Il volume raccoglie una serie di studi di ottimo spessore incentrati sul tema della ricezione dell’Antico dal Medioevo fino al Novecento, ma secondo un’angolazione ben precisa che il curatore, Ernst Osterkamp, mette ben in evidenza nella premessa, quella cioè della trasformazione della cultura classica attraverso la mediazione estetica; Osterkamp sostiene insomma l’insostituibilità del tramite artistico nella conoscenza del mondo classico e non a caso richiama il pensiero di Novalis (p. VIII): “Si sbaglia di grosso se si pensa che ci siano degli antichi. Solo ora comincia a formarsi l’antichità, sotto gli occhi e l’anima dell’artista. I resti antichi sono solo stimoli specifici alla costruzione dell’antico. L’antichità non viene costruita a mano. Lo spirito la suscita tramite l’occhio, e la pietra scolpita è solo un corpo che riceve significato diventandone manifestazione” (qui nella traduzione di S. Mati). Il confronto con l’antichità, insomma, si costituisce come occasione di una continua rielaborazione dell’antichità stessa, in un processo che implica un ruolo attivo e creativo da parte delle epoche successive che a quel mondo guardano.
I vari saggi sono ordinati appunto secondo le diverse fasi storiche, a cominciare dal Tardoantico e dal Medioevo, che vengono considerati come la prima epoca di trasformazione dell’Antico. Nel primo saggio Arnold Esch (“Wahrnehmung antiker Überreste im Mittelalter”, pp. 3-39) si chiede quale fosse la percezione delle antichità nell’Europa medioevale, in particolare nel XII secolo; il percorso proposto dallo studioso, per quanto sempre ancorato a questa domanda, risulta variegato e capace di abbracciare situazioni diverse: l’atteggiamento di Impero e Papato di fronte ai possibili usi dell’antico, l’atteggiamento dei Comuni; i racconti, spesso favolosi, dei “Mirabilia Vrbis Romae” o dei “Gesta Treverorum”, una sorta di “Mirabilia” di Treviri. L’autore ribadisce lo sfondo colto e non popolare di questi testi—ben diversi dal “Codex Einsidlensis” di età carolingia (fig. 6, p. 16) —, osservando giustamente che il problema dei “Mirabilia” è che sanno troppo e hanno una risposta per tutto (p. 17), anche se tale risposta è spesso infondata. Eppure il modello interpretativo dei “Mirabilia” non è affatto destinato a scomparire col Medioevo e ancora nel XV secolo uno stesso monumento (il Pantheon ad esempio) può suggerire descrizioni differenti o addirittura contrastanti, come del resto capita anche nella pittura e nella miniatura.
Un altro aspetto rilevante della percezione medioevale dell’Antico è quello del reimpiego: qui Esch torna su un campo in cui è stato letteralmente pioniere, se è vero che risale al 1969 un suo saggio sull’argomento, ancora oggi più che mai valido. Esch affronta dunque le forme del reimpiego nelle grandi città e nelle piccole pievi (ad es. S. Martino a Poggio Moiano, in Sabina, p. 24) e si chiede quali potessero essere le spiegazioni date dai parroci ai rispettivi fedeli intorno ai marmi classici recuperati ed esposti in quei paramenti murari medioevali. Anche i cambiamenti nelle forme del riutilizzo—come un caso di reimpiego nella casa romana di Lorenzo Manili, datato e precisato nella sua provenienza topografica (fig. 9, p. 21)—segnalano il grande mutamento introdotto nel XV secolo dalla cultura umanistica. Tale nuova prospettiva si riflette anche nei nomi propri all’antica, e tra i vari interessanti esempi riportati dallo studioso spicca il caso attestato nel 1465 di un commerciante di Magliano in Sabina di nome Taliarcho (con chiara derivazione da Orazio, Carmina, 1.9).
In conclusione Esch torna su un argomento ben studiato anche di recente (N. Gramaccini)—quello del confronto con le statue di divinità antiche—offrendo la suggestione di una foto (fig. 13, p. 30) col disotterramento di una statua femminile nuda (Ostia, 1939), fotografia che ci aiuta a ricostruire quella mescolanza di sorpresa, attrazione e inquietudine che doveva suscitare in età medioevale l’improvvisa apparizione di immagini antiche come questa.
