Questi atti sono l’esito di un importante convegno svoltosi a Roma nel novembre del 2006 fra l’Academia Belgica e i Musei Capitolini, e rappresentano il coronamento di un progetto che in pochi anni ha riunito periodicamente un cospicuo numero di specialisti intorno al tema dei culti orientali, dando alle stampe in un tempo relativamente breve gli atti di tutti gli incontri. Bisogna quindi dare atto agli organizzatori, ed in particolare a Corinne Bonnet, di aver contribuito in maniera notevole a dare nuova linfa a questi studi.
Il volume consta di ventiquattro articoli divisi in cinque sezioni, introdotti da un contributo dei curatori del volume che presenta brevemente le linee guida sulle quali si è sviluppato il colloquio, con particolare attenzione al concetto stesso di “culti orientali”. I curatori infatti si fanno portavoce di un disagio di molti studiosi nei confronti della definizione di tale categoria, eredità cumontiana ritenuta spesso inadatta a definire le realtà in oggetto ma ormai entrata nell’uso comune; sottolineano a tale proposito come la rilettura odierna di questi fenomeni religiosi abbia permesso di evidenziare, molto più di quanto non si sia fatto in passato, le similitudini rituali fra i vari culti dell’antichità, abbattendo spesso le frontiere fra le religioni orientali e quelle ufficiali e portando alla dissoluzione del concetto di “religioni orientali”. Due indici, uno dei nomi moderni e uno tematico (quest’ultimo in particolare molto utile), corredano gli atti e ne facilitano la consultazione.
La prima sezione (“Mise en perspective”) è introdotta da un contributo di Corinne Bonnet (“Entre ciel et terre, en relisant Franz Cumont”, pp. 17-22) che prende spunto dalla riedizione del classico di Franz Cumont Les religions orientales dans le paganisme romain che venne presentata proprio in occasione del convegno. L’autrice (che è senza ombra di dubbio la maggiore studiosa dell’opera cumontiana) riesce a penetrare in profondità nelle tematiche religiose che furono care allo studioso belga, facendo emergere l’importanza che ancora oggi, a distanza di cento anni dalla prima edizione, l’opera mantiene.
William Van Andringa e Françoise Van Haeperen (“Le Romain et l’étranger: formes d’intégration des cultes étrangers dans les cités de l’Empire romain”, pp. 23-42) esordiscono annunciando la scomparsa della categoria dei “culti orientali”, rimarcando la necessità di approfondire il modo in cui tali manifestazioni religiose interagirono con le forme di culto già esistenti nel mondo romano. Viene a questo punto dato molto rilievo al ruolo dell’archeologia e dell’epigrafia per la comprensione dei fenomeni religiosi dell’antichità. Così la disposizione topografica degli isei e dei mitrei delle città che sono portate ad esempio attesterebbe che, almeno dalla seconda metà del I sec. d.C., le divinità che lì venivano venerate non dovevano essere percepite dai cittadini come straniere. Ed ancora le testimonianze epigrafiche che documentano l’uso di formulari tipici delle dediche alle divinità romane e la presenza di sacerdoti pubblici alle cerimonie (o comunque la loro approvazione di tali riti) rappresenterebbero quindi un ulteriore dato a favore della completa integrazione di tali culti nella società romana.1
Marie-Françoise Baslez, Sergio Ribichini e Christoph Auffarth (“Appréhender les religions en contact”, pp. 43-62) affrontano il tema del contatto fra le religioni. Nella prima parte dell’articolo, a cura di Marie-Françoise Baslez, si mette in rilievo il fatto che il concetto di “sincretismo” non è più attuale e si privilegiano al suo posto i termini “contatto” e “coabitazione”, più neutri. Risulta quindi necessario rileggere le fonti archeologiche e ancor di più quelle epigrafiche, con l’intento di produrre studi prosopografici atti a mettere in risalto i rapporti personali fra i devoti. Dopo aver ricordato il ruolo giocato dai porti e delle associazioni religiose si passa alla seconda parte, nella quale Sergio Ribichini presenta il tema del confronto fra le religioni affrontato nel corso dei colloqui precedenti da vari studiosi; viene così sottolineata ancora una volta l’importanza dell’integrazione fra tutti i campi della ricerca per una corretta interpretazione dei fenomeni religiosi dell’antichità. Nell’ultima parte Christoph Auffarth si dedica ai concetti di conversio, da riferire non semplicemente alla sfera religiosa bensì ad un più ampio ambito sociale, e di religio migrans, relativo alle trasformazioni religiose nell’impero romano dovute da una parte a coloro che, lasciando le proprie terre di origine, portavano con sé costumi e culti dei padri ( religio migrantium) e dall’altra alle forme di culto che venivano trapiantate ( religio translata).
