Virgilianista di grande spessore e di lungo corso, Nicholas Horsfall dal 2000 a oggi ha dato alle stampe quattro pregevoli commenti a singoli libri dell’ Eneide, il VII, il IX, il III e il II, tutti pubblicati nei supplementi della rivista “Mnemosyne” (Brill, Leiden). Diversamente da altri studiosi, come Ph. Hardie e S. Harrison, che nel loro lavoro critico-esegetico hanno seguito il modello sintetico e dinamico di R. Austin (a metà strada tra analisi scientifica e divulgazione), Horsfall ha preferito un approccio più approfondito, rigorosamente specialistico, sul modello del monumentale volume dedicato da E. Norden al libro VI (Leipzig-Berlin 1916 3), a cui si sono ispirati in passato altri studiosi: per il libro IV in particolare C. Buscaroli (Milano 1934) e S. Pease (Cambridge Mass. 1937); per il III, più recentemente, P. V. Cova (Milano 1994). Proprio alcuni di questi lavori dimostrano che un tipo di commento così cospicuo corre il rischio di un accumulo eccessivo di materiale erudito, la cui fruizione risulta difficile e faticosa. Un rischio sfiorato ma stornato, con equilibrio e senso del limite, da Horsfall come dal medesimo Norden. D’altronde il modello (inconfessato) di Norden non è seguito fedelmente da Horsfall, la cui attenzione è distribuita sulle diverse caratteristiche della poesia virgiliana in base a una metodologia filologica tradizionale, ma aperta alla modernità. Il minore spazio concesso ad aspetti formali e procedimenti retorici è compensato da un più forte interesse per il taglio narrativo, i risvolti semantici del lessico, gli elementi di ethos.
L’introduzione (XIII-XXVII) si concentra su Aen. II, senza indulgere alla prassi consolidata ma inutile di una presentazione generale dell’ Eneide. Il fulcro del libro II è messo subito a fuoco: “that wonderful blend of epic and tragedy” che si rivela caratteristico dello stile virgiliano, quasi la cifra della sua poesia (XIII). Non posso concordare però riguardo “some disorder […], some lack of expertise in the handling of simultaneous actions, over and above the evident lack of revision, as shown by the number of halflines” (XIV). Nonostante gli emistichi incompleti, il libro II mi sembra tra i più solidamente costruiti dell’intero poema: è innegabile la presenza di incongruenze e contraddizioni, che restano tuttavia marginali e non infirmano la coesione della struttura narrativa (cf. A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia, Roma-Bari 2005, 328-332; M. von Albrecht, Vergil. Eine Einführung, Heidelberg 2006, 112-117).
Col vigore sintetico tipico del suo stile, Horsfall riassume il senso degli eventi narrati nel libro II in tre punti, che costituiscono i cardini del racconto. I primi due (l’attenuazione della sconfitta troiana “by the rhetoric of the victors’ use of deceit”; l’apertura di una prospettiva futura “by the tripartite revelation” di Ettore, Venere, Creusa) sono tanto importanti quanto pacificamente acquisiti (a partire da R. Heinze, Virgils epiche Technik, Leipzig 19283, 8-12 e passim). Il terzo punto si pone su un piano più generale rispetto all’impegno ideologico di Virgilio e, pur essendo incardinato storicamente nel pensiero romano, attinge un valore universale: “the strong Roman sense that defeat is an element (healthy, therapeutic, toughening, even) in ultimate victory” (XIV).
La descrizione della struttura rispecchia le suddivisioni interne ben riconoscibili nella narrazione, la cui soglia di elaborazione formale appare alta anche per questa ragione — se non che l’epitafio di Priamo (vv. 554-558) è stranamente considerato staccato dal racconto del suo supplizio, di cui a mio avviso costituisce un punto inscindibile, quasi la summa della vicenda. Ciò che mi risulta però inintelligibile (anche perché non c’è una spiegazione esplicita) è il riferimento ai vv. 559-566 come “proem to second or third part” (XV). Ammesso che si voglia attribuire a questo brano un ruolo strutturale, come linea di demarcazione tra due sezioni narrative contigue, non vedo come si possa parlare di “proemio”, dal momento che non compare nessuno dei due elementi caratterizzanti ( scil. la protasi e l’invocazione alla Musa). Si può definire “proemio” ogni brano che segni un cambiamento nello sviluppo narrativo, o che delimiti due blocchi del racconto? (cf. G. Namia, Il proemio dell’Eneide e il modello omerico, in Miscellanea A. Salvatore, a cura di E. Flores et al., Napoli 1992, 45-56).
