particolarmente eccitanti a costruire il suo sapere peri tou eontos.

Per queste e molte altre ragioni (inclusa l’accuratezza formale dei testi) considero questo libro del Prof. Calenda un contributo di considerevole pregio agli studi di settore, un contributo nel quale spicca, ripeto, il capitolo su Eraclito.