A pochi anni dalla pregevole monografia di G. Manuwald ( Pacuvius. Summus tragicus poeta. Zum dramatischen Profil seiner Tragödien, München-Leipzig 2003) e dalla monumentale edizione critica curata da P. Schierl (Berlin-New York 2006), vede la luce questo elegante volume comprendente introduzione, revisione critica del testo e traduzione in catalano dei frammenti di Pacuvio, realizzato da Esther Artigas nella collana della fondazione Bernat Metge. È un momento felice per il summus tragicus poeta, oggetto di un rinnovato e consistente interesse, non diversamente dall’altro grande esponente del dramma romano arcaico, Accio, anch’egli recentemente gratificato da numerosi e notevoli contributi, come la miscellanea curata dalla medesima G. Manuwald ( Accius und seine Zeit, Würzburg 2002) e il saggio di B. Baldarelli sulla saga dei Pelopidi ( Accius und die vortrojanische Pelopidensage, Paderborn 2004), sull’onda di una riscoperta avviata dall’edizione critica di J. Dangel (Paris 1995).
L’introduzione (p. 9-34) comprende notizie sulla vita, sulle fonti e sulle tragedie, in una prospettiva dichiaratamente divulgativa, senza affrontare controverse questioni biografiche o cronologiche. Per le fonti, un particolare interesse è rivolto a Nonio e Cicerone, che forniscono l’esempio di due diversi approcci al testo di cui tramandano frammenti, citati dal primo per motivi strettamente linguistici, dal secondo a scopo didascalico-esemplare, nell’ambito di un discorso culturale di ampio respiro. Per inciso, sul rapporto di Cicerone col dramma romano arcaico mi piace segnalare due recenti lavori, che Artigas non poteva conoscere, di R. Degl’Innocenti Pierini (‘La tragedia nelle Tuscolane di Cicerone tra esemplarità e terapia’) e G. Garbarino (‘Il teatro nelle epistole di Cicerone’), nel volume miscellaneo La riflessione sul teatro nella cultura romana, a cura di G. Aricò e M. Rivoltella (Milano 2008, p. 41-64 e 65-86), su cui si può vedere la mia recensione, di prossima pubblicazione su “Latomus”.
Ancora nell’introduzione Artigas passa in rassegna le tragedie: non è esclusa la possibilità che, oltre alle undici cothurnatae più una praetexta di sicura attestazione, esistesse qualche altra tragedia che è andata completamente perduta, come un Orestes o un Pentheus —ma non un Protesilaus e un Thiestes, la cui esistenza è rifiutata per l’inattendibilità delle testimonianze. Per quanto riguarda il rapporto di Pacuvio con i modelli, si respinge a buon diritto un approccio semplicistico (per esempio, sulla base dell’omonimia con le tragedie greche) e si mette in conto l’influsso del dramma postclassico ed ellenistico. La relazione con la produzione latina precedente, con cui si riscontrano coincidenze di titoli e temi mitologici, è vista in chiave di variazione e ricerca di novità: dunque è rivendicata a Pacuvio “una notable llibertat respecte dels models”, a cui si deve “la tan remarcada originalitat de la seva obra” (p. 17).
Alla produzione comica di Pacuvio (di cui è testimone non attendibile Fulgenzio) giustamente Artigas non presta fede, mentre crede alla sua satura, sulla cui natura tuttavia non spende una parola. Dell’epitafio riferito da Gellio (I, 24, 1) è riconosciuta la genuinità epigrafica; proprio per questo, però, è escluso che l’autore sia Pacuvio. L’introduzione contempla altresì una sintetica ricognizione della fortuna e della ricezione della tragedia pacuviana dall’antichità alle edizione moderne, fino a quella già citata di P. Schierl. Inoltre sono illustrate metodologia e finalità della presente edizione, che si pone in un’ottica di seria e ponderata divulgazione, a cui sono ispirate la traduzione e le note esplicative. Nondimeno è lecito chiedersi se davvero esista un pubblico più o meno ampio, non specialistico, interessato ai drammi di Pacuvio, di cui si possono leggere soltanto frammenti, spesso di difficile ricostruzione e comprensione, da ricondurre a filoni mitici marginali e peregrini.