Nel discorso sui rapporti tra i libri I e II si trova uno spunto prezioso, che meritava più spazio: le domande indirette di Didone (I, 750-752), “taking up the subject-matter of the pictures in Juno’s temple” (vv. 450-493), sono seguite da “the direct request to Aeneas (1.753-6) to relate his story of the Fall and of his wanderings” (XVI). L’elemento individuato da Horsfall si presta a ulteriori approfondimenti: mi chiedo se “il suo racconto” sia soltanto quello di Enea (il processo autoptico, il coinvolgimento del narratore nei fatti) oppure si possa intendere, sul piano metaletterario, l’approccio del poeta che si confronta con i diversi rami del mito e attua un consapevole processo selettivo e creativo.
Il paragrafo sul linguaggio è un modello di rigore metodico: se gli espedienti stilistici sono descritti in termini generali, con l’aiuto di qualche esempio, i fenomeni lessicali e sintattici sono elencati analiticamente, non diversamente dagli elementi attinti dagli auctores greci e latini, tra cui alcuni non facilmente riconoscibili, come Eschilo e il filosofo ellenistico Cleante. Il discorso prosegue nel paragrafo successivo, che tratta i rapporti di Virgilio con i modelli (definiti riduttivamente “sources”) e il peculiare processo che ne consegue, chiamato “Kreuzung der Gattungen” con W. Kroll. Considerando acquisito il legame genetico ed emulativo con Omero (su cui poco resta da dire dopo N. Knauer, Die Aeneis und Homer, Göttingen 1979 2), Horsfall si sofferma soprattutto sugli elementi tratti dal genere epigrammatico, dalla storiografia e dalla tragedia: non a torto egli afferma che “it is when Virgil is working with strong tragic elements that he reaches his greatest heights” (XXI). Sull’uso del ciclo epico Horsfall non si sbilancia e sospende il giudizio; ritiene però che Virgilio conoscesse i Troika di Ellenico, citati spesso dal suo contemporaneo Dionisio di Alicarnasso. Nondimeno quest’ultimo conosce i poemi del ciclo, ne menziona autori e contenuti, discute le varianti della leggenda tra Iliupersis e Ilias parua. Per quanto l’argomento sia difficile e sfuggente, uno studioso del calibro di Horsfall poteva permettersi più che un timido possibilismo (cf. E. C. Kopff, Virgil and the cyclic epics, “ANRW” II, 31.2, 1981, 919-947).
Il pezzo forte del volume è il commento, la cui ampiezza rivela la straordinaria ricchezza dell’analisi, lo scavo sistematico e approfondito tanto nei contenuti quanto nello stile virgiliano. L’interpretazione segue un’impostazione positivistica, che punta alla concretezza scientifica e rifugge dalle tentazioni impressionistiche o estetizzanti, senza tuttavia tarpare la sensibilità, senza irrigidire o inaridire la lettura della poesia (conseguenza non infrequente nella critica di matrice razionalistica, se non è sorretta da intelligenza e finezza di cultura). Il rigore documentario, la serietà delle argomentazioni, il rapporto costante e ponderato col testo latino non escludono un interesse ugualmente forte per elementi più difficili da inquadrare e apparentemente sfuggenti, come gli effetti stilistici, le sfumature psicologiche, gli aspetti di ethos. La raccolta delle informazioni non scade nella semplice compilazione: la bibliografia è sottoposta a una serrata e severa discussione; i dati attinti dal testo sono vagliati con vigile senso critico. Dal commento emerge un ritratto di Virgilio che non coincide tout court con quello di altri lettori (me compreso), non restituisce in modo esauriente l’aspetto del poeta (policromo e umbratile a un tempo), non lo raffigura a tutto tondo; se non che questo è un merito di Virgilio stesso, del suo genio complesso ed enigmatico, non un limite dell’interprete.
Per chi conosce Horsfall non sorprende il vigore polemico, lucido e spesso impietoso, con cui si sbarazza degli argomenti tradizionali, la cui comune condivisione non si fonda sulla loro intrinseca validità, ma sull’ auctoritas della fonte e su una sorta di inerzia della critica. Per esempio, è liquidata perentoriamente l’interpretazione della lancia infissa da Laocoonte nel cavallo di legno “via the ritual of the October equus ”, risalente a Dumézil e accolta da Paratore (57). Ancor più della forza impiegata nella pars destruens, talvolta spicca la raffinatezza della pars construens, come in merito al sogno di Ettore (vv. 268-297), le cui lacrime sono interpretate “perhaps as some sort of substitute for the famously excluded physical contact between the dead and the living”. Talvolta la sensibilità corregge e arricchisce l’impostazione positivistica: a ragione si riconosce “the formidabile role” di Andromaca nell’ Eneide “in inverse proportion to her slender presence” e con “all the accumulated dignity and sorrow already lavished on her” da Omero ed Euripide (352). A Horsfall non sfugge nemmeno “the important theme of Ascanius and Astyanax as contemporaries” (354).
