Questo libro, che trae origine da una dissertazione discussa presso l’Università di Trier, scaturisce dall’ambizioso progetto di indagare la condizione precaria dei coloni sotto il profilo giuridico e sociale nella Tarda Antichità e il suo sviluppo sino all’Alto Medioevo. Si tratta dunque di una ricerca che presuppone la messa a frutto dei risultati degli studi in questo campo di storici antichi, giuristi e medievisti. Proprio per questo il recensore si sente imbarazzato nel valutare un lavoro di tale ampiezza, tanto diversificate sono le competenze necessarie per poterne dare un giudizio di merito.
La materia è organizzata secondo una articolazione cronologica. A una introduzione dedicata agli orientamenti della ricerca in corso sull’argomento, alla tipologia delle fonti e a questioni di ordine terminologico seguono tre grandi sezioni che trattano rispettivamente del colonato tardoantico, del colonato nella fase di transizione dalla Tarda Antichità all’Alto Medioevo, e del colonato all’inizio dell’Alto Medioevo. Una breve riflessione conclusiva sintetizza i risultati cui l’Autore ritiene di essere pervenuto con il suo lavoro.
Le tre sezioni principali sono poi ulteriormente suddivise in capitoli e sottocapitoli che sono ordinati al fine di presentare in modo chiaro e coerente i temi affrontati. Ogni sezione è chiusa da una conclusione parziale. Per quanto riguarda la controversa questione del colonato tardoantico non sembra che allo stato attuale della ricerca ci si possano attendere novità di rilievo come è emerso dagli atti di un convegno svoltosi di recente (in proposito si vedano i contributi raccolti in Terre, proprietari e contadini dell’Impero romano. Dall’affitto agrario al colonato tardoantico, a cura di E. Lo Cascio, Roma 1997, Atti del Convegno di Capri, 16-18 ottobre 1995. Sembra che un crescente consenso stia conoscendo la posizione di chi (D. Vera e altri) sostiene che, a prescindere dall’apparente volontà normativa della legislazione, non si debba vedere un fenomeno univoco. Se mai ci si può porre il problema, come è stato fatto in un importante libro recente a proposito di Valentiniano I, della capacità innovativa della legislazione di un singolo imperatore, se questa, cioè, possa essere considerata solo “reattiva” rispetto a determinate situazioni oppure anche creativa di nuovi sviluppi (il riferimento d’obbligo è all’importante libro di S. Schmidt-Hofner, Reagieren und Gestalten. Die Regierungsstil des spätrömischen Kaisers am Beispiel der Gesetzgebung Valentinians I., München 2008. Le questioni affrontate da Schmidt-Hofner, che nega un carattere sostanzialmente innovativo anche alla legislazione di Valentiano I in materia di colonato, sono di particolare rilievo in riferimento alla valutazione della legislazione imperiale in termini di reazione a sviluppi e a tendenze in atto cui Schipp fa riferimento a p. 263 e altrove).
Schipp ha il merito di ripresentare con chiarezza i dati essenziali e di integrare le fonti giuridiche a quelle letterarie, anche se tale integrazione non è di per sé una novità come l’Autore sembra pensare. Quello che colpisce in un discorso come il suo, di carattere fondamentalmente continuista rispetto all’Occidente romano e barbarico, è il collocare in una data precisa, il 419, un momento di cesura: in quest’anno, infatti, a seguito della costituzione emanata da Onorio (CTh V, 18,1) il colonato diventerebbe una condizione fissata come tale dalla nascita. Da questo momento in poi, infatti, i coloni potevano sposarsi solo tra di loro: si tratta di una questione per la quale ora conviene considerare quanto si può leggere in Codex Theodosianius — Le Code Théodosien V, Turnhout 2009 (a cura di S. Crogiez-Pétrequin e P. Jaillette), ove si ricorda opportunamente come la dichiarata volontà del legislatore di impedire la divisione delle famiglie, resa esplicita dall’ interpretatio, abbia un precedente in una costituzione costantiniana sugli schiavi (CTh II, 25,1). Un’intenzione analoga si ritrova nella Nov. XXXI§3 del 451 di Valentiniano III. Secondo Schipp l’importanza di questa legge, almeno per il colonato occidentale, deriverebbe dal fatto che essa sintetizza tutte le norme precedentemente isolate sui vincoli matrimoniali dei coloni e sui loro figli, cosa che risulta confermata dalla sua ripresa nella codificazione successiva. lla legge di Teodosio si fa riferimento nelle Novelle di Valentiniano, ed essa fu ripresa dai Visigoti e dai Burgundi. La legge di Onorio, al contrario, non ebbe alcuna eco in Oriente.