L’introduzione è seguita da una vasta bibliografia (p. 35-52), la cui funzionalità è accresciuta dalla ripartizione per sezioni: repertori dossografici; monografie sulla tragedia romana arcaica; studi generali su Pacuvio, ulteriormente divisi per argomenti (biografia; critica letteraria, lingua e stile etc.); pubblicazioni sulle singole tragedie. Non manca il conspectus siglorum, comprendente gli editores Pacuuii a partire da R. e H. Estienne (secolo XVI), gli editores fontium e i contributi critico-testuali di alii uiri docti (p. 53-66).
Ciascuna tragedia è preceduta da una “notícia preliminar” che ne presenta la materia e ne percorre la trama nelle linee generali, sulla base delle fonti e delle testimonianze (riferite in traduzione). L’edizione critica è accompagnata dalla versione catalana e da poche, brevi note, che vertono esclusivamente sul contenuto dei frammenti e sulla loro collocazione nelle vicende narrate. Il volume si conclude col conspectus metrorum (ma sarebbe stato più comodo se i rispettivi metri fossero stati indicati in margine ai frammenti) e con la tabula comparationis relativa alle principali edizioni (Schierl, D’Anna, Warmington, Ribbeck).
Per l’attribuzione dei frammenti alle diverse tragedie, se le informazioni delle fonti sono insufficienti, Artigas si attiene al consenso dei principali editori; quando questi non sono concordi, segue soprattutto D’Anna. Per esempio il fr. VII, 16-17 ( ad quas igitur res aptissimi erimus, in iis potissimum / elaborabimus), citato da Cicerone, De off. I, 31, 114, ignorato completamente dagli altri editori, è attribuito all’ Antiopa da Artigas con D’Anna. I frammenti 262 e 295 Schierl ex incertis fabulis sono ricondotti al Chryses (rispettivamente XIX, 119-129 e X, 107 Artigas), l’uno in accordo con D’Anna, l’altro con Warmington e D’Anna. Tuttavia bisognava spiegare la ragione delle attribuzioni controverse o comunque non sorrette dalla testimonianza delle fonti: non basta l’ auctoritas delle precedenti edizioni, specialmente se non sono concordi.
Il testo dei frammenti è accompagnato da un doppio apparato, quello relativo agli autori che li citano e quello strettamente filologico. Nel secondo non si rende conto soltanto dei codici e degli emendamenti proposti dagli studiosi, ma anche delle opzioni seguite nelle principali edizioni, da Ribbeck a Schierl. La metodologia di Antigas è improntata alla massima fedeltà alla tradizione manoscritta: il ricorso a congetture ed emendamenti è limitato ai casi di comprovata necessità, e.g. per correggere incongruenze di lingua o di metrica. In genere è seguito il consensus codicum e /o il consenso degli editori; quando non è possibile, almeno quello tra D’Anna e Schierl. L’Autrice si muove con agilità e competenza tra le principali edizioni, ma non avanza mai proposte innovative.
La norma prioritaria resta la fedeltà alla tradizione, come dimostra il fr. VII, 16-17 dell’ Antiopa, già citato: in mancanza del riscontro di Schierl, Artigas si distacca anche da D’Anna, che elimina igitur e corregge in in indu. Il buon senso prevale sull’accordo con gli editori più recenti: nel fr. XV, 113-115 del Chryses ( pro merenda gratia / simul cum uideam Graios nihil mediocriter / redamptruare opibusque summis persequi) il sintagma iniziale pro merenda gratia, omesso da D’Anna e Schierl, è recuperato da Artigas con Ribbeck. Il rispetto dei codici, che di per sé è un criterio pienamente condivisibile, in qualche caso rischia però di ingessare il lavoro editoriale, come accade al fr. XXV, 339 del Teucer, stampato con un locus corruptus piuttosto che con gli emendamenti (accettabili, in fin dei conti) proposti da Ribbeck e Warmington.