Nel saggio successivo (“‘Eine andere Antike’. Für ein ästhetisches Paradigma der Spätantike”, pp. 41-58) Marco Formisano parte da un’idea di H.-I. Marrou, citata appunto nel titolo, secondo cui l’età tardoantica fu appunto “une autre antiquité, un autre civilisation”, per osservare come il cliché del Tardoantico come decadenza, presente nella letteratura e nelle arti figurative del XVIII-XIX secolo, sia a volte penetrato anche nella ricerca storica moderna. Lo studioso fa notare come un contributo positivo a un diverso sguardo sull’epoca sia stato offerto dagli storici dell’arte antica, Alois Riegl in particolare; e così le indagini sul reimpiego (ad es. gli “spolia” nell’arco di Costantino) hanno in un certo senso aperto la strada per comprendere i meccanismi di adattamento della tradizione classica ricorrenti nel Tardoantico. La ricerca contemporanea permette di cogliere sempre più la pluralità delle esperienze culturali di questi secoli tardi, caratterizzate dalla continua modifica e reinterpretazione dei modelli letterari tradizionali; si nota, in particolare, un nuovo rapporto tra attività creativa e opera di commento e, anzi, il tardoantico si profila proprio come l’epoca per eccellenza del commentario sotto forma di parafrasi, “epitomai”, “centones”; in questi ultimi si realizza appunto una singolare tensione tra il ricupero e il rispetto degli autori classici utilizzati e lo sforzo innovativo nella costruzione dei contenuti.
Susanne Moraw (“Zweifelhafte Gestalt oder Inbegriff von ‘virtus’ und ‘sapientia’. Odysseus in der lateinischen Spätantike”, pp. 59-77) riassume l’episodio omerico di Odisseo e Polifemo per affrontarne poi la ricezione nell’iconografia tardoantica; l’episodio di Polifemo, diffuso soprattutto nell’iconografia dell’Occidente romano, viene trattato soprattutto nel momento dell’offerta del vino e in quello della fuga dalla grotta di Polifemo; si direbbe che la figura di Ulisse diventi simbolo di un uomo che se la sa cavare nelle difficoltà della vita, eroe in cui si può così identificare la classe media. I testi invece—Ps. Ausonio (“Periocha Odyssiae”), Boezio (“Consolatio philosophiae”), Fulgenzio (“Expositio Virgilianae continentiae”) —si concentrano sul momento dell’accecamento del ciclope , letto come simbolo della “superbia”, mentre Ulisse diviene simbolo dell'”ingenium”. In conclusione l’autrice osserva brevemente la ricezione rinascimentale dell’eroe, nell’emblema “Iusta vindicta” di Andrea Alciati (1531) e negli affreschi col tema dell’Odissea nella Galleria di Fontainebleau.
Ursula Rombach (“Wissen und Imagination—Distanzierung und Aneignung. Transformationen des Amazonenbildes in der Alexanderdichtung des 12. Jahrhunderts”, pp. 79-95) si concentra in particolare sull'”Alexandreis” di Walter de Châtillon (c. 1180) e sul “Roman d’Alixandre” di Alexandre de Paris per osservare secondo quali modalità venga delineata, all’interno delle narrazioni poetiche medioevali su Alessandro, l’immagine delle Amazzoni; la “barbara simplicitas” che le caratterizza nella prima opera, ancora legata al testo di Curzio Rufo, va man mano stemperandosi nella seconda, e le Amazzoni vanno acquistando i caratteri distintivi dell’ideale femminile cortese; si compie così per la Amazzoni, ma del resto per pressoché tutti i temi del romanzo d’Alessandro, una vera e propria trasformazione in senso cortese e cristiano del racconto pagano.
Thomas Haye (“Die Ästhetisierung der Zeitgeschichte aus dem Geist des antiken Epos. Begründungen lateinischer Panegyrik im frühen und hohen Mittelalter”, pp. 97-109) si concentra sul tema dei panegirici medioevali, soffermandosi in particolare su Guillaume le Breton che scrive una “Philippis” agli inizi del Duecento dedicata al re Filippo II Augusto di Francia, e offrendo così una più generale riflessione sul rapporto medioevale con i modelli classici e tardoantichi. Secondo lo studioso, gli antichi—che avevano già riletto in chiave artistica la propria storia—diventano per gli scrittori medioevali vero e proprio modello legittimante; anche lo scrittore del Medioevo può ritenere dunque percorribile la strada di una rielaborazione poetica di vicende e personaggi moderni o contemporanei. La cultura classica offre in questo senso non solo, e non tanto, dei contenuti da adattare, quanto un possibile metodo di trasfigurazione estetica degli accadimenti storici.
