BMCR 2011.06.37

Meter Theon: die Göttermutter bei den Griechen. Peleus Bd 40

, Meter Theon: die Göttermutter bei den Griechen. Peleus Bd 40. Ruhpolding: Verlag Franz Philipp Rutzen, 2009. 175. ISBN 97839386462. €32.00.

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Partiamo dalle ultimissime parole del libro (precisiamo che si tratta del riassunto): “Bei der vorliegenden Untersuchung der Göttermutter bin ich methodisch anders vorgegangen als die bisherige Forschung: Mein Schwerpunkt war weniger die Ikonographie und die dichterischen Quellen (Pindar, Sophokles und Euripides), sondern mehr die Heiligtümer der Göttin. So gelangte ich zum Ergebnis, dass die Göttermutter bei den Griechen vielfältig war und Züge nicht nur der anatolischen, sondern viel mehr der spätbronzezeitlichen Gottheiten mütterlichen Charakters in sich hatte”. Leggendo queste affermazioni, ci si aspetterebbe molto da questo libro in quanto a originalità e a innovazione; invece i contenuti e l’economia del testo non si rivelano, purtroppo, all’altezza delle aspettative.

La scelta, evidente sin dall’Indice, di indicare la dea in questione sempre e solamente con l’epiteto Göttermutter è certamente carica di significato, se si considera la natura sostanzialmente anonima di questa divinità, concordemente ritenuta di origini anatoliche e conosciuta nel mondo greco-romano anche col nome Cibele, nome che, però, pur comparendo nella letteratura, non risulta mai utilizzato nei testi religiosi (inni o dediche votive). I Greci conobbero e venerarono essenzialmente una Meter, una Meter Theon oppure una Meter Megale. Questi, però, sono termini del tutto generici, che indicano soltanto la funzione della dea e che potrebbero essere attribuiti a molte divinità femminili del pantheon greco:1 essi non paiono adatti a identificare efficacemente un’entità divina personalizzata, distinta e definibile nella cornice di un politeismo strutturato. Qualcosa di singolare, evidentemente, caratterizza questa divinità sfuggente e poliedrica, venerata in epoca storica da Focea a Marsiglia; qualcosa che ha appassionato generazioni di studiosi. Se, dunque, l’onomastica è un elemento essenziale per capirne le origini e la natura, la scelta dell’autrice richiederebbe un’ampia spiegazione, di cui però si nota la mancanza. Non vengono per esempio mai menzionati i lavori di Brixhe e di Lejeune.2

Segnaliamo a questo proposito che nella bibliografia, pur abbastanza ricca, alcune opere fondamentali brillano per la loro assenza: pensiamo, in primo luogo, a Laroche, Will, Haspel, e ai più recenti Rein, Blomart, Berndt-Ersöz, Munn, Pirenne-Delforge,3 soltanto per citare i più noti e/o i più recenti. Anche il lavoro di Philippe Borgeaud è a malapena nominato, e soltanto con la sua opera più celebre;4 mentre quello di Giulia Sfameni Gasparro è utilizzato soltanto come bibliografia relativa ad Akrai.5 Queste mancanze si notano particolarmente nell’iniziale storia degli studi, ma condizionano fortemente tutto il volume.

Tornando alla scelta “onomastica”, i significati che essa implica si possono comunque facilmente arguire, così come si possono arguire altre opinioni della studiosa, che, però, non sempre vengono chiaramente esplicitate e sviluppate con la dovuta convinzione, insistenza e forza persuasiva. Alla fine di ogni capitolo ci sono alcuni poco significativi riassunti, ma mancano vere e proprie conclusioni. Così come mancano conclusioni chiare alla fine del testo: questo ci pare un limite non trascurabile.

L’altro importante contributo che emerge sin dall’Indice è la presenza di un vero e proprio catalogo aggiornato dei metroa, di cui si sentiva il bisogno nella letteratura relativa alla dea (si può consultare in alternativa soltanto il monumentale Corpus di Martin Vermaseren, che comprende tutta la documentazione metroaca fino al 1987, divisa per regioni).

La sintesi sembrerebbe, a prima vista, un merito considerevole del libro, ma spesso da frasi così concise non si riesce a comprendere con chiarezza il pensiero dell’autrice. Qualche parola in più non avrebbe guastato. Si legge, per esempio: “Kubaba war eine andere Göttin, die keine Rolle in der hethitischen Geneaologie der Götterherrscher spielte, sie gehörte nicht zu ihrem Kreis, sie war keine Göttermutter” (p. 13). Sulle origini della dea, come osserva giustamente l’autrice, gli studiosi si sono interrogati per tutto il XX secolo: un simile punto di vista è dunque assai interessante, ma andrebbe meglio e più ampiamente argomentato (anche se non si tratta del principale soggetto del testo).

