Questa raccolta di saggi vuole affrontare un tema di particolare importanza nella storia della filosofia dell’età imperiale, e precisamente il rapporto, ora di attrazione, ora di conflitto, tra le due ‘scuole’ più importanti e più conosciute. Non si tratta di cogliere nel platonismo dell’età imperiale, che è più tardo, dei prestiti dallo stoicismo, ma soprattutto di vedere lo sviluppo e l’interazione che le due filosofie hanno reciprocamente esercitato. Il volume non vuole avere una caratterizzazione complessiva, affrontando tutti i problemi, ma ci presenta studi dedicati in gran parte a questioni dell’etica platonico-stoica e, in minor numero, alla metafisica delle due scuole di pensiero.
In questo secondo ambito di ricerche si colloca il saggio di G. Reydams-Schils, “Calcidius on God” (pp. 243-258), l’ultimo del volume. L’argomento rientra negli interessi per Calcidio, frequentemente coltivati dalla studiosa in più di un saggio. La ricostruzione della teologia di Calcidio è sostanzialmente esatta: il filosofo si attiene ad un blando dualismo, il che è in linea con la tendenza teologica del medio platonismo. Ma l’osservare che in questo Calcidio si differenzia da Macrobio, è cosa scontata e già osservata da altri (anche da noi). Inoltre non è presa in considerazione la componente cristiana del pensiero di Calcidio, nonostante che essa sia un elemento centrale della sua filosofia, anche se non apertamente manifestato. È quindi difficile spiegare altrimenti la presenza di Filone in Calcidio. Solo se si affronta su una base storica il problema di Calcidio, medio platonico e cristiano insieme, si può chiarire la sua posizione. Lo stoicismo, nella teologia di Calcidio, è molto relativo, e probabilmente era presente già nei testi del medioplatonismo greco, da lui usati.
Passando, poi, ai problemi attinenti alla fisica e all’etica incontriamo un notevole saggio di R. W. Sharples, “The Stoic Background to the Middle Platonist Discussion of Fate” (pp. 169-188). Si tratta di un problema centrale nei rapporti tra le due filosofie, e che aveva avuto un precedente nella discussione sul fato che si legge nell’omonima opera di Cicerone (nella quale, comunque, il platonismo è assente). Su questo tema molti si è scritto in passato, e anche recentemente; i testi relativi sono ben noti: il de fato dello Pseudo Plutarco, Alcinoo, Didaskalikòs, Calcidio e Nemesio; accanto ad essi si collocano altri riferimenti più brevi. È difficile sintetizzare una trattazione ampia e articolata, e dedicata ad un tema particolarmente astratto; Sharples trova che la polemica antistoica dei medioplatonici si basa su presupposti differenti da quelli che erano stati creduti in passato, e precisamente contro “deviazioni stoiche da originarie concezioni platoniche”. Quindi la polemica antistoica si riallaccia sostanzialmente ad una difesa della ‘ortodossia’ platonica e lo studioso ritiene che anche il platonismo abbia influenzato le posizioni stoiche nella discussione più tarda sul fato.
R. Chiaradonna, “Platonismo e teoria della conoscenza stoica tra II e III sec. d. C.”, pp. 209-241, invece, affronta un problema di epistemologia, sottoponendo a esame il concetto di ‘concezioni comuni’ ( koinai ennoiai) nell’interpretazione data da filosofi del II e III secolo (Alcinoo, Galeno, Porfirio e Plotino). Chiaradonna fornisce un contributo particolarmente denso e ricco di osservazioni, in particolare per la sezione riguardante Galeno. Il termine di ‘concezioni comuni’ in Alcinoo era già stato sufficientemente chiarito dalla critica del XX secolo (penso in primo luogo a Strache, Theiler, Luck) per quanto riguarda la sua origine stoica (pp. 209-215; essa è ben definita all’inizio del saggio, p. 209); invece la sua presenza in Galeno, esaminata nelle pp. 215-228, costituisce una parte molto acuta e intelligentemente costruita di questo studio, il quale enuclea, nella posizione di Galeno, un ampio retroterra aristotelico, ben comprensibile nel II secolo, e che serve a caratterizzare la ‘concezione comune’ e la dottrina della conoscenza. Alla interpretazione di Galeno si avvicina quella di Porfirio, in particolare per quello che riguarda la distinzione tra definizione concettuale e definizione essenziale, che si basa sulle Categorie di Aristotele. Le conclusioni (pp. 239-241) sono ricche di osservazioni metodologiche, sul modo di intendere la presenza di dottrine comuni a questi filosofi. I Platonici non volevano affatto “costruire una filosofia ‘ibrida’, nella quale il loro platonismo fosse contaminato da elementi estranei”. Fermo restando questo, Chiaradonna ribadisce (p. 214 n.) la validità di formule come ‘platonismo aristotelizzante’ o ‘stoicizzante’: forse non sono corrette per ricostruire le intenzioni dei Platonici di età imperiale (come avevamo sostenuto noi nel lontano 1964), ma caratterizzano assai bene il risultato a cui essi pervengono.
