BMCR 2008.12.18

Paideia at Play: Learning and Wit in Apuleius. Ancient Narrative. Supplementum, 11

, , Paideia at play : learning and wit in Apuleius. Ancient narrative. Supplementum, 11. Groningen: Barkhuis Publishing; Groningen University Library, 2008. 1 online resource (xxi, 302 pages).. ISBN 9789491431463. €85.00.

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Il volume rappresenta il resoconto del Congresso internazionale svoltosi presso l’University of North Carolina a Chapel Hill nel Marzo 2007. Il titolo della discussione era in effetti originariamente “Apuleius and the Second Sophistic: an Orator at Play”, ma sullo sfondo dell’ambiente della cosiddetta Seconda Sofistica emerge come tratto peculiare il concetto più ristretto della “paideia”, centrale in tutto il pensiero greco e tratto distintivo di identità anche civica, che qui viene proposto come strumento di indagine più penetrante (e, in parte, come vedremo, piu’ produttivo). Sul concetto di paideia, come fenomeno letterario, e insieme strumento per la costruzione di un’identità, indispensabili puntualizzazioni sono offerte dall’introduzione di Werner Riess (che cura, con mestiere, il volume ed è anche autore di uno dei contributi). Ciò che per noi conta maggiormente è l’idea che il possesso di certe competenze culturali, e connesse abilità declamatorie, potesse costituire una sorta di “codice” che un’élite di pepaideumenoi greci e romani riconoscevano e usavano per comunicare tra loro; come Apuleio si inserisse all’interno di questo ambiente elitario, come ne sfruttasse i codici per i suoi scopi letterari e soprattutto personali, e come differenti aspetti della sua propria paideia si dispieghino nelle sue opere più importanti, si ricostruisce abbastanza bene da molti dei saggi contenuti nel volume. In tal modo questo concetto “sociale”, usato come chiave di lettura, diventa capace (talvolta anche inaspettatamente) di porre sotto una luce nuova aspetti del testo già discussi e ben noti, e di acquisire qualche elemento di novità nell’interpretazione generale del testo. Ugualmente convincente è l’ulteriore suggestione che l’insieme dei saggi prospetta, che cioè la paideia apuleiana avesse fondamentalmente un carattere giocoso, ludico, oltre che auto-consapevole: non sarà un caso che uno dei termini piu’ ricorrenti in tutti i saggi sia ‘self-conscious’ Questo aspetto, di per sé, non si pone in contraddizione con i possibili intenti seri dell’opera apuleiana, in modo del tutto coerente con la prassi, altrove più volte analizzata, dello spoudaiogeloion; anzi dello spoudaiogeloion, inteso come fine, questa paideia brillante e arguta diviene strumento privilegiato.

Gli interventi si dividono in due gruppi, il primo dei quali specificamente dedicato all’ Apologia, il secondo al romanzo. Ciascuna sezione si compone di sei riflessioni che, pur partendo da zone del testo e presupposti diversi, spesso finiscono per incontrarsi, sovrapporsi, richiamarsi, in un continuo gioco di rimandi e intrecci decisamente stimolante (naturalmente c’è spazio anche per le contraddizioni e le divergenze, ma la possibilità di ripensamento, confronto e revisione offerta dal tempo intercorso tra la presentazione dei papers e la loro riproposizione in una versione “riveduta e corretta” apre più facilmente spazio al dialogo che alla polemica). L’eterogeneità dei problemi affrontati — e, bisogna dirlo, dei risultati raggiunti — esige però una recensione individuale e mirata per ciascun lavoro. Nel riassumere e commentare i diversi contributi, seguirò dunque l’ordine in cui essi si susseguono nel libro, con una sola eccezione: lo spostamento del saggio di Riess dopo quelli di McCreight e Tilg (tale sequenza è utile ad evincere una contrapposizione tra i differenti tipi di metodo).

Il contributo di Stephen Harrison, tra i più originali a parere di chi scrive, rilegge una parte delle digressioni apuleiane, specie quelle relative alle cosiddette imputazioni extra causam, come una sorta di presentazione del retore al suo nuovo pubblico a fini, per così dire, auto-promozionali: effettivamente fa una certa impressione rileggere in sequenza i passi dell’ Apologia in cui dettagliatamente Apuleio si sofferma sul ricordo dei suoi esperimenti poetici, delle sue ricerche scientifiche, delle sue famose orazioni pubbliche e delle (probabili) incursioni nel campo della storia dell’arte. Certo, tutto questo era indubbiamente utile a delineare la figura dello studioso eclettico e impegnato in ben altro che nella seduzione, a base di intrugli magici, di ricche e sprovvedute vedove (e come è stato più volte rilevato, avrebbe sicuramente fondato un terreno di complicità con il dotto giudice Claudio Massimo), ma la lunga e dettagliata lista sciorinata da Apuleio assume in effetti l’aspetto di un curriculum studiorum con acclusa lista delle pubblicazioni. E se, da una parte, un tale curriculum si pone certamente tra gli elementi a favore dell’imputato, questo dispiegamento di qualità non mira solo all’assoluzione, ma diventa una sorta di spot letterario del prestigio e delle competenze del giovane retore in cerca di un nuovo palcoscenico. Particolarmente convincente risulta l’analisi di Harrison quando individua nel testo speciali tasselli (e.g. il titoletto, apparentemente casuale, naturales quaestiones) che potevano fungere da “parole d’ordine”, segnali allusivi al patrimonio letterario precedente nel quale il pepaideumenos Apuleio intendeva inscrivere le sue opere; ma è giusto anche segnalare lo scarto tra la nonchalance con cui Apuleio menziona i suoi libri o i suoi “scritti greci” – sempre al plurale – e l’impressione con cui tali accenni dovevano essere accolti. Il fatto poi che nell’impressionante curriculum vantato manchi l’accenno al suo capolavoro (un’opera che, con un po’ di impegno retorico, avrebbe anche potuto essere presentata in termini persino favorevoli alla causa) si pone come ulteriore conferma della tesi (da Harrison già convincentemente sostenuta altrove, e su diverse basi) secondo cui all’epoca del processo le Metamorfosi non erano ancora state ancora scritte.

