Il volume, nato come rielaborazione di una tesi di dottorato in filologia svolta presso l’Università di Udine, introduce, traduce e commenta la sezione della Tebaide di Stazio dedicata alla gara dei carri, un soggetto già trattato nel XXIII canto dell’Iliade, e che Virgilio aveva trasfigurato nella forma di una regata nel V canto dell’Eneide: come in tali modelli la gara si inserisce nel contesto di un più ampio apparato di giochi funebri, in questo caso costituiti dai ludi in onore di Archemoro, nome alternativo dell’infante Opheltes, figlio del re Licurgo e di Euridice: la morte del fanciullo, causata dal morso di un serpente, era stata indirettamente favorita dalla distrazione della balia Hypsipyle, già amante di Giasone, allontanatasi per indicare una sorgente agli eroi della spedizione argiva.
La gara, preceduta dalla pompa, è la prima a svolgersi dopo le esequie del bambino: sette ne sono i concorrenti ed essa si differenzia dal modello omerico anche nella categoria agonistica rappresentata, quella delle quadrighe (attacco a quattro cavalli), contro le sole cinque bighe che si cimentavano nell’Iliade. I partecipanti sono gli eroi Polinice, Admeto, Anfiarao, Thoas, Euneo, Chromis ed Ippodamo. Un certo spazio è dedicato dal poeta anche alle figure equine, fra le quali spicca nettamente quella del cavallo divino Arione, che dal re argivo Adrasto viene prestato al genero Polinice. La gara è preceduta da una descrizione dello spazio agonale, che sembra riflettere la realtà del Circo Massimo, piuttosto che la pianura di Nemea.1
Al suono della tromba i cavalli si slanciano con furore dai carceres, rimanendo per un tratto indistinti in una nuvola di polvere, ma dopo poco si definiscono le posizioni, permettendoci di assistere ad una serie di scontri diretti fra coppie di concorrenti: in fondo al gruppo Ippodamo e Chromis, entrambi figli di genitori illustri dei quali non sono all’altezza, Enomao ed Eracle rispettivamente, ed accomunati dal tratto distintivo della ferocia, si battono senza risparmio di scorrettezze per evitare l’ultima posizione. Davanti a loro, Euneo e Thoas, figli di Giasone ed Hypsipyle, al fine di prevalere l’uno sull’altro si impegnano invece in una sorta di virtuoso duello.
Nella posizione di immediato rincalzo si scontrano invece Admeto re della Tessaglia ed il vate Anfiarao, sul quale ultimo incombe un tragico destino di morte: è per questo motivo che Apollo, pur essendo affezionato ad entrambi, decide di favorirlo per la vittoria finale nella gara. In testa alla corsa figura la coppia costituita dal cavallo Arione e dall’auriga Polinice che, pur facendo parte di un medesimo equipaggio, sono in evidente contrasto. Polinice, incapace di governare il cavallo figlio di Posidone, finirà per essere sbalzato a terra all’apparizione di un mostro anguicrinito suscitato da Apollo,2 mentre Arione proseguirà la corsa, assieme agli altri cavalli della quadriga, conseguendo una vittoria solo platonica.