La sezione dedicata all’età barocca viene aperta da Tatjana Bartsch (“Transformierte Transformation. Zur ‘fortuna’ der Antikenstudien Maarten van Heemskercks im 17. Jahrhundert”, pp. 113-159), che affronta il tema della ricezione dei disegni eseguiti da Maarten van Heemskerck nel suo soggiorno romano (circa 1532-1537); come è noto i disegni dell’artista fiammingo a Roma riguardano complessi di sculture (a cominciare dalla celebri descrizioni delle collezioni, soprattutto cardinalizie, di antichità), singole statue, minutamente analizzate in tutto o in parte, come accade per i Dioscuri del Quirinale (fig. 1, p. 115), monumenti antichi come il cosidetto “Ianus Quadrifrons” (fig. 2, p. 116), infine opere del XV secolo o contemporanee. L’autrice parte con l’osservare come il primo a usare—con citazioni e adattamenti—i propri disegni romani sia stato proprio Heemskerck nelle opere eseguite ad Haarlem, quindi si sofferma sull’interessantissimo ex-libris del taccuino romano di Heemskercks (oggi separati l’uno dall’altro), riportandone immagine e testo (fig. 5, pp. 120-121).
Tra i proprietari del taccuino ci fu anche Cornelis van Haarlem: alcuni suoi dipinti a tema mitologico e a soggetto sacro (fig. 10, p. 126) dimostrano, secondo l’autrice, l’uso dei disegni di Heemskerck, tanto per quanto riguarda lo studio dell’antico (in particolare il Torso del Belvedere), quanto per quello di Michelangelo (Cappella Sistina). Anche Jacob Matham nelle sue “Antiquae aliquot elegantiae Romanae urbis omnibus artium studiosis utiles” (c. 1610) inserisce diverse sculture tratte dal libro di Heemskerck; ma se a Cornelis van Haarlem interessava soprattutto la resa dei corpi, Matham guardò maggiormente agli elementi decorativi di carattere antiquario. Pieter Saenredam venne in possesso del taccuino di Heemskerck nel 1639; da esso derivano i dipinti con vedute di Roma (figg. 20-21, pp. 139-141), città in cui il pittore del resto non andò mai; particolarmente interessante l’attribuzione a Saenredam di un disegno con una veduta della piazza del Laterano (Firenze, Museo Horne) e di un altro foglio con veduta del cantiere di San Pietro in collezione privata. Altrettanto suggestivo il parallelo che l’autrice propone tra l’impaginazione di alcuni disegni romani di Heemskerck e quella di alcuni disegni di Saenredam con interni di chiese olandesi. Infine Jan De Bisschop nei suoi “Signorum veterum icones” (1668-1669) e “Paradigmata graphices variorum artificum” (1671) inserisce statue antiche tratte dai disegni di Heemskerck accanto a opere di artisti moderni, in una prospettiva classicista che fa riferimento sostanzialmente al Rinascimento italiano.
Ludwig Braun (“‘Fortia facta cano Lodoici’. Über die Heroisierung der Gegenwart durch das transformierte Epos der Antike im 17. Jahrhundert”, p. 161-170) mostra come una serie di poemi seicenteschi prendano a modello l’epica antica nel tentativo di celebrare episodi e personaggi moderni; in particolare l’autore si occupa della “Rupellais” di Paul Thomas (1630), che narra la vicenda dell’assedio di La Rochelle, e la “Rhea Liberata” del gesuita Jean de Bussières (1655) che racconta gli scontri avvenuti sull’isola Ré, nei pressi della stessa località. Braun traccia più che convincenti paralleli tra la prima opera e passi dell’Eneide, tra la seconda opera e passi delle Metamorfosi di Ovidio, ma apre anche lo sguardo ad altre opere del pieno Seicento che rimodellano variamente l’epos virgiliano (e l’implicita celebrazione di Augusto) per celebrare grandi eroi cristiani, Costantino, Clodoveo, Carlo Martello, Goffredo di Buglione, san Luigi, Giovanna d’Arco, Skanderbegh.