Notevole e proficua attenzione è dedicata alla traduzione, che si misura con tutte le difficoltà di una poesia già di per sé complessa e, come se non bastasse, ridotta in condizioni di grave frammentarietà. Tanto più mi sembra apprezzabile il risultato, che coniuga il rigore linguistico con lo sforzo di riprodurre l’andamento stilistico (spesso peculiare, non semplice) dei frammenti. In questa direzione è orientata la costruzione della frase, che tende a mantenere la posizione originaria delle parole, come nel fr. XIV, 28 dell’ Antiopa : exorto iubare, noctis decurso itinere “eixida l’estrella matutina, de la nit recorregut el camí”. Efficace la resa della figura etimologica e dell’allitterazione nel fr. XVII, 85-86 dell’ Atalanta : ubi ego me grauidam sentio adgrauascere / propinquitate parti “així que, gràvida, em sento engravir per la proximitat del part”. Una mirabile corrispondenza concettuale e ritmica tra lingua latina e catalano, con la conservazione dell’allitterazione trimembre in a, si riscontra nel fr. XXV, 143 del Chryses : mater est terra, ea parit corpus, animam aether adiugat “la terra és la mare: ella deslliura el cos, l’aire hi afegeix l’ànima”.
Il migliore esempio di aderenza al lessico e alla sintassi latina mi sembra però il fr. XX, 272-275 del Medus, in cui è descritto con tratti patetici e icastici l’aspetto orrendamente malridotto del padre di Medea: refugere oculi, corpus macie extabuit, / lacrimae peredere umore exanguis genas, / situm inter oris barba paedore horrida atque / intonsa infuscat pectus inluuie scabrum “els ulls s’han enfonsat, el cos s’ha esllanguit per la magror, les llàgrimes han solcat amb la humitat les galtes esblaimades, enmig de l’abandó del rostre, la barba, hirsuta per la sutzura i sense tondre, enfosqueix el pit clapat de ronya”.
Su alcuni punti si può discutere. Per esempio, nel fr. XXIII, 139 del Chryses ( solisque exortu capessit candorem, occasu nigret “a la sortida del sol cobra claredat i amb l’ocàs s’ennegreix”) conveniva conservare l’asindeto, dall’effetto più incisivo. Nel fr. XXV, 94-95 dell’ Atalanta la traduzione dell’espressione seruiunt / sub regno “són al servei d’un regne” è forse eccessivamente letterale, al punto che sfugge il senso: “sono come schiavi sotto un potere assoluto”. Nel fr. III, 148 del Dulorestes mi pare impoverito il significato del sintagma hymenaeum fremunt “entonen l’himeneu”; il verbo fremo implica un forte coinvolgimento emotivo, un atteggiamento euforico: “fremono nel cantare l’imeneo”, “intonano l’imeneo con un tremore entusiastico”. Nel fr. VIII, 236 dell’ Iliona, nella traduzione dell’espressione innuptis… nuptiis si perde qualcosa; la figura etimologica probabilmente dovrebbe essere conservata: “nozze che non sono (vere) nozze”. Nel fr. VIII, 368 del Teucer ( Nerei repandirostrum incuruiceruicum pecus “ramat de Nereu, de rostre arreveixinat, de bescoll encorbat”) i delfini sono descritti con neologismi impossibili da rendere ad uerbum; nondimeno si potrebbe tentate un colpo d’ala per tener testa allo slancio creativo del poeta, riproducendo i corposi composti polisillabici: “gregge di Nereo collo-curvo muso-all’insù”.
Qualche problema pone il fr. XI, 52-53 dell’ Armorum iudicium, in cui Aiace stigmatizza l’infido cinismo di Ulisse: cuius ipse princeps iuris iurandi fuit, / quod omnes scitis, solus neglexit fidem “ell, inspirador del jurament que tots sabeu, fou l’únic que mancà al pacte”. Mi sembra che il termine princeps indichi non tanto l’ispiratore quanto, in senso etimologico, “colui che fu il primo” a fare il giuramento. Inoltre è preferibile conservare la struttura subordinata della prima frase, mentre l’espressione quod omnes scitis si può considerare un’incidentale invece che una relativa: “lui solo ha tradito il giuramento, di cui egli stesso fu il primo fautore—lo sapete tutti”; oppure, rispettando l’ ordo uerborum del frammento: “il giuramento, di cui egli stesso fu il primo fautore—lo sapete tutti—lui solo lo ha tradito”.
La traduzione resta comunque la parte migliore di quest’edizione, da ritenere complessivamente apprezzabile e degna di attenzione.