Il primo posto verrà infatti attribuito ad Anfiarao, che sul traguardo ha seguito a breve distanza la quadriga scossa (e dunque squalificata) di Polinice,3 aggiudicandosi il premio costituito da un cratere sbalzato, un tempo appartenuto ad Ercole, mentre il secondo premio, costituito da una clamide ricamata con il mito di Ero e Leandro, diviene appannaggio di Admeto. Polinice riceverà dal suocero un premio di consolazione consistente in una schiava,4 mentre al terzo posto e senza premio si classifica Euneo, unico superstite delle retrovie: qui si è verificata la caduta di Toante, al quale il fratello aveva invano cercato di portare soccorso, perché ostacolato dalla quadriga di Ippodamo, il quale a sua volta è stato bloccato e fatto cadere da Chromis. Questa serie di scorrettezze viene riscattata dal bel gesto dello stesso Chromis, che in extremis ha fermato i suoi cavalli sul punto di divorare Ippodamo.5
Se questa grosso modo è la vicenda narrata nella sezione presa in considerazione per il commento, l’attenzione dell’editore si rivolge in primo luogo agli aspetti allusivi e metatestuali del poema. Con riferimento ad altri lavori anche recenti incentrati su questo aspetto,6 Pavan ritiene che la rappresentazione dei giochi sportivi in Stazio sia una anticipazione della dimensione bellica prevalente nella seconda parte del poema e non perde occasione per evidenziare simmetrie ed antinomie che collegano la descrizione della pompa e lo svolgimento della gara dei carri con il futuro sviluppo della vicenda tebana,7 mentre l’aspetto negativamente più significativo della gara nemea, cioè il manifestarsi della incapacità di Polinice alla guida di Arione, viene messo a confronto con il luogo ovidiano in cui è trattato il mito di Fetonte.8
Analizzando il lavoro di Pavan nelle singole parti, francamente sorprende la consapevole rinuncia ad una considerazione critica del testo di Stazio, troppo sbrigativamente giustificata nelle note iniziali con l’assenza di “questioni filologiche particolarmente complesse”.9 Sussistono tuttavia almeno un paio di questioni testuali di un certo rilievo le quali, contrariamente alla dichiarazione iniziale, non solo non vengono risolte, ma nemmeno affrontate o segnalate nel commento: al v. 458 è accolta la lezione is furor in laudes (“tanto irrefrenabile è la brama di gloria”), senza alcuna discussione della variante it furor in laudes (“la ferocia suscita apprezzamenti”); la lezione del v. 524 ( Ascheton increpitansque levem Cycnumque nivalem) è molto diversa da quella accolta nel saggio di Lovatt citato a nota 6, p. 27 ( increpitans Caerumque levem Cygnumque nivalem), ma nel commento la possibilità di letture divergenti in merito a questo verso non viene nemmeno rilevata, mentre acriticamente viene addotto il parallelo del v. 463 ( Ascheton increpitans meritumque vocabula Cycnumque), che probabilmente è solo la fonte della lezione adottata.
Nella traduzione non troppo di rado affiorano oscurità,10 improprietà 11 e inaccuratezze,12 mentre in alcuni punti la stessa intelligenza del testo di Stazio potrebbe essere migliorata, in particolare là dove la traduzione omette di cogliere, nella descrizione del ‘circo’ naturale in cui si svolgono i giochi, la caratteristica spina (o Euripus)13 coronata di architetture ornamentali: suggerirei pertanto di rimpiazzare la traduzione dei versi 258-26014 con la seguente: e pareti di foglie e molli architetture innestate nella viva terra rialzano questa pianura nel lungo tramezzo con alture non ripide. Ugualmente sfugge all’autore che i gemini umbones che delimitano il campo (v. 257) richiamano le due torri dell’ oppidum circense.
Nel commento vengono sistematicamente evocati i luoghi paralleli, siano essi derivati dalla narrazione di altre gare ippiche,15 o dall’utilizzazione in contesti poetici di figure e metafore tratte dal contesto circense,16 o comunque equestre,17 ma anche dall’intero patrimonio letterario latino, per evidenziare i più svariati incroci metatestuali.18 Fra i vari appunti che si possono muovere nel dettaglio evidenziamo i seguenti: a proposito delle metae (pp. 165-167) si omette di evidenziare che le duplici mete staziane (quercia e masso) sono frutto di uno sdoppiamento dell’unica meta omerica (Il. 23, 327-330), costituita da un tronco di quercia o pino con due massi appoggiati. A p. 184 vi è una confusione a proposito della linea tracciata con la calce, che non si trova immediatamente all’uscita dei carceres, bensì all’inizio della dirittura, come evidenziato anche dal mosaico circense di Lione.19 A p. 191 le criniere dei cavalli, che si trovano all’interno dei carceres, non possono essere “aggrovigliate per il sudore e l’aria sollevata dalla corsa”, che non è ancora iniziata, ma sono state artificiosamente acconciate. A p. 231, in relazione alla caduta e al successivo trascinamento di Polinice, si omette di ricordare il costume etrusco e latino (ma non greco) di legare le redini attorno alla vita dell’auriga.