Cornelia Wilde (“Nathaniel Ingelos ‘Bentivolio and Urania’ als philosophische ‘romance’. Aspekte antiker Philosophien in christilich-neuplatonischer Erbauungsliteratur”, p. 171-198) presenta la figura del teologo inglese Nathaniel Ingelo (1621-1683), che appartenne alla cerchia dei cd. “Cambridge Platonists”, caratterizzata dalla ripresa della filosofia antica all’interno di problematiche religiose e morali. Il romanzo ‘Bentivolio and Urania’ apparve nel 1660 ed ebbe immediatamente un grande successo come prova di letteratura edificante cristiano-neoplatonica; può essere un esempio di questa prospettiva la premessa dell’opera, che sviluppa il tema della saggezza e della conoscenza di sé secondo il motto delfico. Il neoplatonismo cristiano diviene così una sorta di arma diretta contro l’epicureismo antico e lo scetticismo ateo moderno, mentre la complessità degli argomenti viene temperata proprio dall’impostazione narrativa: come una sorta di velo, il romanzo coprirà abbellendola la verità filosofica, ma nello stesso tempo la rivelerà e la renderà più abbordabile. Le avventure dei tre fratelli Bentivolio, Urania e Panareto si intrecciano dunque con quelle di eroi positivi (Alethion) e negativi (Antitheus), e sottintendono dunque verità teologico-filosofiche altrimenti difficilmente rappresentabili. I nomi dei protagonisti e dei luoghi fantastici sono ricavati manipolando termini greci, latini e italiani, ed è lo stesso autore a chiarire il loro significato allegorico: ci sono dunque Bentivolio (dal cognome italiano Bentivoglio, letteralmente “ti voglio bene”) e Panareto (“del tutto virtuoso”); c’è un luogo che si chiama Vanasembla e un altro Piacenza, senza alcun riferimento alla omonima città italiana, ma a “Pleasure”, il piacere là venerato come una divinità; e c’è Alethion, l’eroe che ha raggiunto “the Peace of Soul”, in cui si incarnano e si saldano assieme i valori del cristianesimo e della filosofia antica.
La sezione dedicata all’epoca dello storicismo inizia con un importante saggio di Martin Dönike (“‘Belehrende Unterhaltung’: Altertumskundliches Wissen im antiquarisch-philologischen Roman”, p. 201-237) sulla storia del romanzo storico; si comincia dal “Voyage du jeune Anacharsis” di Jean-Jacques Barthélemy (1788), in cui si narra il soggiorno in Grecia di un giovane scita per ventisette anni dal 363 al 337 a. C.; la seconda opera affrontata è quella di August Böttiger, “Sabina, oder Morgenszenen im Putzzimmer einer reichen Römerin” (1803), che prende spunto dal dipinto di Ercolano con la cosidetta “Vestizione della sacerdotessa” (fig. 3, p. 214), con l’obbiettivo di descrivere la vita privata dei Romani e di aiutare la comprensione degli autori antichi; la terza opera presa in esame è quella di François Mazois, “Le Palais de Scaurus ou description d’une maison romaine, fragment d’un voyage fait à Rome, vers la fin de la République par Mérovir, prince des Suèves” (1819); vi si immagina che l’architetto greco Crisippo mostri a un principe barbaro, Meroviro, il palazzo di Marco Emilio Scauro, magnificamente costruito e decorato (in riferimento a Plinio, 36, 2). Lo studioso mette in relazione queste opere con un romanzo come “The last days of Pompeii” di Edward Bulwer-Lytton (1834), scrittore che non a caso criticava gli eccessi di erudizione e pedanteria dei suoi predecessori, Barthélemy in particolare. Del resto il modello di Barthélemy era destinato a sopravvivere a lungo, ad esempio nelle opere di Wilhelm August Becker (“Gallus, oder, römische Scenen aus der Zeit Augusts: zur genaueren Kenntniss des römischen Privatlebens”, 1838 e “Charicles: Bilder altgriechischer Sitte, zur genaueren Kenntniss des griechischen Privatlebens”, 1840). Dönike ricorda opportunamente che Barthélemy, Mazois, Böttiger e Becker erano tutti professionisti, in particolare filologi e archeologi, e anche questo spiega, nelle loro opere, la complessa relazione tra fiction e note erudite, excursus e digressioni, in una tensione spesso irrisolta tra attenzione ai dati storici e abbandono agli slanci fantastici.