Anche il denso saggio di James Rives sostiene in definitiva che il dispiego di tanta dottrina avesse un doppio fine; del resto nessuno crede più a un’esibizione gratuita di dottrina ed erudizione, sebbene Rives sia onesto a menzionare anche questa possibilità.1 Il primo fine coincide con quello riconosciuto anche da Harrison (e in generale unanimemente riconosciuto come scopo fondamentale), e cioè l’effetto pratico di “sedurre” un giudice a sua volta pepaideumenos e collocare, insieme a questo, il retore africano su un piano ben distante dai rozzi accusatori. Ma sul secondo scopo perseguito da Apuleio Rives ha idee diverse. Si tratterebbe in effetti di un tentativo, più o meno subliminale, di “rassicurare” la platea (e la società) sul suo lavoro e i suoi interessi. I mezzi di cui Apuleio si serve per difendersi da alcune accuse secondarie, e insieme per dispiegare la sua enorme e poliedrica dottrina, coincidono con alcune pratiche canoniche della retorica classica come la citazione, la lista di esempi, la proposizione e la discussione di un problema: che Apuleio non sia un mago, ma un innocuo letterato, è provato insomma anche dalla forma con cui egli presenta i contenuti delle sue conoscenze, contenuti familiari, onesti e “socialmente rispettabili” . Questo è il nucleo della tesi che però Rives rimanda alla seconda parte del suo lavoro. Una prima parte di ricostruzione storica interessante, pur se a tratti ripetitiva, riprende e chiarisce alcuni elementi troppo spesso dati per scontati (anche da chi scrive): importante, ad es., la ridefinizione degli ambiti coperti dalla Lex Cornelia, in base alla quale, come comunemente si sostiene, Apuleio sarebbe stato imputato. La ridefinizione di Rives lascia propendere per il fatto che il processo al retore rientrasse piuttosto in una procedura extra ordinem; quest’acquisizione permette inoltre a Rives di soffermarsi con qualche elemento di novità sulla strategia legale adottata da Apuleio. Sicuramente più vivace e accattivante la sezione successiva, che convincentemente dimostra la tesi esposta sopra, cioè che la forma stessa in cui la conoscenza e la dottrina vengono presentate segue dei modelli tradizionali e riconoscibili (e per ciò stesso rassicuranti). Particolarmente ben condotta la rassegna degli esempi che illustrano gli schemi tipici e familiari in cui si dispiega la dottrina apuleiana: citazione, lista e “problema” (così Rives, “for lack of a better term”, ma per quest’ultima categoria forse si potrebbe considerare il termine filosofico quaestio). Se un difetto deve riconoscersi in questo bel saggio, denso ed erudito, è che talvolta una certa ansia demonstrandi, con l’accumulo di esempi, prove e citazioni a corroborare ogni singola affermazione, ostacola una lettura limpida e scorrevole del testo e toglie incisività al percorso logico. Peraltro è ottimo l’uso delle fonti e la capacità di integrare argomenti di natura diversa che Rives, conformemente alla sua consistente formazione di storico, sa impiegare nella ricostruzione dei fatti.

Il contributo di Vincent Hunink mira ad inserire, all’interno dell’esibizione di paideia, una familiarità con Omero, dispiegata in forme diverse. Dalle precise citazioni in greco (praticamente assenti dal resto dell’opera apuleiana) ad allusioni più criptiche al subtesto omerico, queste forme di intertestualità prevedono naturalmente un ascoltatore-lettore altrettanto ben educato e colto.

Ma il brillante gioco di rimandi, normalmente interpretato come una precisa strategia per trasformare un pezzo giuridico in un testo letterario (così da ricollocare Apuleio, dalla scomoda posizione di imputato, in quella più consona di filosofo e letterato), conosce anche qualche rischio, secondo Hunink ben calcolato. Le allusioni a Paride2 o ad Odisseo3 possono generare in chi ascolta sovrapposizioni non sempre convenienti per l’imputato in un processo. Tale ipotesi è condivisibile anche senza immaginare che il gioco intertestuale portasse addirittura gli ascoltatori a identificare Pudentilla con Elena — basta del resto a smontare quest’idea il ritratto di Pudentilla che emerge dal resto dell’opera. E se tanta baldanza poteva servire a provocare gli avversari o a ben impressionare un giudice erudito, non era troppo alto il rischio di trovarsi immedesimato in personaggi quantomeno discutibili dal punto di vista morale, oltre che non sempre limpidi? Implicitamente, quasi silenziosamente (la proposta è avanzata solo nell’ultima nota, con la sobrietà che sempre caratterizza il metodo di Hunink) si aggiunge un argomento ai tanti che dovrebbero portare a sospettare della reale storicità dell’orazione di autodifesa e a considerare perlomeno la possibilità che anche il De magia sia in effetti al pari dei Florida, un pezzo di bravura, recitato non davanti a un tribunale ma ad una platea di appropriati connoisseurs.