Nel Capitolo successivo, la studiosa mette in discussione l’identificazione di alcune statuette arcaiche provenienti dall’Acropoli e di altro materiale coevo, nonché la presenza della dea nella grotta di Vari; per poi concludere, dopo alcune considerazioni sul noto episodio del metragyrtes, “an diesem für das Selbstbewußstein der Athener so wichtigen Ort ist die Präsenz der pessinuntischen Kybele nur schwer vorstellbar. Dagegen kann hier Rhea/Meter Theon angenommen werden. Sie war Mutter der Götter und Stammmutter der Ionier. Das Verhalten des Metragyrtes, der die Frauen der Athener im Kybelekult einweihte, war Grund genug, aitia, für die Athener, den Kult der eigenen alteingesessenen Gottheiten zu pflegen” (p. 24). Sostanzialmente si vuole sostentere che la Meter Theon dei Greci non è la dea frigia: esisterebbe invece una Göttermutter originariamente greca, il cui culto era ben radicato in tutta l’Ellade, sin dall’epoca minoica e micenea. Ne sarebbero prova l’esistenza di una meter teija nelle tavolette in Lineare B6 e il fatto che “sind viele Elemente schon in den minoischen, mykenischen und frühgriechischen Darstellungen von sitzenden matronales Figuren vorhanden” (p. 26).7 Anche in questo caso sarebbe auspicabile una maggiore ricchezza di dettagli e un’esegesi più approfondita e soprattutto sarebbe necessario mostrare le immagini di queste sitzenden matronales Figuren, per poterle opportunamente confrontare con le immagini della dea in Anatolia. Poiché, infatti, ci pare che l’iconografia della dea seduta all’interno del naiskos e con il leone sulle ginocchia sia chiaramente una “invenzione” micro-asiatica, non sembra affatto giustificata l’affermazione, espressa con grande sicurezza, che “das Sitzmotiv als Zeichen der matronalen Würde und der Polos seine Vorläufer in der mykenischen Kunst haben” (p. 52). Certamente i contatti fra la cultura micenea e quelle anatoliche sono stati intensi e ben documentati, e alcuni di questi motivi sono attestati anche, ad esempio, in alcune raffigurazioni tardo-ittite,8 che la Xagorari menziona. Ma ciò che viene tenuto nella dovuta considerazione è, a nostro avviso, il fondamentale ruolo di tramite ricoperto dalla Grecia micro-asiatica.

Tralasciando il Capitolo dedicato ai sacerdozi e alle feste per la Göttermutter in Grecia (anche in questo caso mai identificata con Cibele), veniamo alla parte più originale e importante del libro, quella relativa ai luoghi di culto. Oltre all’importante catalogo dei metroa, già ricordato, ci pare di notevole utilità, a titolo di esempio, anche il paragrafo che tratta di Pausania come fonte per i santuari della Göttermutter. Ma la sezione a nostro parere più interessante e originale, per l’evidente difficoltà relativa alla documentazione materiale e per l’importanza che queste tipologie di santuari hanno in Anatolia, è quella sui Naturheiligtümer ( Grotten, Nichenheiligtümer, Felsheiligtümer). La Xagorari constata la scarsa presenza di questo genere di luoghi sacri in Grecia, aggiungendo che essi non sono tipici soltanto del culto della Göttermutter (abbiamo già detto che la studiosa esclude la presenza della dea a Vari). Non possiamo contraddire l’autrice su questo specifico punto, ma non ci pare che ciò possa essere considerato come indizio del fatto che “die Griechen nicht die gliechen Vostelleungen von der Göttermutter hatten wie die Phryger von Kybele” (p. 74).

Che l’idea che i Greci avevano della Göttermutter non coincidesse perfettamente con quella che avevano i Frigi di Cibele (o, meglio, della Matar) non ci pare un argomento sufficiente per sostenere che la Göttermutter greca non è Cibele. O meglio: si potrebbe sostenerlo soltanto con le dovute precisazioni metodologiche e terminologiche, di cui, però, si sente la mancanza. In queste pagine si ribadisce, infatti, che la dea greca maggiormente verwalndt con le “vor- sowie frügriechischen Muttergöttingen” è la Rhea omerica, anche se “die Göttermutter war jedoch im historischen Griechland und vor allem in Kleinasien von ihrer anatolischen Nachbarin Kybele beeinflusst” (p. 77). Osservando che, da un punto di vista prettamente storico-religioso, concetti indicati da termini come verwalndt o beeinflusst creano notevoli difficoltà, segnaliamo che la studiosa cerca a questo proposito paralleli nell’architettura anatolica. Si apre così una sezione relativamente ampia sulle caratteristiche architettoniche (compresi i materiali costruttivi: in particolare sul carattere wohnhausähnlich di forme e materiali, che risalirebbe a una tradizione tipicamente greca fin dall’epoca pre-protostorica), sull’ubicazione e le funzioni dei metroa. Ne risulta, tra l’altro, che i metroa erano collocati principalmente all’interno degli insediamenti, se non addirittura sull’agora. Oltre a essere luoghi di culto, essi potevano essere utilizzati come archivi di Stato, oppure come sedi di attività commerciali.