Un maggior numero di contributi è dedicato ai rapporti tra platonismo e stoicismo nell’ambito dell’etica. Thomas Bénatouïl ha scritto su “Le débat entre platonisme et stoïcisme sur la vie scolastique : Chrysippe, la Nouvelle Académie et Antiochus”, pp. 1-21. Il lavoro è interessante e ben centrato: forse, però, sarebbe stato opportuno cercare di precisare meglio che cosa si intende con ‘vita scolastica’ e in che cosa la vita scolastica si differenzia dalla ‘vita contemplativa’ o dall’idea più generale della paideia e della cultura in quanto tale. Bene individuata la polemica di Crisippo contro la tradizione accademico-peripatetica e la ricostruzione dei suoi argomenti. Interessante una osservazione di carattere storico (rare in questo volume): “Cette position pourrait s’expliquer d’abord par les origines sociales modestes des premiers scholarques stoïciens, qui devaient les rendre méfiants à l’égard des apologies aristocratiques de la vie contemplative proposées par Platon et Aristote. Socialement et intellectuellement plus proches de cyniques, les premiers stoïciens, etc.” (p. 9). Alla scelta accademica e peripatetica si oppone quella ‘logica’ degli Stoici, basata sul valore assoluto della virtù. Alla loro critica replicano la Nuova Accademia ed Antioco.
F. Alesse si occupa di offrire “Alcuni esempi della relazione tra l’etica stoica e Platone” (pp. 23-39). L’argomento rientra in una tematica ampiamente studiata dalla autrice. Alesse vuole “presentare alcuni esempi delle relazioni che è possibile intravedere tra alcuni testi platonici e l’etica stoica”. A questo scopo la studiosa innanzitutto osserva che, per quello che riguarda l’insegnamento di Socrate, gli Stoici hanno preso in considerazione la tradizione platonica più che non quella di Senofonte e di Aristotele. Una prima serie di passi del Protagora e del Lachete riguarda il problema che poi gli Stoici hanno etichettato con la concezione della antakolouthia delle virtù; il Gorgia, l’ Eutidemo ed il Menone ed anche il Lachete sono invece alla base della rielaborazione stoica della articolazione delle cose in beni, mali e indifferenti. Alesse considera poi la storia della considerazione dei dialoghi platonici nel II-I sec. a.C. ed in età imperiale. Lo studio è svolto in modo attento e preciso e con una scelta calzante di testimonianze.
Sophie Aubert (“La lecture stoïcienne du laconisme à travers le filtre de Platon”, pp. 41-61) parte da un passo contestato del Fedro platonico (260e), espunto del tutto o in parte dagli ultimi editori (ma conservato da Burnet e Reale (1998), il quale riprende l’edizione di Burnet), ove si dice che, “secondo l’affermazione dello Spartano, una vera arte della parola, se non si ricollega alla verità, non esiste e non può esistere”. La studiosa inizia osservando (e a mio parare con ragione, anche se debbo correggere il testo da me pubblicato presso Les Belles Lettres nel 1985, ove avevo espunto la frase in questione, che probabilmente è autentica di Platone), che tale frase si inquadra nell’ammirazione per la civiltà spartana, della quale abbiamo più di un esempio nell’opera platonica (pp. 41-45). Meno chiaro è il rapporto di incontro / scontro tra Platone agli Stoici a questo proposito. Se Platone apprezzava la brachiloghia, mentre gli Stoici parlavano di syntomia, in fondo il passaggio dall’uno all’altro concetto non è difficile, anche se Platone applicava la brachiloghia alla dialettica, in opposizione agli Stoici, indipendentemente dall’intervento di Diogene di Babilonia sul problema, che la studiosa opportunamente introduce. È certo, comunque, che “il laconismo è stato uno strumento di questa trasformazione” (p. 61). Numerosi testi sono esaminati da Aubert con attenzione e con intelligenza.