Charlotte Schreiter (“Bildhauerische Technik und die Wahrnehmung antiker Skulptur: Francesco Carradori Lehrbuch für Studenten der Bildhauerei von 1802″, p. 239-265) affronta il tema della riproduzione della statuaria antica in età neoclassica e prende per questo in esame l'”Istruzione elementare per gli studiosi della scultura” (Firenze 1802) di Francesco Carradori, che era già stato restauratore a Villa Medici (1772-1785) e in questo stesso periodo copista dall’antico (alcune sue copie sono oggi a Palazzo Pitti); dal 1799 fu direttore dell’Accademia di Firenze, e anche questo spiega il taglio didattico dell’operetta (37 pp.), corredata da 17 tavole incise (l’articolo ne riproduce sei). Le tavole I e II dipendono dall'”Ecorché” di Jean-Antoine Houdon (1767) e, tramite questo, dall’Apollo del Belvedere; le altre tavole descrivono l’interno del laboratorio di scultura e si soffermano in particolare sui momenti della riproduzione di originali antichi, e sulle varie tecniche adottate per misurare i modelli ed eventualmente diminuirli o ingrandirli; Carradori si riannoda ai metodi già adottati nelle botteghe di scultori del Seicento e del Settecento, come quelli descritti anche nei “Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke (. . .)” di Winckelmann (1755) e in “Dell’arte di ben restaurare le antiche sculture” di Bartolomeo Cavaceppi (1768).
Il saggio di Adolf Heinrich Borbein (“Kunstgeschichte als ästhetisches Ereignis. Die Kunst der Antike in deutschsprachigen wissenschaftlichen Monographien für ein bürgerliches Publikum im 19. und frühen 20. Jahrhundert”, pp. 267-281) prende in considerazione il successo editoriale e di pubblico del “Grundriss der Kunstgeschichte” (1860, ma riedita ancora nel 1921) di Wilhelm Lübke e della “Geschichte der griechische Plastik” di Joh. Overbeck (1857 e riedita ancora nel 1893). Si tratta di opere indirizzate al pubblico colto (non necessariamente agli specialisti), ma anche agli stessi artisti, in cui la dimensione estetica—secondo la lezione di Hegel—serviva a far meglio abbracciare l’intera dinamica storica. Uno dei problemi che Borbein affronta è quello dell’uso delle immagini nei volumi di Lübke e Overbeck, ma anche nella “Geschichte der bildenden Künste bei den Griechen” (1824) di H. Meyer, nella “Geschichte der bildenden Künste bei den Alten (1833) di A. Hirt, nei “Meisterwerke der griechischen Plastik” (1893) di Adolf Furtwängler, in “Die Kunst der Griechen” di A. von Salis (1919), fino a “Die Kunst der Antike (Hellas und Rom)” (1927) di G. Rodenwaldt, e, ancora, in altre monografie scientifiche di lingua tedesca. Lo studioso osserva dunque le illustrazioni di questi volumi sia sotto il profilo della qualità e delle tecniche adottate (il disegno, l’incisione, la fotografia), sia, soprattutto, sotto il profilo del rapporto numerico tra documentazione iconografica e pagine del testo; il diverso rapporto tra l’una e le altre riflette i mutamenti della storiografia artistica tra XVIII e XX secolo, in particolare nel progressivo ribilanciamento tra la analisi storica e analisi estetica.
Achim Aurnhammer (Georg Ebers’ ‘Kleopatra’: Kompromiss zwischen Gelehrsamkeit und Popularität, p. 283-306) si concentra sulla figura dell’egittologo Georg Ebers, allievo di Johann Gustav Droysen, che scrisse una ventina di romanzi storici, perlopiù ambientati in Egitto; tra essi “Kleopatra. Historischer Roman” (1894) ebbe un successo notevole in Germania, ma, come dimostrano diverse traduzioni, anche in altri paesi. Aurnhammer segue Ebers nel suo profilo della figura di Cleopatra attraverso i vari capitoli: il procedimento è quello di combinare fonti letterarie (in particolare Strabone per la topografia dell’antica Alessandria e Plutarco nella vita di Antonio) e materiali archeologici; in appendice vengono infatti riportate quattro lettere a Ebers dell’amico Paul Walther da Alessandria (1892), sulla scoperta di due statue che si presumeva raffigurassero appunto Cleopatra e Marco Antonio. A commento dell’articolo l’autore pubblica incisioni relative alla storia di Cleopatra comparse in “Ägypten in Wort und Bild” dello stesso Ebers, non a caso in relazione con Lawrence Alma-Tadema.