Il contributo di Laurent Bricault e Francesca Prescendi (“Une théologie en images?”, pp. 63-79) è dedicato al ruolo delle immagini di culto nell’ambito delle religioni orientali. Risulta molto corretta ad esempio la riflessione sulla complementarietà che nei monumenti hanno le immagini e i testi scritti, che insieme comunicano due aspetti di un messaggio. Si ribadisce poi anche in questo caso l’inadeguatezza del termine “sincretismo” per l’analisi delle iconografie di divinità come Giove Dolicheno, preferendo la perifrasi “coesistenza di immagini polisemiche”. In conclusione gli autori sostengono che anche le rappresentazioni del mito di Mitra avevano la medesima funzione delle statue e delle pitture che adornavano i templi delle altre divinità, anche se rispetto a queste ultime erano spesso molto più esplicite grazie ad una forte impronta narrativa.
Attilio Mastrocinque (“Culti orientali e magia: alcune riflessioni”, pp. 81-87) lancia alcune provocazioni agli studiosi della magia antica, proponendo un approccio alla materia più fedele alla realtà sociale dei Greci e dei Romani; liberarsi del bagaglio culturale cristiano è secondo l’autore la condizione principale per affrontare tale studio nel modo più corretto.
Le seconda sezione (“Les religions orientales : débat autour d’un concept”) si apre con un articolo di Guy Stroumsa (“Ex Oriente Numen. From orientalism to oriental religions”, pp. 91-103) che tenta di risalire alle origini del concetto cumontiano di “religioni orientali”, ripercorrendo brevemente la storia degli studi che avevano preceduto il lavoro di Franz Cumont. Da questa analisi emerge il tentativo che fu dello studioso belga di ricreare un legame fra le culture religiose del Mediterraneo antico ed inoltre l’importanza che ha sempre avuto per gli storici delle religioni il Vicino Oriente antico.
Anche il contributo di Walter Burkert (“‘Orient’ since Franz Cumont: Enrichment and Dearth of a Concept”, pp. 105-117) ha al centro la figura di Franz Cumont. In una profonda e lucida analisi critica della sua opera l’autore coglie molti aspetti che paiono discutibili nella definizione delle aree geografiche e di conseguenza anche nel concetto di “Oriente”. Viene messo in luce anche che nella visione cumontiana la crescita e la diffusione delle religioni orientali rappresentavano un momento di progresso e non di decadenza, a differenza di quanto comunemente si riteneva.
L’articolo di Jaime Alvar (” Promenade por un campo de ruinas. Religiones orientales y cultos mistéricos: el poder de los conceptos y el valor de la taxonomía”, pp. 119-134) va controcorrente rispetto alla gran parte delle posizioni attuali degli studiosi, poiché manifesta la volontà di salvaguardare, almeno in parte, l’idea di Cumont, raggruppando alcune delle divinità dette orientali sulla base di caratteristiche comuni. Non si potrà infatti negare che le religioni di Mitra, di Iside e Serapide, di Cibele e Attis e anche di Cristo avessero alcuni elementi di contatto che le distinguevano dal canonico pantheon romano e dalla maggioranza dei culti dell’impero: le cerimonie iniziatiche, il silenzio da rispettare, la salvezza da raggiungere.
Intorno al termine “sincretismo” si sviluppa il contributo di Paolo Xella (” Syncrétisme comme catégorie conceptuelle: une notion utile?”, pp. 135-150), il quale ripercorre in maniera chiara e sintetica il recente dibattito sull’opportunità dell’uso di questa parola che ha ricevuto nel tempo connotazioni ora positive e ora negative; la ragionevole conclusione alla quale giunge è che, pur non arrivando a dire che la discussione sui concetti sia superflua, è necessario non perdere di vista il terreno della ricerca storica concreta.
La terza sezione (“À la croisée des pratiques, des discours et des images: spécificités, parentés”), dopo l’illustrazione da parte di Ted Kaizer della situazione religiosa di Dura Europos (“Patterns of worship in Dura-Europos. A case study of religious life in the Classical Levant outside the main cult centres”, pp. 153-172), presenta due articoli di ambito isiaco: il primo di John Scheid (“Le statut du culte d’Isis à Rome sous le Haut-Empire”, pp. 173-186), nel quale egli sostiene con una solida argomentazione che il culto di Iside sarebbe diventato ufficiale solo all’inizio dell’età flavia e che il tempio presso il quale Vespasiano e Tito dormirono la notte che precedette la celebrazione del loro trionfo sarebbe stato all’epoca in uno stato molto avanzato di costruzione; il secondo di Richard Veymiers (“Sérapis sur le gemmes et bijoux antiques. Un portarait du dieu en images”, pp. 187-214), che dà prova di essere attualmente uno dei maggiori esperti di gemme di Serapide.
Seguono i contributi mitraici di Marleen Martens (“The mithraeum in Tienen (Belgium). The remains of a feast in honour of Mithras”, pp. 215-232), che dimostra come l’archeologia possa ancora contribuire a una più ampia conoscenza dei fenomeni religiosi dell’antichità, a mettere in discussione teorie ritenute solide e a porre nuovi quesiti, e di Valérie Huet (“Reliefs mithriaques et reliefs romains traditionnels : essai de confrontation”, pp. 233-256), che colloca le rappresentazioni mitraiche all’interno del sistema iconografico della religione romana.