Tra le accuse secondarie rivolte al filosofo-mago c’è quella della povertà (un elemento che avrebbe potuto spingerlo alla seduzione illecita della ricca vedova); Thomas Mc Creight si concentra sul celebre passo della laus paupertatis con cui Apuleio risponde a tale imputazione: grazie alla lente d’ingrandimento dell’analisi lessicale la lunga digressione, basata su elementi tradizionali e materiale convenzionale, rivela nuovi livelli di intertestualità e qualche malizioso ammiccamento di Apuleio ai suoi ascoltatori/lettori che finora non era stato osservato. Suona pertanto quasi paradossale la giustificazione che McCreight adduce per il suo approccio lessicale (“decried now as overly reductive”), un esempio di metodo oltre che un punto di partenza fondamentale e la più solida base nella nostra disciplina, contro la soggettività della speculazione che troppo spesso si libera dal rapporto col testo. Certamente giusta ad es., contro le traduzioni standard, la reinterpretazione di vernacula come diminutivo di verna (un uso che probabilmente inizia proprio con Apuleio e che è del resto documentato anche nel romanzo, cf. Met. 1, 26) e che ricollega il passo all’argomento dei servi precedentemente trattato. Che i nessi aemula laudis e parvo potens sottintendessero un richiamo testuale ad autori divenuti già classici ai tempi di Apuleio come Virgilio e Cicerone mi pare molto plausibile, con probabilità maggiore, a mio parere, per il richiamo virgiliano, non solo per la celebrità del passo citato, ma anche per la peculiarità del nesso ossimorico in questione e per alcuni elementi di attinenza o connessione tra i due luoghi, come il catalogo degli uomini virtuosi, o la proverbiale povertà di Fabrizio. Sull’origine del conio benesuada io sono più incline a credere nello stimolo plautino, fonte di una gran parte delle neoformazioni apuleiane (ma sui rapporti tra Plauto e Apuleio andava certamente citato il recente volumetto di L. Pasetti, Plauto in Apuleio, Bologna 2007, e colgo l’occasione per rilevare che forse qualche titolo italiano in più poteva essere considerato nella bibliografia generale). Qualche eccesso di zelo didattico non toglie verve e ed efficacia all’ultima parte dell’analisi. L’ipotesi del leggero slittamento semantico di circumspectatrix non può che trovarmi favorevole; il conio ostentatrix è certamente suggerito dal contesto a formare la coppia di reciproci. E mentre era forse superfluo, a proposito del doppio conio repertrix-conditrix, notare come il suffisso -trix sia il femminile del suffisso -tor del nomen agentis, è interessante rilevare che, al di là dell’arcaicità dei suffissi in -trix, sono di assoluta rarità (probabilmente a causa della cacofonia) i nomi in -trix preceduto da consonante, e dunque il primo conio apuleiano è doppiamente audace. Concludo ricordando che questo bel saggio andrà di certo tenuto in considerazione in occasione di qualsiasi nuova traduzione o commento dell’ Apologia e osservando che quando ci si àncora fortemente al testo si è sempre ben ricompensati.

E buone ricompense ottiene infatti anche S. Tilg, che adotta un metodo simile nell’analisi dei passi di Ap. 5-13 — gli stessi che Harrison ritiene parte di un curriculum apuleiano offerto al suo nuovo pubblico e che Hunink collega invece variamente all’accusa più specifica di magia — con particolare attenzione alla digressione sull’eloquenza. Distaccandosi in parte dalle interpretazioni dei colleghi, Tilg analizza questa “eloquenza giocosa” e ne spiega caratteri e significato, interpretandola come parte di un programma letterario: come sarà evidente, soprattutto dall’analisi di certe precise scelte lessicali (di matrice neoterica) e da alcuni paralleli ben scelti, questa sezione della difesa non ha solo una funzione strettamente pragmatica ma anche quella, meno immediata ma altrettanto urgente, di prender posizione nella più ampia disputa sulla natura e la funzione della letteratura. Interessante e ben condotta la discussione sul cap. 5, intessuto di giochi di parole etimologici (anche se forse, accanto al carattere virtuosistico-letterario si poteva enfatizzare quello sofistico dell’argomentazione apuleiana, così adatto ad ottenere ragione sul momento e dunque al contesto della discussione giuridica). Ha ragione Tilg nel puntare molto sulla ridefinizione etimologica di eloquenza (“as outspokenness”) retoricamente utile a spostare in una posizione più comoda il retore incriminato. Sulle conclusioni generali di Tilg in questa parte mi trovo dunque d’accordo, sebbene non mi sia del tutto chiara o persuasiva l’interpretazione del passo centrale di 5, 3 (‘si verum est quod Statium Caecilium … scripsisse dicunt innocentiam eloquentiam esse’), specificamente per quel che riguarda la ripartizione dei ruoli di definiendum e definiens rispettivamente tra eloquentia e innocentia, su cui invece Tilg appare certo (cf. n. 12). È vero che l’eloquenza è stata a questo punto già identificata come oggetto della discussione, e dunque sembrerebbe naturale ripartire da questo concetto (invece che da quello di “innocenza”), ma qui non è la definizione di eloquenza che ad Apuleio interessa. L’argomento proverbiale desunto da Cecilio Stazio è semmai un elemento a fortiori per spiegare perché Apuleio sia tanto eloquente. È proprio la sua innocenza a conferire facundia, e tale innocenza va necessariamente data come scontata e presupposta, e non come acquisita grazie alle chiacchiere, ciò che deriverebbe dall’interpretazione opposta. Questa lettura è del resto confermata dall’ulteriore word-play che contrappone, con ammiccamento etimologico, l’aggettivo facundus al sostantivo nefas. E in effetti il proverbio di Cecilio costituisce il naturale reciproco di espressioni altrettanto proverbiali che identificavano il silenzio con l’ammissione di colpa,4 topos che lo stesso Apuleio adopera altrove (cf. Met. 7, 3 ‘ne mala coscientia tam scelesto crimini… viderer silentio consentire’). E suggerisce tale interpretazione anche il sillogismo che segue: se l’innocente è persona eloquente allora io (in quanto assolutamente privo di colpe) sono il più eloquente di tutti. Infine dire il contrario sarebbe una grossolana caduta retorica, perché equivarrebbe ad ammettere: se basta parlare ed essere eloquenti per dimostrarsi innocenti, allora io dovrò essere riconosciuto innocente (ma solo per quello!). Essendomi fin troppo dilungata su questo argomento sintattico, mi limito a segnalare l’originale reinterpretazione delle tante ammissioni di Apuleio, che si può affiancare come un ultimo tassello alla lettura comune secondo cui ammettere i fatti, ma contestarne l’interpretazione è il nucleo di un’efficace strategia difensiva:5 si tratta cioè di chiudere il cerchio sull’identità unica e senza infingimenti di Apuleio. Infine, due parole sull’allettante congettura degere di Lipsius riproposta da Tilg in un passo (16, 11) che obiettivamente presenta difficoltà logiche. Premetto che in un contesto fitto di termini che fanno chiaramente riferimento alla visibilità éo all’oscurità, sembra improbabile la congettura tergere di Watson, totalmente estranea a questo campo semantico e alla metafora che Apuleio sta sviluppando. Con degere le cose stanno diversamente. Sebbene io ritenga il testo difendibile (accettando ad es. una traduzione del tipo: ho sempre preferito ‘tenere al riparo’ (scil. dalla curiosità maliziosa degli altri] i miei sbagli che andare a indagare su quegli degli altri), sono molto attratta da questa congettura che ricostruirebbe un gioco etimologico per risemantizzazione del prefisso (un mezzo di cui Apuleio si serve spesso)6 e un conseguente pun ossimorico tra degere e indagare. Contro gli elementi a favore (primo fra tutti l’uso plautino) si porrebbe la norma apuleiana ( degere sempre nel senso di ‘passare, trascorrere la vita’), ma questo eventuale scarto dalla norma non costituirebbe un caso unico. Per concludere, l’attenta lettura del testo si dimostra ancora il presupposto da cui partire per cercare novità.