M. Bonazzi (“Eudorus’ Psychology and Stoic Ethics”, pp. 109-132) presenta una interpretazione della dottrina dell’anima secondo Eudoro, sulla base della citazione che ne ha fatto Stobeo, Ecl. II 42,5-6 e 45,7-10. Bonazzi vede in Eudoro un rappresentante del platonismo (definito anche ‘filosofia accademica’) della prima età imperiale, perché Eudoro professa una dottrina dualistica dell’anima, in opposizione al monismo degli Stoici. L’atteggiamento aperto al platonismo di Panezio e di Posidonio, non deve essere inteso come una volta, quale una rinuncia alla dottrina tradizionale degli Stoici. Eudoro, quindi, aveva ancora motivo di ribadire la concezione platonica dell’anima, in quanto Panezio e Posidonio non avevano mostrato nessun cedimento sostanziale al platonismo. La psicologia di Eudoro, del resto, trova un sostegno in alcune testimonianze di Cicerone, che richiamano Antioco di Ascalona. Eudoro, quindi, è all’origine di una rinascita del platonismo, che trova conferme nelle opere di Plutarco (per la psicologia nel de virtute morali); l’impiego di una terminologia stoica da parte di Eudoro non significa un suo avvicinamento allo stoicismo, ma la ripresa delle dottrine platonico-aristoteliche con una terminologia più aggiornata. Non si tratta, quindi, di accomodamenti tra le due scuole filosofiche, ma, come ha sostenuto Pierluigi Donini, di una costante interferenza e volontaria contaminazione tra di esse. Il ragionamento è ben condotto e la dimostrazione convincente; interessanti le osservazioni che Eudoro è non solo filosofo indipendente, ma anche storico della filosofia; va osservato, tuttavia, che Bonazzi ricava forse troppo da una semplice notizia di Stobeo e che questo atteggiamento, di un interesse per la ‘storia della filosofia’, era tipico dell’epoca: iniziato probabilmente da Filone di Larissa, era coltivato anche da Antioco di Ascalona e da Cicerone a sostegno delle proprie convinzioni filosofiche. Inoltre il considerare la testimonianza di Eudoro nel solco della tradizione platonica era già stato individuato dalla critica dei primi anni del XX secolo (ad esempio, H. Strache e Theiler), e che già intorno al 1960 gli studiosi del medioplatonismo si erano accorti che Alcinoo considerava di origine platonica certe dottrine stoiche. L’interpretazione del de virtute morali di Plutarco avrebbe potuto giovarsi del commento di Francesco Becchi.
A Seneca sono dedicate due relazioni: una è quella di Teun Tieleman, “Onomastic Reference in Seneca. The case of Plato and the Platonists”, pp. 133-148, l’altra quella di Brad Inwood, “Seneca, Plato and Platonism: The case of Letter 65”, pp. 149-167. Entrambi gli studiosi intendono innovare il metodo dell’approccio a Seneca. Tieleman pensa che si debba partire da una ricerca sui nomi dei filosofi citati da Seneca e sul numero delle volte che essi sono citati (pp. 135-138). Questa ricerca è un po’ meccanica, ma produce un elemento interessante: il filosofo non ha percepito la opposizione di Posidonio a Crisippo, quale evidenzierà nel secolo successivo Galeno nel De placitis Hippocratis et Platonis. Tieleman si sofferma poi, come vuole l’argomento del volume, sulle citazioni e sulle allusioni, con riferimento a Platone e agli Accademici (Seneca distingue, a differenza di altri, tra le due definizioni e le due ‘scuole’). Platone è ricordato per aver detto qualcosa di notevole (p. 147), ma quello che è essenziale è l’accordo tra il nome ed un particolare fatto o una particolare affermazione. “This understanding anticipates the present-day concept of onomastic reference as involving a deeply felt relation between audience and what the person referred to represents”. In sostanza — e questo è il risultato metodicamente più rilevante — Seneca, conformemente alla mentalità romana, connette dei fatti o dei detti memorabili alla figura autorevole di Platone.
Più interessante e innovativo il contributo di Brad Inwood. Partendo proprio da una epistola che è stata oggetto di numerose ricerche per la storia del platonismo nella prima età imperiale, vale a dire la n. 65, Inwood intende esaminarla non secondo il vecchio metodo della Quellenforschung e nemmeno cercando un testo preciso dal quale Seneca avrebbe attinto, ma rivolge la sua attenzione all’ambiente culturale nel quale Seneca viveva e agli interessi che lo animavano. Ne consegue che — a parere di Inwood — il contenuto platonico della lettera 65 è in realtà una mescolanza di dottrine platoniche (comprendenti il Fedone accanto al Timeo) e ciceroniane, vale a dire la discussione sulla ‘idea’ contenuta nell’ Orator. Inwood sostiene (p. 149) che non si possono considerare le lettere di Seneca esclusivamente come una fonte per trovare qualcos’altro. Esse hanno il medesimo valore ‘evidentiary’, di evidenza, che hanno gli altri testi filosofici. La lettera, quindi, è stata scritta sulla base di una serie di discussioni tra Seneca ed i suoi amici, non è solamente un testo scritto. Inwood ritiene che, nella società neroniana, la cultura orale continui ad avere il suo ruolo accanto a quella scritta. Si tratta, dunque, di una tesi nuova, che induce a leggere diversamente la lettera senecana.