L’ultima sezione del volume si propone di esaminare alcuni aspetti della ricezione e dell’uso dell’antico nella contemporaneità. Il saggio di Marcus Junkelmann (“Parade und Triumphzug im Monumentalfilm”, p. 309-324) studia l’interpretazione e la resa delle parate trionfali dell’antica Roma nel cinema; dopo aver giustamente rilevato le affinità esistenti tra la pittura a tema storico della fine del XIX secolo e i primi film a soggetto storico, l’autore fa osservare le numerose improprietà nelle ricostruzioni del trionfo antico e l’influenza che ebbero su queste produzioni cinematografiche il modello delle parate militari del Fascismo e del Nazismo, ma anche un’opera come “Triumph des Willens” (1934) di Leni Riefenstahl. I film su cui Junkelmann maggiormente si sofferma sono “Quo vadis?” di M. LeRoy (1951), “Ben-Hur” di W. Wylers (1959), “The Fall of the Roman Empire” di A. Mann (1964), “Gladiator” di R. Scott (2000), ma anche la serie televisiva “Rome” di A. Taylor (2005).
“Catilina’s Riddle” di Steven Saylor (1993) e “Pompeii” di Robert Harris (2003) sono i due romanzi—ambientati appunto nel 63 a. C. e nel 79 d. C.—al centro del saggio di Craig Williams (“Rom in der Postmoderne. Darstellungen der Antike in zwei historischen Romanen”, pp. 325-344); una volta tracciate le caratteristiche del romanzo storico postmoderno, l’autore sintetizza la trama dei due libri; mentre nel XIX secolo uno dei temi preferiti era quello della vittoria del cristianesimo sul paganesimo, i temi centrali sembrano ora quelli della schiavitù (anche con riprese puntuali di fonti antiche come Catone, Agr. 2.7), della sessualità (in particolare l’omosessualità e la prostituzione), della tecnica (ad es. gli acquedotti in “Pompeii”, il mulino in “Catilina’s Riddle”); notevole nel romanzo di Harris la descrizione dell’eruzione del Vesuvio tanto dal punto di vista dei protagonisti antichi, quanto da quello della scienza odierna, e il conseguente contrasto stilistico e lessicale. Nello stesso libro è interessante notare come gli elementi paratestuali orientino il lettore verso il tema della decadenza, della catastrofe imminente, della corruzione, del resto abituali quando si parla di Roma nella cultura popolare, sollecitando, ad es., il parallelo Pompei-11 settembre 2001. Aspetti interessanti del saggio sono l’indagine sull’uso dei testi antichi (ad es. il discorso di Catilina in Sallustio) e l’attenzione al gioco di specchi tra fiction e storia, come quando il “Satyricon” di Petronio viene imitato e, nello stesso tempo, citato come tale a proposito della Cena Trimalchionis.
Matthias Dreyer (“Archiv und Kollektiv. Griechischen Tragödien als chorisches Theater, Einar Schleef, Theatercombinat und Theodoros Terzopoulos”, pp. 345-367) ripercorre rapidamente la storia delle rappresentazioni della tragedia greca dagli anni ’70 in poi (ad es. Peter Stein, Christoph Nel. . .) rimarcando la continua tensione tra rispetto della dimensione storica e desiderio di attualizzazione. L’autore esamina in particolare il ruolo del coro della tragedia greca come problema nel teatro del Novecento, in quanto figura posta ai margini tra lo spazio del palcoscenico e quello degli spettatori, e in quanto tale possibile tramite tra il processo drammatico e il pubblico. A questo scopo Dreyer affronta “Mütter” di Einar Schleef (Frankfurt 1986)—dai “Sette contro Tebe” di Eschilo e dalle “Supplici” di Euripide—ricordando la scelta registica del lunghissimo lamento del coro e il rapporto che si venne così a instaurare tra coro e spettatori. Si descrive quindi la messa in scena dei “Persiani” di Eschilo (Genf, 2006) da parte del gruppo “Theatercombinat”, con un coro formato da un gran numero di cittadini di Genf, nell’intento di riprodurre proprio i meccanismi teatrali dell’antica Atene e, allo stesso tempo, rendere vivo e presente il testo antico. L’ultima rappresentazione studiata è quella di “Aiace” di Theodoros Terzopoulos (2006), tratto da Sofocle.
Il volume si conclude con un profilo biografico degli autori, con un indice dei nomi (non indenne da qualche imprecisione, ad es. Andrea Mantegna e Benedetto Antelami indicizzati secondo il nome di battesimo) e con un indice delle cose notevoli.