Per quanto riguarda il fenomeno coloniario negli stati barbarici, Schipp sostiene che non sia accettabile la tesi, tuttora prevalente, secondo la quale esso sia di fatto venuto meno per l’assorbimento di fatto dei coloni tra gli schiavi. A suo avviso, per quanto un accostamento giuridico dei coloni ai mancipia effettivamente ci fu (l’avvicinamento dello status coloniario a quello servile sarebbe particolarmente avanzato nel diritto goto e burgundo), nei testi legislativi si mantenne una distinzione tra le due categorie. E’ incerto, peraltro, quanto questa distinzione sia poi davvero effettiva e non un fenomeno residuale dovuto alla permanenza di elementi della tradizione giuridica romana. Ci sono poi specificità regionali di cui si dovrebbe tener conto. In Germania, ad esempio, i contadini risultano per lo più privi di libertà. In ogni caso le gestioni agrarie da parte di liberi e di servi in Occidente si trovano caratteristicamente una accanto all’altra nel periodo postromano e le differenze di status nei testi che vi fanno riferimento sono tutt’altro che coerenti e perspicue ( su questo argomento ora ci si deve rifare a Chr. Wickham, Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean, 400-800, Oxford 2005, pp. 560-564). Va inoltre tenuto presente come, in tutti i regni romano-barbarici, la tendenza del VII secolo sia quella di andare verso una forma di fusione, anche giuridica, delle etnie. L’esempio più evidente è rappresentato dal regno visigoto dove, tra la fine del VI e la metà del VII secolo, prese piede la tendenza a sostituire le leggi a base etnica con una legislazione regia che si rivolgeva a tutti i sudditi del regno a prescindere dalla loro origine.
Con riferimento a Ganshof (‘Das Frankische Reich’, in H. Kellenbenz (Hrsg.), Handbuch der europäischen Wirtschafts- und Sozialgeschichte, Bd. 2, Stuttgart 1980, pp. 151-250), Schipp sostiene con decisione l’opinione secondo la quale il colonato è stato un istituto romano che è sopravvissuto soprattutto in Gallia ma che ha lasciato tracce significative anche nell’area alpina e in Italia. Schipp insiste sulla possibilità che i coloni appartenessero a una sorta di status intermedio di liberi sottoposti a delle limitazioni così come altri gruppi, in una prosecuzione di una situazione da lui già riconosciuta nella società tardoantica ove, oltre ai coloni, anche inquilini, tributari e advenae ricadevano in una condizione di libertà vincolata. Proprio con riferimento a queste considerazioni resta difficile da capire come il legame normativo del colonato romano nel sistema giuridico e dei coloni di tradizione romana nella società avvenga solo con i Carolingi tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. E rimane il dubbio che questo apparente continuismo terminologico non celi una radicale evoluzione semantica, soprattutto se si tiene conto del diverso valore della condizione di libero rispetto al diritto civile romano classico.
In ogni caso per la trattazione della sopravvivenza del colonato nell’epoca successiva alla fine dell’Impero romano d’Occidente non si può non ripensare al capitolo conclusivo del Colonat romain di Fustel de Coulanges (pubblicato originariamente a Parigi nel 1883 come parte prima di Recherches sur quelques problèmes d’histoire e ristampato anastaticamente a New York nel 1979). Lo studioso francese sosteneva l’opportunità di proseguire lo studio del colonato romano al di là dell’epoca romana per evitare di privarsi di fonti di informazione utili a completare quanto trasmessoci dai documenti di età precedente. Niente lascia supporre che il colonato sia stato soppresso così come non si vede che gli invasori abbiano introdotto dei nuovi coloni o nuove forme di colonato. Il colonato fu certamente adottato dalla Chiesa per le sue proprietà come ben risulta dalle lettere di Gregorio Magno. Ma rimane notevole il fatto che Carlo Magno non abbia emanato alcuna legge sui coloni.
Alla fine l’impressione che il lettore ricava da questo libro è in qualche modo contraddittoria. Se si può apprezzare l’intenzione dell’Autore di ripensare il colonato in una prospettiva di lunga durata e l’equilibrio di alcune sue interpretazioni, forse proprio in ragione di questa scelta sembra affidarsi troppo ai testi giuridici prescindendo da una puntuale considerazione dei contesti specifici e della loro evoluzione storica.