Ad un altro stoico dell’età imperiale, e precisamente Marco Aurelio è dedicato il saggio di Ch. Gill, “Marcus Aurelius’ Meditations: how Stoic and how Platonic?” (pp. 189-207). Alcune concezioni di Marco Aurelio, infatti, erano state in passato interpretate come, se non manifestamente platoniche, almeno a mezza strada tra lo stoicismo di base dell’imperatore e un’apertura verso il platonismo (soprattutto nell’ambito della psicologia). Gill vuole dimostrare, invece, che i passi che sembrano esprimere concezioni platoniche in realtà “esprimono idee stoiche, anche se formulate in un modo piuttosto insolito”. Si tratta, quindi, di una varietà di espressioni, non di concezioni, e Gill dimostra la sua tesi conducendo un esame attento di alcuni passi controversi delle Meditazioni di Marco Aurelio. Gill accetta, ma in modo molto generico, la tesi di Pierre Hadot, che l’opera dell’imperatore costituisca un programma di etica pratica rivolto a se stesso (da qui le deviazioni apparenti, che Gill intende invece solo come deviazioni dal modo usuale di esprimersi degli Stoici) (p. 190). Gill sostiene che il suo scopo è quello di ‘refine or nuance’ la tesi di Hadot, piuttosto che contraddirla (p. 207), anche se a me sembra che la sua interpretazione si differenzi da quella dello studioso francese più di quanto Gill non voglia ammettere.
Di alcuni contributi sono meno convinto. Il primo è quello di Valery Laurand, “L’érôs pédagogique chez Platon et les Stoïciens”, pp. 63-86. Nonostante una lunga discussione, non sempre perspicua, non è facile capire in che cosa consista, secondo l’autore, l’eros — ed ancor meno l’eros pedagogico — di cui parlano Platone e gli Stoici. Anche la presentazione riassuntiva di questo saggio, ad opera degli Editori (p.
Non convincente, a mio parere, è il saggio di John Stevens, “Platonism and Stoicism in Vergil’s Aeneid”, pp. 87-107. Si tratta di un argomento a metà tra la tematica etica e quella fisica. In ogni caso è già stato affrontato da grandi studiosi tedeschi della fine del secolo XIX – inizi del XX (Heinze e Norden), e poi da numerosi altri della prima metà del XX secolo (Poetschl), purtroppo non presi in considerazione da Stevens, come nemmeno la ricchissima bibliografia al riguardo. La tesi generale secondo cui “la struttura dell’Eneide riflette la divisione platonica dell’anima, mentre il suo scopo riflette le teorie platoniche dell’amore ed il progresso epistemologico nelle due versioni della dottrina delle forme” (p. 87) appare incomprensibile e non è dimostrata da Stevens. Comunque il problema non può essere discusso nei modi che qui troviamo, spesso frutto di letture sforzate: accostamenti arbitrari tra Virgilio e Platone (come se Virgilio fosse stato un attento discepolo della scuola platonica); non capisco che c’entri Boezio a p. 88 a proposito dell’epos di Virgilio; ricorso ad assurde etimologie, allo scopo di piegare il testo ad una opinione preconcetta; interpretazione filosofica dei termini più normali della lingua latina: recens a vulnere (VI 450) è “a nod to the Stoic textbook definition of pathos as doxa prosphatos”; parallelo tra la dottrina delle forme nel Simposio e la divinizzazione di Enea.
Considerato nel complesso, il volume costituisce un buon contributo all’esame dei vari problemi affrontati. La maggior parte degli studi che lo costituiscono sono bene informati, soprattutto per quanto riguarda la bibliografia recente; si sarebbe desiderato una maggiore attenzione verso la ricerca più antica, anteriore al 1990. Essa, anche se per certi versi appare superata (ma questo avviene in ogni campo), conta pur sempre nomi di grande prestigio, come quelli di Diels, Theiler, Waszink, Hadot, Dillon. Sarebbe stato utile anche dedicare una maggiore attenzione alle tematiche non strettamente filosofiche di scrittori, come Cicerone, Seneca, Virgilio, Plutarco, che fanno da contorno alla filosofia dell’ultima età ellenistica e della prima età imperiale. Anche la filosofia cristiana contemporanea al medio platonismo e allo stoicismo della prima età imperiale (Clemente Alessandrino e Origene, soprattutto; ma anche Giustino e Atenagora) avrebbe potuto essere consultata con profitto.