I rischi di ancorarsi poco al testo sono a mio parere evidenti in esperimenti di interpretazione come quello di Werner Riess, che indaga in modo originale sul possibile modello socratico del pepaideumenos perseguitato dai rustici accusatori. L’idea di base è assolutamente rispettabile, e in parte condivisa, ma se si prova a enfatizzarla troppo, non dà grandi frutti. Alcune analogie appaiano avventurose: il fatto, ad es. che sia Socrate che Apuleio presentassero, peraltro in termini diametralmente opposti, “contradictory images of their own body” mi pare una similarità forzata; che le accuse principali fossero tre sia per Socrate che per Apuleio mi pare più una coincidenza che un’effettiva prova di imitazione. Peraltro la separazione tra accuse minori e principali è essa stessa fortemente soggettiva, come vien fuori da una lettura degli altri saggi del volume; ancora, lo stesso Reiss ammette che le citazioni del nome Socrate non possono essere considerate come similarità col modello o stretti riferimenti ad esso. È immediata la constatazione di quanto sproporzionato sia il rapporto (anche in termini di spazio nell’articolo) tra le supposte somiglianze e le tante differenze che lo stesso Riess non manca onestamente di elencare. Questa sproporzione dovrebbe suggerire che, una volta riconosciuto un possibile modello, resta comunque azzardato esagerarne la portata, anche in considerazione del fatto che il pubblico avrebbe riconosciuto più facilmente un’allusione generale, più o meno velata, che un vero e proprio ipotesto su cui fossero “costruite” a bella posta analogie e discrepanze. A parte il fatto che in qualsiasi confronto le analogie sono presupposte alle differenze, sembra ad es. difficile condividere con Riess che l’ironia apuleiana “is also created trough semantic lacunae” (per es. nel caso dell’omissione del tema della morte). Mi pare inverosimile che un ascoltatore potesse desumere ex silentio il contrasto con un testo in cui un altro personaggio analogamente accusato facesse deliberatamente e disinvoltamente riferimento alla morte. Sono differenze che noi siamo liberi di rilevare a posteriori, ma è duro immaginare che fossero trasparenti per un pubblico che ascoltava (o anche rileggeva) un’arringa. Mi trovo dunque d’accordo con Riess sull’associazione generale e presupposta col modello socratico, come sulla profonda consapevolezza che Apuleio doveva avere di tale possibile confronto; meno sull’effettiva portata delle allusioni, sulla tensione che ne deriverebbe, sulle conseguenze che tale modello avrebbe avuto nella costruzione dell’artificioso e “ibrido” io narrante del processo.

