BMCR 2010.02.75

Sécurité collective et ordre public dans les sociétés anciennes. Entretiens sur l’antiquité classique, 54

, , Sécurité collective et ordre public dans les sociétés anciennes. Entretiens sur l'antiquité classique, 54. Genève: Fondation Hardt, 2008. x, 340. ISBN 9782600007542. Fr. suisses 70.00.

Nell’ Introduction, P. Ducrey sottolinea l’importanza di riunire sette studiosi apprezzati intorno a temi di loro specifica competenza per creare uno degli Entretiens sur l’antiquité classique per i quali la Fondation Hardt è giustamente famosa. In particolare il tema della sicurezza e dell’ordine pubblico è stato prescelto anche grazie all’interesse attuale che esso riveste.

Il primo saggio è di H. van Wees, Stasis, Destroyer of men. Mass, Elite, Political Violence and Security in Archaic Greece (pp. 1-39). L’autore descrive la società greca arcaica ed i violenti conflitti politici ed economici che coinvolgevano non solo le élites ma larghi strati delle comunità, mettendo in rilievo come tali conflitti non erano molto dissimili dalle staseis della Grecia classica. Nelle loro opere i poeti mostrano come le lotte intestine, più che gli attacchi dei nemici, abbiano effetti distruttivi sulle città, in una visione comune anche agli storici. Van Wees analizza le varie forme di violenza delle élites, in particolare il colpo di stato, spesso realizzato con poco spargimento di sangue, ma a volte attraverso la violenza armata. Le rivalità tra le élites per gli onori e il peso politico creava grande insicurezza nella città arcaica; il principale tentativo di contenere questa violenza fu costituito dalle riforme di Clistene che, secondo lo studioso, diedero grande protezione ai poveri contro gli abusi. L’ostracismo, poi, offrì un mezzo perfetto per convogliare in canali non violenti sia le rivalità nelle élites sia lo scontento popolare. Discussione alle pp. 40-48.

W. Riess, Private Violence and State Control. The Prosecution of Homicide and its Symbolic Meanings in Fourth-Century BC Athens (pp. 49-92). Lo studioso si chiede dapprima come riuscì lo stato ateniese a contenere la violenza non essendo dotato di una regolare forza di polizia; e, quindi, quanta autotutela sia accettabile in uno stato che ufficialmente proclama il razionale governo della legge. Nella persecuzione dell’omicidio la tensione tra autotutela privata e controllo statale rimane evidente anche in età classica. La normale procedura con la quale la famiglia della vittima cominciava a perseguire l’omicidio era la dike phonou, ma l’autotutela aveva un ruolo di primo piano nella seconda tra le procedure più importanti, l’ apagoge. Riess analizza la flessibilità procedurale del diritto ateniese da una prospettiva simbolica. Per lo studioso, infatti, la scelta della procedura invia messaggi simbolici alle varie corti sottolineando differenti concetti di diritto e coinvolgendo la comunità politica a vari livelli: scegliendo una dike phonou, per esempio, sembra che si volesse enfatizzare la legalità dell’iniziativa; scegliendo un’ apagoge, invece, si enfatizzava il fatto che il crimine aveva delle amplissime dimensioni politiche. Dopo un esame minuzioso di tutti i casi di omicidio e della relativa procedura di repressione attestati dalle fonti, Riess perviene alla conclusione che il diritto ateniese in questa materia era fondamentalmente orientato su base privata, con la dike phonou che era la procedura primaria. Riguardo alla tensione tra autotutela e controllo statale il diritto ateniese era un ibrido: da una parte, effettivamente, il controllo statale non poteva far nulla senza iniziativa privata e autotutela; dall’altra, Draconte aveva intrapreso passi decisivi per ridurre la faida di sangue, almeno nei casi di omicidio involontario. Alla fine una Appendix (pp. 93-94), nella quale sono elencati gli omicidi attestati ad Atene tra il 422 e il 350 a.C. e la forma della loro repressione, e la Discussione (pp. 95-101).