La bibliografia è articolata in quattro sezioni: edizioni della Tebaide, edizioni di altri autori, opere di consultazione generale e saggi. Fra gli apparati figura un indice delle parole latine, uno delle cose notevoli, uno dei nomi propri, e la concordanza dei vari autori citati nel commento.
Al di là degli appunti mossi a singoli aspetti della traduzione o del commento (si può ancora evidenziare una certa sproporzione fra la parte iniziale più dettagliata, ed una certa sommarietà conclusiva: 120 pagine per i primi 150 versi; 65 pagine per i restanti 160), non è facile dare una valutazione complessiva del lavoro, che sviluppa certamente un discorso molto ambizioso, incentrato sugli aspetti metatestuali, il cui approfondimento è oggi evidentemente potenziato da nuovi strumenti. Personalmente ho trovato stimolante la lettura di questo commento che, pur limitandosi ad una sezione circoscritta di un autore secondario per quanto importante, può tuttavia imporsi come una significativa esercitazione di metodo.20
Notes
1. Una recente messa a punto sul santuario e i giochi Nemei in M. Mari, Festa mobile. Nemea e i suoi giochi nella tradizione letteraria e nell’evidenza materiale, in “IncidAntico” 6, 2008, 91-132.
2. L’apparizione del mostro corrisponde alla funzione che si riteneva venisse esercitata dal Taraxippos ad Olimpia (Pausan. VI, 20, 15) e da simili ordigni in altri ippodromi della Grecia (nel vero ippodromo di Nemea da una pietra di colore rossastro; in quello dell’Istmo da una statua di Glauco: Pausan. VI, 20 19), ma di questo nessuna parola nel commento; a Roma tale funzione era probabilmente affidata alla pantera con Cibele che, come si può vedere in alcune rappresentazioni, era raffigurata al centro della spina nell’atto di spiccare un balzo.
3. La vittoria del cavallo scosso, almeno nella corsa del cavallo montato, era consentita nel mondo greco, come dimostra il celebre episodio della cavalla Aura, appartenente a Pheidolas di Corinto (Pausan. VI, 13, 9; L. Moretti, Olympionikai: i vincitori negli antichi agoni olimpici, Roma 1958, nr. 147). Plin., Nat. Hist. VIII, 65, 160, riferisce di un episodio (omesso da Pavan) avvenuto al tempo di Claudio, in cui una quadriga della fazione bianca, dopo aver perduto alla partenza l’auriga Corax, proseguì la sua corsa fino al traguardo: non sappiamo se in questo caso l’eventuale vittoria venisse ratificata, ma la cosa, proprio alla luce del testo di Stazio, non sembra probabile.
4. L’eventuale implicazione erotica di tale premio (valutabile alla stregua delle schiave contese fra Agamennone e Achille) non è stata discussa da Pavan.
5. Il gesto di Chromis sarà da intendere come allegoria dell’auriga che sacrifica la competizione al fine di risparmiare un collega rimasto inerte sulla pista; il passo di Stazio, VI, 485-490, ci insegna che il pubblico romano sapeva apprezzare tal genere di fair play.
6. In particolare H. Lovatt, Statius and Epic Games. Sport, Politics and Poetics in the Thebaid, Cambridge 2005, con le pp. 23-54 dedicate alla corsa delle quadrighe.
7. Tale argomento potrebbe essere in qualche modo tautologico, data la funzione pre-militare che in generale veniva riconosciuta allo sport nell’antichità.
8. Ovidius, Metamorphoses II. Questo parallelo è del resto esplicitamente evocato da Stazio ai vv. 320-325.
9. Pavan dichiara di attenersi al testo curato da D.E. Hill, Leiden 1996, riservando al commento osservazioni di natura filologico-esegetica.
10. Ad esempio al v. 264, non capisco come al latino habitus possano corrispondere nella traduzione “gli equipaggi”; ai vv. 414-415 al posto del matematico “apparvero separati dallo spazio che ciascuno aveva percorso” (Pavan, con rif. a Shackleton Bailey (ed.), Statius, Thebaid, London 2003), si deve intendere che gli equipaggi “apparvero distanziati nella posizione che ciascuno meritava”.