La seconda parte, dedicata alle Metamorfosi, si apre con un agile contributo di M. Zimmerman che propone (pur con qualche cautela) una “symposiastic reading” del romanzo. Tenendo opportunamente conto di molta bibliografia recente, l’autrice torna a incoraggiare una lettura dell’opera che sappia conciliare i motivi giocosi con le possibilità di un messaggio serio, secondo la tradizione dello spoudaiogeloion, categoria spesso invocata per il romanzo apuleiano,7 ma che la Zimmerman riconosce contemporaneamente come elemento fondamentale della conversazione (prima ancora che della letteratura) simposiastica. Di qui il passaggio a una rilettura dell’opera nella chiave “del banchetto”: dal rapporto che il narratore instaura col suo lettore, al carattere per così dire intimo di tale relazione, all’invito della voce narrante a una partecipazione attiva, già gli elementi di cornice, i meri atti stilistici vengono reinterpretati come tipici “modi” della conversazione simposiastica; dai racconti inseriti nella cornice del convivium a quelli dove un banchetto compare almeno per allusione o nel ricordo di chi parla, fino alla presenza di personaggi che ricordano i protagonisti dell’epigramma scoptico (genere di casa appunto nei banchetti), una quantità di elementi vengono accumulati, a dimostrazione di quanto fosse sollecitato nella mente del lettore il pensiero del banchetto e a conferma della possibilità che il romanzo, tramite tali elementi, in qualche modo alludesse anche a se stesso, al suo carattere di opera conviviale. Tutto ciò, bisogna dirlo, con risultati alterni. I più convincenti riguardano i casi in cui l’idea del banchetto è associata al genere dell’epigramma scoptico: molto produttiva l’idea di ricercare nei racconti delle Metamorfosi elementi e ingredienti di questo sotto-genere letterario. Tra i meno persuasivi annovererei il tentativo, a mio parere forzato, di evocare l’idea del banchetto per la cenetta, pur seguita da chiacchiere, tra Aristomene e Socrate. La proposta finale, secondo cui il romanzo potrebbe essere stato concepito come una lettura conviviale destinata a una ristretta élite di fortunati commensali, indipendentemente dalla sua verosimiglianza, conferma ancora una volta la probabilità della mescolanza di un dulce (indiscutibile) e di un utile (possibile) nella complessa tessitura dell’opera.

Ad un’altra categoria sociale si richiama anche Robert Vander Poppen. Di per sé non strettamente collegato al tema della paideia, il concetto di hospitium proposto in questo saggio come nuova possibile chiave di lettura del romanzo si rivela però idea interpretativa tanto originale quanto velleitaria. L’autore ha ragione nel ricordarci il valore anche politico dell’istituto sociale dell’ hospitium; ma è questo un elemento che, come molti altri del racconto, semplicemente appartiene all’orizzonte storico-culturale in cui è ambientata la vicenda; esso rispecchia una pratica sociale dell’epoca, com’è normale nell’epopea borghese e nel contesto per molti aspetti realistico del romanzo di Apuleio. Ma immaginare che la prassi dell’ hospitium in quanto tale occupi “a key place in the literary program of the work” è semplicemente un’appropriazione indebita. L’autore si spinge anche oltre, ipotizzando addirittura che l’importanza che Apuleio conferisce al tema potesse derivargli dalla sua propria esperienza di vita, dato che “Apuleius’ own legal troubles, stemming from a supposed violation of the hospitium of his future wife, may provide the reason for the prominence of the theme” (p. 158). Al di là di qualsiasi altra osservazione, indebito è già il passaggio logico immediato dall’osservazione della semplice presenza di un tema — peraltro a più livelli, dall’effettiva rintracciabilità a una solo possibile, per non dire forzatamente riconosciuta, allusione ad esso — alla sua elevazione a chiave di lettura. Tra gli studi che hanno rivolto attenzione a questo elemento, Vander Poppen cita a supporto il commento di Keulen; ma Keulen sostiene, in maniera del tutto legittima, e limitata ad alcuni episodi del libro I, la rivisitazione parodica di un modulo ampiamente diffuso nella narrativa; ingiusta poi la critica a M. Fernández Contreras che ha “ristretto” il campo della sua analisi a un’osservazione in termini analoghi (di rapporto col modello, di gioco con alcune ben note convenzioni epiche, specificamente omeriche): ma la Fernández Contreras non ha fatto che fermarsi dove ci si doveva fermare. L’istituto dell’ hospitium è certamente presente nelle Metamorfosi (tra i tanti riferimenti e paradigmi culturali che caratterizzano l’ambientazione dell’opera): ma da ciò non scaturisce affatto che le Metamorfosi possano essere lette come “a story about a quest for suitable hospitium”. Per motivi di spazio Vander Poppen analizza solo i due casi più importanti in cui si dispiegherebbe la centralità del tema dell’ hospitium; e già questi bastano a mostrare come la pretesa sia decisamente troppo ambiziosa. Alcune conclusioni paiono arbitrarie e non ricavabili dal testo, (cf. in particolare l’analisi del motivo dell’hospitium presso Milone). Ma è soprattutto il fatto che la caduta di Lucio scaturisca dalla rottura del vincolo dell’ hospitium tanto quanto dalle ossessioni ben più strutturanti nel romanzo come la curiositas unita alla superficialità del giudizio e le serviles voluptates, a porsi come lettura decisamente non autorizzata. Quanto al presunto hospitium di Iside (“the worthy hostess”) solo qualche puntualizzazione: inaccettabile la proposta per cui l’abluzione sacra, elemento centrale non solo nei culti misterici, ma nella stragrande maggioranza delle religioni, possa essere equiparata al bagno offerto dall’ospite; e ugualmente che il cubile su cui l’asino si lascia cadere stremato sia il dono con cui “Isis shows the generosity of a good host, granting Lucius much needed divine sleep” (peraltro, se si vuole ragionare in termini positivistici, ricordo che il sintagma apuleiano in questione contiene un imbarazzante determinativo: Lucio dice ‘in eodem illo cubili sopor … oppressit’, ‘il sonno mi avvolse … in quello stesso giaciglio dove mi trovavo’, scil. il giorno prima, quando di Iside non vi era traccia!); o infine, che le rose-antidoto del cap. 6 equivalgano all’elemento di ospitalità del pasto.