A. Chaniotis, Policing the Hellenistic Countryside. Realities and Ideologies (pp.103-145). In molti decreti del mondo ellenistico ricorrono espressioni formulari che esprimono una delle necessità fondamentali delle comunità greche di questo periodo: la tutela della chora. Anche quando tali iscrizioni non sono specificamente rivolte ad esigenze protezionistiche del territorio, ma ineriscono alla materia fiscale o finanziaria, la preoccupazione relativa alla phylake tes choras risulta essere un dato costante. Chaniotis in sei paragrafi ricostruisce l’ideologia sottostante alla salvaguardia degli interessi territoriali delle comunità interessate, vagliando le singole realtà esaminate attraverso il puntuale richiamo epigrafico. Lo studioso introduce l’argomento presentando un decreto ateniese del 325 a.C. (IG. II 2 1629); sono poi illustrate sei differenti prospettive sulla sicurezza dei luoghi e sui pericoli cui la popolazione può essere esposta. Si occupa, quindi, dettagliatamente della varietà di pericoli per il territorio: invasioni nemiche; attacchi di briganti perpetrati ai danni di viaggiatori, commercianti, pellegrini e pastori; incursioni di gruppi di etnia barbara; comportamenti illeciti di soggetti che sfruttano indebitamente le risorse della chora; assalti di pirati o di altre comunità; conflitti civili; rivolte di guarnigioni nei forti e occupazione dei forti stessi da parte di esuli. La fuga di schiavi invece sembra rappresentare un pericolo solo in situazioni eccezionali; tuttavia, specifiche norme regolavano la loro permanenza nei santuari come supplici e la loro cattura. Sono poi analizzate le misure di difesa impiegate, quali la costruzione di postazioni fortificate vigilate da guarnigioni, o l’istituzione di truppe regolarmente addette alla sorveglianza, ma anche inviate da sovrani stranieri, o, infine, presidii di milizie cittadine, composte in genere da efebi. Nelle città di consistenti dimensioni le iscrizioni testimoniano la presenza di ufficiali preposti esclusivamente alla salvaguardia del territorio. Le funzioni di controllo degli (h)orophylakes sono trattate da Chaniotis in un apposito paragrafo (il 5, erroneamente indicato come 4), in cui è evidenziata la variabilità delle loro prerogative in base al contesto geografico considerato. In chiusura sono esaminate epigrafi aventi ad oggetto le dedicazioni religiose compiute dalle guardie territoriali in cave e santuari: tra le attività di questi corpi esse sono quelle meglio attestate dalle fonti. Discussione alle pp. 146-153.

C. Brélaz, L’adieu aux armes: La défense de la cité grecque dans l’empire romain pacifié (pp. 155-196). In questo contributo, dal titolo suggestivo, lo studioso illustra come le città greche durante il principato romano abbiano accettato di abdicare ai loro diritti di fare guerra e come la smilitarizzazione abbia pesato nella storia della mentalità. Brélaz ritiene interessante studiare le ragioni per le quali si mantennero uno spirito militare e le manifestazioni relative in zone pacificate quali le comunità greche nell’età imperiale romana. Esordisce con un discutibile paragone tra le città oggetto, appunto, del suo studio, e la Svizzera, uno stato dove pur non essendoci guerre da più di 100 anni continuano a mantenersi vivi simboli ed istituzioni militari.1 Compie quindi un’ampia panoramica dei problemi di smilitarizzazione delle città greche, della pax Romana dal punto di vista dei Greci, della conservazione della cultura militare, dell’immagine del soldato e sull’ ephebia come istituzione tradizionale tipicamente militare; del ruolo delle mura; del problema della “guerra fantasma”, cioè la competizione tra le città greche per ottenere onori e privilegi. Mette in rilievo come i conflitti interni sfociarono spesso in rivolte, assimilate dagli autori contemporanei ad atti di guerra, e come lo spirito militare delle città risorgesse in caso di saccheggio da parte di briganti o incursioni di barbari. In base a tutto questo, nelle “Conclusions” sottolinea l’attualità della tradizione militare e del tema della guerra nella vita pubblica di queste comunità, benché fossero state private del loro apparato militare, attraverso la conservazione di simboli militari. Queste città cercavano in vari modi di gestire la materia militare: attraverso l’idealizzazione del passato militare, nelle forme di espressione artistica, nell’esaltazione dei valori militari nella vita politica interna ed esterna e con l’esaltazione di ogni dimostrazione di forza. La tradizione militare, per quanto profondamente attenuata, sopravvive durante il principato e la guerra rimane una potenzialità, ragion per cui Brélaz può individuare caratteri di continuità dell’identità civica greca dall’epoca ellenistica fino a quella imperiale. Discussione alle pp. 197-204.