11. Al v. 316 la traduzione di Pavan “Adrasto accondiscende che sia il genero a cavalcar(e Arione)” travisa il fatto che il cavallo viene in realtà aggiogato e non montato; al v. 392, non si può dire che gli equipaggi “attendono dietro un unico cancello”, ma piuttosto dietro a una sola linea ( margo), essendo i cancelli dei carceres tanti quanti gli equipaggi; non mi spiego poi come il v. 459 venga reso con “molti zoccoli si spezzano nella traversata del campo”, quando il senso ben chiaro, anche alla luce del commento p. 213, è che molti zoccoli si spezzano nell’ intersecarsi delle traiettorie; al v. 466 varius che, anche alla luce dell’evocato v. 336, indica un manto grigio pomellato, viene tradotto con baio (interpretazione ripetuta nel commento, p. 216), colore equino che nel latino ha invece il suo diretto equivalente in badius.
12. Viene accolta l’esistenza di una lacuna nel testo latino dopo il v. 357, ma nella traduzione tale difficoltà è aggirata senza evidenziare l’intoppo; al v. 389, mi sembra, Protoo non è “designato a sorte” (valore passivo di sortitus), bensì procede al sorteggio (valore attivo di sortitus), con hysteron-proteron che corrisponde all’atto stesso del rimescolamento (delle sorti): ma pure in questo caso la traduzione sembra contraddetta dal commento; al v. 483, aestus da intendere come ‘la marea’, ‘la corrente’, è reso in maniera poco felice come “il bollore dell’acqua”, interpretazione che pure alla luce del commento (p. 223: si tratterebbe del mare mosso) risulta inaccettabile, in quanto le navi sono solo tenute ferme e non sbattute dalle onde.
13. Si veda l’opera di J.H. Humphrey, Roman Circuses. Arenas for Chariot Racing, Berkeley 1986, spec. pp. 175-294. Lavori recenti sul circo romano sono la sintetica trattazione di W. Letzner, Der römische Circus, Mainz 2009, ed i saggi raccolti da J. Nélis-Clement e J.-M. Roddaz in Le cirque romain et son image, Bordeaux 2008.
14. “E per un lungo sentiero in piano lo | innalzano le pendici erbose e le cime ricurve | ammorbidite pei dolci clivi dai teneri germogli” e il commento p. 72, “la corona vista alzarsi dolcemente dal piano”, il che comporterebbe una inopportuna ripetizione di quanto Stazio ha appena descritto.
15. Fra queste in particolare Silius Italicus, Punica XVI, 312-456 ; Sidonius Apollinaris, Carmina 23, 307-427.
16. Ennius, vv. 79 ss. Skutsch; Horatius, Saturae I, 1, 113 ss.; Vergilius, Georgica III, 103-114; Aeneis V, 144-147, per citare solo alcuni degli esempi più rilevanti.
17. Così ad esempio, relativamente al naufragium di Polinice, il racconto della morte di Ippolito in Seneca, Phaedra, 1083-1089. [ Questo sforzo, sempre interessante, a volte rischia di risultare un po’ gratuito: non mi sembra del tutto evidente perché, ad esempio, il secondo classificato Admeto, ricevendo in premio una tunica con ricamato il mito di Ero e Leandro dovrebbe vedersi “rinfacciare con il premio il sacrificio di Alcesti” (p. 245).
19. Su questo aspetto si veda ancora Humphrey, cit. a nota 13, p. 85. Questa linea segnava il punto in cui gli equipaggi, dopo l’uscita dai carceres, potevano cominciare a deviare verso la barriera.
20. Segnalo qui alcune espressioni che a me sembrano improprie: pagina 7, riga 5: “… perché è pericoloso nella regata spingersi al largo …” ( svantaggioso); p. 185, quarta riga: ” … fra cavalli e cavalieri…” ( ed aurighi); p. 232, undicesima riga: “ritorna inaspettatamente da Adrasto” ( insperatamente). Infine alcuni refusi: pagina 2, nota 6, riga 5: ” … 4, 646 (-7), 144 …”; p. 59, ultima riga: ” μὲ ( ν)”; p. 90, riga 7: “s(c)hema”; p. 184, 7 ultima riga: “… è (..) favorito …”; p. 192, riga 11: “404-4(0)5a”; p. 219, 3 ultima riga: “pa(.)ntings”.