Io non credo che indagini di questo genere contribuiscano a una migliore comprensione di un testo che peraltro mostra come sua caratteristica fondamentale l’irriducibilità. Del resto, dai tempi di Riefstahl in poi, tutti i tentativi di identificare temi unificanti, di rintracciare richiami interni e allusioni precise nella semplice ricorrenza di temi e motivi simili, o di far rientrare episodi tra loro assolutamente legati in precise categorie interpretative, hanno dato ben pochi frutti. Per non dire di quanto un metodo rigido e schematico porti in molti casi a sminuire o perdere del tutto gli elementi comici o più chiaramente milesii della narrazione: l”interlocking of themes and meaning’8 nelle Metamorfosi ha spesso più un carattere casuale che simbolico. Allora si potrebbe sostenere, con lo stesso diritto (e la stessa probabilità) la centralità di qualsiasi altro tema si voglia isolare nel romanzo; un tema rintracciabile ad esempio potrebbe essere quello della milizia: dalla militia amatoria di Lucio con Fotide, alla “milizia” dell’asino presso i ladroni prima e nel mondo dopo (e commilitones sono spesso definiti bestie e schiavi compagni di Lucio); dalla falsa milizia di Tlepolemo-Emo, alle imprese dei ladroni (i quali si esprimono in un chiaro sermo militaris), alla sancta militia isiaca abbracciata dal protagonista nel finale. Ma quanto senso avrebbe inferirne che ognuno di questi episodi giochi una parte nel percorso di Lucio e che dunque il tema si possa utilizzare come chiave interpretativa?

Un approccio di tipo storico tenta anche Elizabeth Greene che, nella commistione tra riflessioni serie su aspetti precisi della realtà storica e i toni scherzosi, vede un indizio per definire meglio il genere letterario delle Metamorfosi; l’autrice in particolare rintraccia nel romanzo apuleiano analogie tematiche con le satire di Giovenale, e se ne serve per confermare come la lettura migliore sia quella che contempla insieme il fine serio e l’intrattenimento (e su questo siamo d’accordo), e per inscrivere le Metamorfosi appunto nel filone più ampio della scrittura satirica e assegnare così ad Apuleio un posto tra gli scrittori di “critica sociale” (e su questo siamo un po’ meno d’accordo). Ora, non avrebbe certo senso negare che nella composita struttura dell’opera si possano trovare spunti di satira sociale o temi già trattati dalla satira in versi; così come è vero che in più occasioni Lucio esprime un giudizio, in modo più o meno ironico, sui comportamenti umani; ma né la visione moralizzante assume mai nelle Metamorfosi un carattere strutturale, né il bonario, e spesso comico, sorriso apuleiano (pur camuffato da indignatio asinina) di fronte alle prodezze di un’adultera o di un ladrone, può in alcun modo accostarsi alla risentita e amara invettiva del poeta satirico. In altre parole i possibili elementi in comune tra i due testi non garantiscono una connessione tra i due autori e le loro rispettive opere. Ciò che conta non è la mera presenza di elementi simili, ma il trattamento che ciascun autore ne fa. Il testo stesso smentisce, mi pare, che l’elemento del social commentary possa giocare una parte così rilevante nell’opera apuleiana, così da divenire “the very characteristic of the novel that allowed for safe, even subtle criticism”. Non mi pare verisimile che Lucio, prima della trasformazione, rappresenti in qualche modo “the elite classes of the empire corrupted by their serviles voluptates and curiositas” (p.184) o che attraverso il tema della nobiltà di sangue vs nobiltà di cuore “a strong relationship with the Satires of Juvenal is visible” (p. 185), o che “the abandonment of his family, the marker of his aristocratic self, is a prerequisite for Lucius’ salvation” (p. 187). Né possiamo ancora dire, dopo tanti dibattiti sull’argomento, che la trasformazione di Lucio inizierà dall’acquisire coscienza dei suoi cattivi comportamenti; nelle Metamorfosi non c’è affatto un percorso di apprendimento morale, non c’è un progresso verso la redenzione.9 Peraltro Apuleio mostra continuamente, dal prologo in poi, un’elevatissima coscienza del genere in cui si sta esibendo,10 quello della narrativa d’invenzione: inglobare materiale di provenienza diversa, “giocare” con i generi, è perfettamente confacente a questa forma letteraria, che però Apuleio stesso preferì associare alla Milesia, un tipo di letteratura per noi piuttosto sfuggente ma che certamente aveva come caratteristica il puro intrattenimento, privo di fini morali o educativi; questi materiali si possono identificare (lo ha fatto bene in tempi recenti M. Zimmerman e si mostra capace di farlo anche la Greene), ma la loro natura molteplice non deve confonderci: trovare connessioni e analogie è sempre un esercizio stimolante, sovraccaricare di significato queste connessioni è spesso rischioso.