Su qualche punto si può discutere. Al v. 2, toro ab alto, scorgo un segnale di stile soggettivo (Enea è il fulcro dell’interesse collettivo), a prescindere dal carattere convenzionale dell’epiteto “but in keeping with the magnificence of the occasion and the status of the expected speaker”. Al v. 7 (perfino i soldati di Ulisse piangerebbero nel sentire il racconto di Enea) vedo un paradosso teso a enfatizzare il dolore sofferto dai Troiani, più che “the grand idea that humanity has leaped the trenches”; si poteva citare Pacuvio, fr. 294 Schierl, Priamus, si adesset, ipse eius commiserescet. Al v. 31, innuptae… Mineruae, Horsfall pensa a un genitivo oggettivo con Henry; propenderei piuttosto per un dativo di vantaggio, come nel fr. di Accio 260 Dangel, Mineruae donum armipotenti abeuntes Danai dicant, certamente tenuto presente da Virgilio. Al v. 65, accipe, oltre che un’apostrofe a Didone “as a hint of her presence in full narrative almost unique”, si può ipotizzare (almeno come risvolto secondario) un riferimento metaletterario al lettore.
Al v. 165, per quanto riguarda il Palladio, Horsfall sostiene che la variante della legenda attribuita all’ Iliupersis di Arctino da Dionisio di Alicarnasso (I, 68, 2ss.), secondo cui Odisseo e Diomede avrebbero rubato una copia, mentre l’originale sarebbe rimasto a Troia, “looked to reflect a Roman claim to hold the real thing”: sarebbe dunque un’elaborazione di età romana (162). Purtroppo non posso rendere conto qui del problema, che mi sembra molto più complesso: penso che, con la reduplicazione del Palladio, Dionisio tentasse di conciliare due differenti versioni presenti nell’epica ciclica, se non nella stessa Iliupersis, la cui stratificazione redazionale (a partire dalla cultura orale) non escludeva la compresenza di varianti incoerenti (cf. “GFA” 10, 2007, 1055-1068, segnatamente 1063-1064).
Al v. 282, uarios… labores, la parola-chiave labor meritava forse maggiore attenzione, anche alla luce delle sue frequenti e significative ricorrenze nell’ Eneide (ma già nelle Georgiche). Al v. 293 si poteva parlare più a lungo dei Penati, citando P. Boyancé, Études sur la religion romaine, Rome 1972, 65-72; A. Dubourdieu, Les Origines et le development du culte des Penates a Rome, Rome 1989, 121-519; M. Schauer, Aeneas dux in Vergils Aeneis, Munich 2007, 72-82. Al v. 335, caeco Marte, Horsfall segue Servio che interpreta aut confusa pugna aut nocturna; a me sembra preferibile intendere caeco furore. Al v. 541, hoste… Priamo, Horsfall richiama il dipinto nel tempio cartaginese, in cui Achille restituisce il corpo di Ettore a Priamo: tuttavia occorre precisare che quell’immagine rappresenta una versione differente, in cui il feroce guerriero exanimum… auro corpus uendebat (I, 484). Al v. 663 sfugge l’allusione (anche ma non esclusivamente verbale) all’uccisione di Neottolemo per mano di Oreste, narrata da Andromaca a Enea a Butroto (III, 330-332).
La scena di Elena (vv. 567-588), ritenuta un’interpolazione composta per colmare una lacuna, è relegata in un’appendice (553-569), che ne fornisce un’analisi puntuale. La uexata quaestio, che alimenta un’accesa e interminabile discussione della critica, ovviamente non può essere affrontata in questa sede. Per la posizione opposta, favorevole all’autenticità, mi permetto di rinviare al mio libro: Noctes Vergilianae. Ricerche di filologia e critica letteraria sull’Eneide, “Spudasmata” 135, Hildesheim 2010, 31-74.
Un’altra appendice (587-591) è dedicata a una questione meno dibattuta dalla critica, ma ugualmente importante e controversa: le fonti della Tabula Iliaca Capitolina, la sua eventuale dipendenza dall’ Iliupersis di Stesicoro e/o dall’ Eneide, il rapporto intertestuale tra Virgilio e Stesicoro. Horsfall ribadisce quanto ha sostenuto in passato ( JHS 99, 1979, 26-48): la Tabula non dipende dall’ Iliupersis ma dall’ Eneide; nessun rapporto tra Virgilio e Stesicoro. Nemmeno questo problema, di cui mi sono occupato anch’io con esito opposto (“RhM” 148, 2005, 113-125), può essere trattato qui. Tuttavia vale la pena di fare un’osservazione metodologica: Horsfall non usa alcun argomento ‘positivo’ per smentire la dipendenza della Tabula dall’ Iliupersis : la esclude a priori, poiché non sarebbe sorretta da prove cogenti; sembra dimenticare però che tale dipendenza è segnalata esplicitamente da un’iscrizione presente sulla medesima Tabula, un’iscrizione da considerare attendibile finché non sia smentita da una prova, che in verità ancora non è stata addotta. Nemmeno da Horsfall. Il disaccordo su questo e su altri punti non mi impedisce però di ritenere il suo commento uno dei migliori libri mai scritti sul poema virgiliano.
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