Il libro si chiude con alcune riflessioni sulla “popolarità” del culto della dea, che viene valutata in base al numero dei luoghi di culto e alla quantità delle menzioni nelle fonti scritte, nonché dal tipo e dalla quantità degli ex-voto. Si osserva, per esempio, che la Meter Theon (in questo caso chiamata con il suo teonimo greco) era meno popolare di altre divinità di carattere “materno” del pantheon ellenico. Essa non raggiunse mai, per esempio, la popolarità di una Demeter Thesmophoros, divinità particolarmente venerata anche nelle colonie d’Occidente, che “die Göttermutter wohl mit Demeter assimiliert” (p. 96). Conclusione che ci pare semplicistica e poco condivisibile, perché, anche a prescindere dai problemi di identità della dea (e delle dee in generale), in merito ai quali abbiamo già espresso forti perplessità, non tiene sufficiente conto delle singole realtà religiose locali. Ma si aprirebbe un discorso troppo complesso da trattare in poche righe.

Il volume della Xagorari, per concludere, risulta, in breve, un’opera in buona parte compilativa, ma non priva di una sua significativa utilità, soprattutto per quanto concerne il prezioso catalogo dei metroa.

Notes

1. Potenzialmente quasi tutte le dee del pantheon greco potrebbero portare il titolo di “madre”, fatta forse eccezione per Atena, Artemide e Hestia, che costituiscono, naturalmente, significative anomalie.

2. C. Brixhe, « Le nom de Cybèle. L’antiquité avait-elle raison?, » Die Sprache 25 (1979), 40-45; C. Brixhe-M. Lejeune, Corpus des inscriptions paleo-phrygiennes, I-II, Paris 1984.

3. E. Laroche, « Koubaba, déesse anatolienne, et le problème des origines de Cybèle, » in Éléments orientaux dans la religion grecque ancienne, Colloque de Strasbourg 1958, Paris 1960, 113-28; E. Will, « Aspects du culte et de la légende de la Grande Mère dans le monde grec, » in Éléments orientaux…, 95-111; C.H.E. Haspels, The Highlands of Phrygia, Princeton 1971; M.J. Rein, « Phrygian Matar: Emergence of an Iconographic Type, » in E. Lane (ed.), Cybele, Attis and Related Cults. Essays in Memory of M.J. Vermaseren, Leiden 1996, 223-37; A. Blomart, « La Phrygienne et l’Athénien. Quand la Mère des dieux et Apollon Patrôos se rencontrent sur l’agora d’Athènes, » in F. Labrique (ed.), Religions méditerranéennes et orientales de l’antiquité. Actes du colloque des 23-24 avril 1999, Le Caire 2002, 21-34; V. Pirenne-Delforge, « Qui est la Kourotrophos athénienne?, » in V. Dasen (ed.), Naissance et petite enfance dans l’antiquité. Actes du colloque de Fribourg, 28 novembre – 1. décember 2001, Fribourg-Göttingen 2004, 171-85; M. Munn, The Mother of the Gods, Athens, and the Tyranny of Asia. A Study of Sovereignty in Ancient Religion, Berkeley-Los Angeles-London 2006; S. Berndt-Ersöz, Phrygian Rock-cut Shrines. Structure, Function, and Cult Practice, Leiden-Boston 2006.

4. La Mère des dieux. De Cybèle à la Vierge Marie, Paris 1996.

5. Per la storia del culto di Cibele in Occidente: il santuario rupestre di Akrai, in Lane, Cybele, Attis and Related Cults…, 51-86.

6. Se, però, fosse possibile considerare teija un aggettivo, con il significato di “divina”, titolo che potrebbe peraltro riferirsi a numerose figure divine del pantheon.

7. A sostegno della sua ipotesi, Xagogari osserva che l’iconografia della dea seduta all’interno di un naiskos è attestata per la prima volta in Asia Minore nel VI secolo a.C. e contesta il tentativo di cercare le origini di questo motivo nell’iconografia frigia della Matar. Peraltro cita Apollodoro Rodio (senza ulteriori indicazioni: si presume faccia riferimento a Apollon., Argon., I, 1138ss.), come prova del fatto che il culto di una Göttin (Cibele? Rhea? Cibele-Rhea? Oppure, più genericamente, la Göttermutter ?) seduta all’interno di un naiskos era già presente in Asia Minore al più tardi durante i cosiddetti Secoli Bui. Utilizzare a questo scopo Apollonio Rodio evidentemente suscita notevoli perplessità.

8. Kubaba è rappresentata in posizione seduta, con copricapo alto e assai elaborato, negli orthostatai provenienti da Malatya e Ancuzköy, e in due rilievi da Karkemiš. Non va, inoltre, dimenticata la monumentale statua della dea all’interno di una struttura architettonica sul Sipilo, per la quale si è parlato della seconda metà del II millennio (e la vicinanza di essa a colonie come Colofone e Focea). Personalmente ho anche qualche difficoltà a vedere un’immagine con polos in piedi (e non seduta in trono) all’interno di una nicchia a Delik Taş (Berndt-Ersöz, Phrygian Rock-cut Shrines…, 221, Fig. 22).