Giocare con i generi è un’operazione affascinante quando è condotta consapevolmente da un autore classico. Molto più pericoloso se a giocare con i generi siamo noi moderni: e con questo vengo al saggio di Amanda Mathis, un tentativo quantomeno incauto di dimostrare il ruolo “fondamentale” ricoperto dall’elegia nei primi due libri del romanzo. “Close similarities in wording establish an unmistakable link between Apuleius and Propertius, Ovid and Tibullus” è la promessa dell’abstract, e la Mathis si sforza di dimostrare l’indimostrabile, cominciando con il reclutare tutti i personaggi e i ruoli (con sovrapposizione non sempre chiara di questi due concetti) del mondo elegiaco per ritrovarli del tutto inaspettatamente nei più vari contesti delle novelle apuleiane, salvo giustificare eventuali incoerenze e discrepanze (perché i personaggi apuleiani proprio non vogliono saperne di assolvere ai ruoli rigidamente imposti dal codice elegiaco) con il ricorso al metodo del “role-switching”: ogni personaggio assumerebbe cioè di volta in volta, e a seconda del contesto, più di un ruolo elegiaco, e la domina (ad es. Meroe) può diventare saga, tornare puella e farsi persino exclusus amator, in un vorticoso e caleidoscopico inseguirsi di travestimenti che proporrebbero al lettore una sorta di “who’s who” letterario. Ora, io credo che a “imbarcarsi in un complesso gioco letterario” qui non sia Apuleio ma proprio la Mathis. Mi accontenterò di discutere qualche elemento e lascerò ancora una volta il giudizio al lettore. Tra le supposte analogie situazionali, la Mathis comincia con l’assimilare la condizione disgraziata in cui versa Socrate con la condizione dell’amante elegiaco: in tal modo si equipara alla sofferenza d’amore la mera sofferenza materiale a cui è ridotto il personaggio apuleiano, descritto semplicemente come un mendicante (e se pure vogliamo camuffarla da sofferenza d’amore, quest’ultima non è peraltro patrimonio esclusivo dell’amante dell’elegia, dato che soffrono anche l’ adulescens della commedia, il protagonista dell’epigramma ecc.). Ancora, le angoscianti caratteristiche fisiche del protagonista, luror (non pallor tra l’altro) e macies, segnali della disperazione in cui lo ha ridotto la magia (e che peraltro prefigurano l’orribile morte che egli incontrerà), vengono assimilate ai tratti tipici dell’innamorato pallido e disfatto dall’amore; ma magrezza e pallore non sono segnali univoci dell’amore non corrisposto (a meno che non si voglia considerare un’innamorata infelice persino la terribile Erichto, descritta da Lucano con caratteri simili, cf. , Lucan. Phars. 6, 515 ss.). Essi sono piuttosto, qui e più avanti, sintomi e annunci di morte, segnali funzionali che dovrebbero mettere in allarme Aristomene, il quale invece, come Lucio, crede di volta in volta alla verità che gli fa più comodo (ottima analisi in Keulen ad loc.). Ricordo, incidentalmente, che è stato Socrate a stancarsi della maga e ad abbandonarla, e non il contrario, come appunto la stessa Meroe lamenterà (Met. 1, 12): come faccia un tale personaggio a ricoprire le vesti del servus amoris proprio non capisco. Sull’altro esempio (incontro tra Lucio e Fotide), se è vero che il rapporto sessuale tra i due protagonisti è descritto attingendo al complesso metaforico della militia amoris, questo non significa automaticamente che “the sexual relationship is unmistakably set in elegiac terms” e che i due protagonisti assurgano al ruolo dei protagonisti dell’elegia. E se Fotide non può certo essere assimilata a una Cinzia, assolutamente paradossale è poi che la si ritrovi ridotta al rango della lena, solo perché fa da tramite fra Lucio e gli esperimenti magici di Panfile. Va anche peggio quando la Mathis si lancia nella ricerca di supposte affinità lessicali rivelatrici di tale rapporto. Un campanello d’allarme è costituito, all’inizio della discussione, dalla pretesa che l’esclamazione idiomatica me miserum, sia pure col suo colorito tragico,11 possa essere confinata al dizionario dell’elegia, e che dunque già questa basti a posizionare Socrate nello scomodo ruolo dello sventurato amante elegiaco sottoposto alle vessazioni della domina crudele. Peraltro la frase si incontra all’inizio del racconto di Socrate e serve come commento alla condizione miserabile in cui versa e come incipit al racconto delle sue disavventure. Insomma, se proprio si vuole assimilare questo me miserum a quello pronunciato da Properzio o dal narratore ovidiano bisognerà pure dare qualche importanza al contesto.12 Ora, non è solo questione di sensibilità linguistica, ma anche di metodo. L’analogia lessicale non si può riconoscere ovunque. È necessario che tra i due testi chiamati in causa si attivino livelli diversi di connessione. Si può partire ad es. da un’analogia contestuale, che da sola può bastare a far riconoscere, nella scelta di uno solo o di un gruppo di termini, l’allusione; oppure dalla stessa peculiarità di un nesso, che richiami indubitabilmente un precedente famoso (un buon esempio è il famoso ‘quousque tandem cantherium patiemur istum?’ di Met. 3, 27); altrimenti è necessario che i termini in questione non siano termini neutri, ma in qualche modo marcati. E di conseguenza bisognerà saper riconoscere ciò che nel testo è informazione lessicale neutra rispetto a ciò che è caratteristico: termini marcati (e quindi possibili “parole chiave”) sono ad es. quelli che all’interno di un preciso genere letterario si fanno portatori di un preciso senso, tipico solo di quel genere letterario, termini che vengono quasi “transcodificati” (per l’elegia ad es. servitium, fides, militia, patientia, nequitia, ecc.) in coerenza con l’ottica parziale imposta dal genere. Ad es. se davanti all’amante Lucio avesse invocato la fides, o rinfacciato il suo servitium, avrebbe parlato come un amante elegiaco: ma nel nostro caso, anche se è vero che il paraklausithyron è un elemento tipico dell’elegia, non vi è nulla che possa assimilare la scenografica entrata della strega a un paraklausithyron; e non si può invocare come “analogia lessicale” tra la scena apuleiana e un paraklausithyron l’ovvia ricorrenza di parole comuni (indispensabili alla narrazione) come ianua, reserata, e addirittura cardinibus (cf. p. 203). Allo stesso modo, poco più sotto (p. 209), la pura e casuale ricorrenza di verbi come respicio o discedo non basta per stabilire una parentela tra le scene di Met. 2, 6 e i passi di Tibullo dove gli stessi verbi compaiono. Che il risultato di queste “coincidenze verbali” sia quello di assimilare Fotide a Delia è un’illazione indebita. Non proseguo. Se Apuleio ci invita a divertirci, come la Mathis più volte ci ricorda, non possiamo esagerare: un lettore attento, come quello a cui la Mathis più volte fa riferimento, deve anche sapersi porre dei limiti.