A. W. Lintott, How High a Priority did Public Order and Public Security have under the Republic (pp. 205-220). Nella prima parte dell’indagine evidenzia come durante la repubblica i Romani probabilmente consideravano la sicurezza sociale come il risultato di un conflitto piuttosto che della repressione. Tuttavia nel lungo periodo appare chiaro che la pace sociale poteva essere minata dai disordini prodotti mediante l’uso della violenza privata anche se finalizzata alla sicurezza e all’ordine pubblico. Lintott ritiene che la violenza “non produttiva” sia stata progressivamente eliminata dall’ordinamento romano. Le norme delle XII Tavole in materia di procedura civile ed esecuzione e quelle relative agli illeciti privatistici utilizzavano il principio di “giustizia popolare” nell’interesse dell’ordine giuridico; con la formalizzazione della in ius vocatio e l’introduzione del vadimonium queste procedure furono modificate. Fondamentale per cogliere la relazione tra diritto e violenza è la tutela interdittale della possessio : nella valutazione pretoria la vis diventa il parametro per discriminare la legittimità del possesso attuale e della pretesa restitutoria dello spoliatus; solo in ipotesi particolari il pretore poteva concedere eccezioni. A partire dall’età dei Gracchi la legislazione repubblicana comincia a reprimere in maniera sistematica la vis. Nella seconda parte del contributo lo studioso si sofferma sul ruolo dei tribuni della plebe nella storia della violenza politica. Dopo aver ricordato l’origine di questa magistratura, ed aver sottolineato l’importanza politica dell’ intercessio tribunicia, Lintott esprime la convinzione che le prerogative dei tribuni potessero essere impiegate anche in chiave riconciliativa, allo scopo di evitare i disordini, come chiarito in alcuni episodi riferiti dalle fonti (Gell. N.A. 4. 14. 1-6; Liv. 42. 32. 7; Livii Per. 48; 55). Con la lex Sempronia de capite civium furono aperte le porte al sistema delle quaestiones perpetuae le quali, oltre che oggetto di continua contesa tra senato e ceto equestre, costituirono anche una valvola di sicurezza per il risentimento e l’agitazione popolare: il corretto funzionamento di questi tribunali costituì per i Romani un’alternativa allo scontro violento. Discussione alle pp. 221-226.

R. MacMullen, The problem of the fanaticism (pp. 227-260). In questo suggestivo studio, MacMullen descrive il fanatismo, sconosciuto alle religioni politeistiche, come una devozione a una fede religiosa per la quale si è disposti anche a morire e le sue caratteristiche: il sentimento monoteistico per un solo dio; l’irrazionalità delle azioni; la difficoltà di controllo e il fatto che costituiva effettivamente un problema politico interno durante l’impero. Dopo aver illustrato il fenomeno attraverso le pagine di Flavio Giuseppe, in relazione alle tre rivolte ebraiche, descrive l’ostilità fra Ebrei e non Ebrei, e si sofferma sulle violenze contro la comunità cristiana e la persecuzione dei Cristiani da parte dei non Cristiani, che presentano caratteristiche analoghe a quelle degli Ebrei, soprattutto perché “they endured the most exquisite agonies with a smile” (p. 237). Il punto fondamentale, per lo studioso, è che il fanatismo è “a thing not of calculations but of feelings” (p. 235). Anche nel tardo impero i contrasti dovuti al fanatismo non furono sopiti: si diffusero quelli originati dalle diverse correnti religiose (Donatisti, Cecilianisti, Meliziani, ecc.): un dialogo tra i differenti gruppi basato sulla ragione era quasi impossibile. Il fanatismo era basato essenzialmente sulle emozioni, e non può essere spiegato se non entrando “in the affective zones of their (scil. of the fanatics) mind, not the cognitive”.2 Discussione alle pp. 252-260.