Chiudono la sezione gli articoli di Jean-Marie Pailler (“Sabazios. La construction d’une figure divine dans le monde gréco-romain”, pp. 257-291) e di Giuseppe Garbati (“L’immagine di Bes in Sardegna: appunti su un “indicatore morfologico””, pp. 293-308). Nel primo una storia degli studi su Sabazio è seguita dall’analisi di alcuni reperti iconografici legati al culto del dio; dalla ricerca emergono la verticalità come ascensione dalla terra al cielo e l’ordine interno che vige in tali raffigurazioni. Libero da preconcetti e da definizioni ritenute fuorvianti lo studioso propone un’interpretazione che risulta aderente alla documentazione archeologica conservata. Nel secondo contributo Giuseppe Garbati si dedica alle statue del dio Bes rinvenute in Sardegna ad Aquae Ypsitanae – Forum Traiani, Maracalagonis e Bitia; l’autore sembra propendere sostanzialmente per la loro datazione ad epoca romana, sottolineando però la continuità con l’ambito punico. Egli infatti punta la propria attenzione sulla capacità dell’immagine di Bes di oscillare fra tradizione e innovazione e di fungere quasi da cerniera tra Eshmun, Esculapio ed Iside, anche se in quest’ultimo caso sembra manifestare qualche dubbio.2
La quarta sezione (“Transferts, ancrages et identités”) si apre con il contributo di Yulia Ustinova (“Orientalization: Once, Twice, or More? Iranian Elements in the Religion of the Greek Cities of the Northern Black Sea Litoral”, pp. 311-324) che presenta la situazione delle città greche della costa settentrionale del Mar Nero, evidenziando una spaccatura culturale fra la parte occidentale, fino al I sec. d.C. più legata alla tradizione greca, e quella orientale, maggiormente sensibile agli influssi provenienti dall’area iranica.
All’articolo di Elena Muniz Grijalvo (“The Cult of the Egyptian Gods in Roman Athens”, pp. 325-341), che illustra il buon successo che ebbero i culti isiaci ad Atene, seguono tre contributi che si soffermano in particolare sulle fonti letterarie: Porfirio, del quale si occupa Pier Franco Beatrice (“The Oriental Religions and Porphyry’s Universal Way for Soul’s Deliverance”, pp. 343-368); lo Pseudo-Melitone, presentato da Jane L. Lightfoot (“Pseudo-Meliton and the cults of the Roman Near East”, pp. 387-399); Firmico Materno, che Aude Busine (“De Porphyre à Franz Cumont: la construction des religions orientales de Firmicus Maternus”, pp. 413-426) identifica correttamente come punto di partenza per la “costruzione” dell’opera di Cumont che questi atti hanno degnamente celebrato.
Completano il panorama offerto dalla sezione le figure carismatiche di Apollonio di Tiana e degli stiliti che sono al centro delle analisi di Danny Praet (“Le néopythagorisme, les Baals syriens et les divinités planétaires. Les théories de Franz Cumont et le cas de la Vie d’Apollonius de Tyane“, pp. 369-385) e di Chiara Cremonesi (“La Siria “selvaggia”: la performance ascetica degli stiliti tra psicologia della “razza” e “pillar religion””, pp. 401-412).
L’ultima sezione (“En guise de conclusion”) è dedicata unicamente ad una dissertazione di Robert Turcan (“Une aporie de la tradition littéraire sur le Lion mithriaque”, pp. 429-448), il quale risolve in maniera molto convincente un problema prodotto dall’errata interpretazione di un testo di Porfirio (debitore di una fonte probabilmente di età adrianea) pertinente al culto di Mitra con l’ausilio della documentazione iconografica; lo studioso francese individua nel leontocefalo l’iniziato al grado di leo avvolto da ogni sorta di forma animale di cui si parla nel De Abstinentia (IV, 16, 3). Tale risultato porta l’autore ad affermare la necessità di non dissociare mai l’archeologia dalla filologia e di attribuire sempre uguale peso ad ogni tipo di documentazione.
La ricchezza e la qualità dei contributi qui illustrati dimostrano quanto sia vivo l’interesse intorno a questi temi; nel complesso questi atti rappresentano un importante tassello per la ricostruzione storica dei fenomeni religiosi dell’antichità, nonostante sembrino un po’ eccessive le energie spese a togliere éo a mettere le virgolette o le caporali alle religioni orientali.
Notes
1. Sebbene la maggior parte delle affermazioni degli autori siano molto interessanti, appare eccessivo ritenere che l’uso del latino nelle iscrizioni sia un elemento utile a determinare la definitiva bocciatura del concetto di “culti orientali”.
2. In considerazione della presenza ad Aquae Ypsitanae – Forum Traiani del culto di Esculapio e delle Ninfe è probabile che le statue rinvenute nel sito fossero pertinenti a un tempio nel quale si veneravano divinità terapeutiche, e non ad un iseo. Sul rapporto fra il dio Bes e la gens isiaca si veda M. Malaise, Pour une terminologie et une analyse des cultes isiaque, Mémoires de la Classe des Lettres de l’Académie royale de Belgique, 35, Bruxelles 2005, pp. 79-80.