Y. Rivière, L’Italie, les îles et le continent. Recherches sur l’exil et l’administration du territoire impérial (Ier-IIIe siècles) (pp. 261-310). In questo bel saggio, lo studioso sceglie di affrontare il tema da un punto di vista cronologico, partendo da un approfondimento delle caratteristiche dell’esilio a partire dal principato di Augusto; egli nota come a seconda dei periodi storici emergano preferenze per determinati gruppi di isole (tirreniche sotto il primo dei principes, da Tiberio in poi le Cicladi), e differenze anche nelle conseguenze patrimoniali per l’esiliato: sotto Augusto quest’ultimo poteva conservare il patrimonio ed avere anche un certo numero di accompagnatori; in seguito viene a trovarsi in condizioni molto più misere. In epoca alto imperiale i condannati sono esiliati anche nelle isole del Mediterraneo occidentale, che essendo molto più grandi offrivano in genere condizioni di vita migliori; nel tardo impero invece in quelle dell’Adriatico. Scopo dell’esilio era principalmente l’allontanamento da Roma del condannato ed il suo isolamento: costituisce di certo una manifestazione della potenza dell’imperatore, che poteva far mutare la condizione dell’esiliato con un atto di indulgentia. Dopo le riforme di Augusto e Tiberio l’istituto vive per tre secoli: vi sono la relegatio in insulam, che lasciava la cittadinanza al relegatus, persiste l’ aqua et igni interdictio (tipica dell’età repubblicana) e nell’epoca dei Severi viene introdotta la deportatio, che implicava la perdita della cittadinanza; le condizioni del relegatus sono ampiamente illustrate dai Digesta giustinianei, che danno altresì notizie sul ruolo subordinato al princeps del governatore della provincia nella gestione della condanna. Negli archivi imperiali, tuttavia, non vi sono notizie sui relegati, ma solo sui deportati, perché le sentenze ad essi relative dovevano essere vistate dal principe. Queste notizie sull’esilio testimoniano per Rivière soprattutto lo sforzo di razionalizzazione dei Romani.

Épilogue di C. Brélaz et P. Ducrey (311-316): gli studiosi fanno un bilancio dell’incontro di studio, notando come gli autori abbiano cercato di chiarire fino a che punto i problemi della sicurezza e dell’ordine pubblico siano stati presenti nelle varie epoche e come, di volta in volta, siano stati affrontati, con attenzione alle forme espressive utilizzate dalle fonti ed ai mezzi attuati per contrastare le minacce, e come le questioni dell’ordine pubblico abbiano costituito una preoccupazione costante dei regimi dell’antichità. Chiudono il volume un Index Locorum (pp. 317-334), che è però anche un indice dei nomi antichi, e l’ Index auctorum recentiorum (pp. 335-340).

Questo volume costituisce un’opera di forte interesse, seppure soprattutto per gli specialisti. Anche se, infatti, presenta le fonti quasi sempre in traduzione, questo non è sufficiente a permetterne la lettura ad un pubblico non specializzato. Un elemento da sottolineare è il ricco dibattito che segue ogni saggio, che contribuisce a chiarire aspetti particolari delle singole relazioni, ed a volte contiene importanti approfondimenti dei vari temi discussi. Nel complesso il libro presenta una visione molto sfaccettata e direi quasi esaustiva di come il problema dell’ordine pubblico, della violenza in chiave antigiuridica e degli oppositori del regime sia stato posto nell’antichità greca e romana e come di volta in volta, a seconda dei mezzi a disposizione e delle diverse situazioni politiche, l’ordinamento abbia cercato di creare dei rimedi.

Notes

1. Il paragone non mi sembra particolarmente calzante (per tacere delle epoche e, quindi, dei contesti così enormemente diversi), per l’evidente differenza della condizione politica: la Svizzera è uno stato sovrano, le città greche erano sottoposte a Roma.

2. Il ruolo delle emozioni anche nel campo del diritto è oggetto di dibattito non solo negli Stati Uniti a partire dagli anni 90 del XX secolo: importante su questo tema il lavoro di Martha C. Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, 2001; trad. it. L’intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2004.