Nel saggio successivo (la cui connessione col tema della paideia appare per la verità piuttosto lassa) David Carlisle si occupa del tema del sogno, ricorrente nel romanzo e significativo anche in un contesto problematico come quello della conversione di Lucio. È proprio al’interno di un sogno che, nel finale, il sacerdote di Osiride riceve l’ordine di impartire l’ultima consacrazione a quello che fino a poco prima era Lucio di Corinto e che adesso, con il famoso aprosdoketon di Met. 11, 27, diventa il Madaurensis. In qualche modo è un sogno ad oltrepassare i confini della finzione e a dare “ufficialmente” inizio al problema di interpretazione. È certamente vero che la categoria del sogno assume spesso, all’interno del romanzo, un peso importante nell’interpretazione degli eventi; altrettanto interessante è osservare che i sogni, collocati in punti cruciali della vicenda, svolgono una funzione doppia, dal momento che all’interno della narrazione si assumono il ruolo di comunicazioni supplementari (e in qualche modo contribuiscono alla “sospensione dell’incredulità”) e, a un livello superiore, possono detenere il potere di dare una chiave (o di complicare le cose) al lettore per la corretta interpretazione dell’intera storia. Al di là del nostro personale giudizio su alcune conclusioni, o persino sull’importanza da attribuire a questo elemento della narrazione, l’indagine è di sicuro ben condotta, con una certa solidità nell’ancorarsi al testo e una matura tendenza a resistere agli eccessi e a non lasciarsi sviare da certe recenti sovrainterpretazioni. Carlisle sceglie di soffermarsi in particolare sulla presenza del sogno nella novella di Aristomene e in quella di Carite per mostrare i vari modi in cui questo tema viene sfruttato, e.g. per conferire autorità a un evento o per minarla del tutto, per sbloccare la trama o per complicarla: questo uso libero (o questa ambiguità) della categoria sogno implica naturalmente che nel finale un nuovo bivio si ponga tra la possibilità che il sogno “autorizzi” una storia o viceversa che una storia narrata dia conferma (e autorità) a un sogno. La questione diventa cruciale, perché finisce col coincidere con quella dell’interpretazione generale del romanzo, su cui però, mi pare, l’autore non si sbilancia molto.

L’ultimo saggio, di Niall Slater, torna a un rapporto più stretto col “contenitore” della paideia, affrontando un tratto caro alla declamazione quanto alla narrativa (specie quella che subisce l’influenza della seconda sofistica), quello della digressione artistica. Le arti visuali, e la teoria della visione in generale, acquisirono nell’età della seconda sofistica un’importanza sempre maggiore: coerentemente con questo interesse, si accumulano nei romanzi i casi di ekphrasis letterarie, giustamente definite come l’equivalente della retorica epidittica nella novellistica. Ora, come lo stesso Slater giustamente rileva, è difficile liquidare le ekphraseis apuleiane come mere interruzioni artistiche nel flusso del racconto: esse hanno quasi sempre rilevanza semantica o meglio attinenza tematica con i concetti, cruciali nel romanzo, della visione, della curiosità e del desiderio. L’analisi di Slater si concentra su due descrizioni in apertura di libro (II: Lucio che osserva Ipata, e V: Psiche alla scoperta del palazzo divino) e propone, attraverso esse, un esame del diverso trattamento cui Apuleio sottopone non solo la tecnica dell’ ekphrasis ma la stessa teoria della visione. Slater si concede qualche esagerazione o considerazione di parte: rilevo ad es. come non sia vero che nel primo passo Apuleio abbia (e di proposito) escluso tutti i verbi che concernono la visione. Non si possono liquidare i participi come aspiciens, quasi che la posizione gerarchicamente inferiore nella sintassi ne limiti anche la portata semantica; inoltre lo stesso verbo principale considerabam può ben ascriversi tra i verbi di vedere (e mi resta anche il dubbio che circumeo sia usato come equivalente di perlustro). Quanto alle altre scelte verbali (che secondo Slater rappresenterebbero fondamentalmente modi di percezione alternativi alla visione), esse rispondono alla solita ricerca apuleiana di varietà e simmetria. In ogni caso, colpisce la differenza col passo di Psiche in cui l’elemento della visione è davvero enfatizzato (e ai verbi sottolineati da Slater potevano aggiungersi i successivi rimatur, conspicit, e il gioco etimologico tra admirationem e mirificum). Sebbene le conclusioni non siano immediatamente chiare per chi legge, il saggio propone almeno una suggestiva rilettura dei passi in questione.

In conclusione, il volume risulta interessante soprattutto per le possibilità di rilettura che riesce ad offrire anche per passi molto famosi. Naturalmente, come è sempre vero per le raccolte di saggi, la qualità dell’analisi varia (anche in modo importante) da un saggio all’altro, né è sempre rispettato il presupposto tematico che il congresso, prima ancora che il titolo della silloge, sceglieva come lente d’ingrandimento. Ancora, se l’intertestualità è mezzo prediletto di sfoggio della paideia, proprio in occasione delle analisi del testo in questa chiave i risultati sono quanto mai deludenti. Più in generale mi sembra che la paideia come chiave di lettura funzioni meglio (e produca risultati migliori sul piano dell’interpretazione) nel caso dell’orazione di difesa che non per il romanzo; gioca contro probabilmente anche l’enorme mole di contributi all’interpretazione di cui le Metamorfosi hanno goduto negli ultimi anni, ciò che rende davvero difficile addurre ulteriori elementi originali al dibattito.

INDICE DEI CONTRIBUTI

I THE APOLOGY
STEPHEN J. HARRISON, The Sophist at Play in Court: Apuleius’ Apology and His Literary Career
JAMES B. RIVES, Legal Strategy and Learned Display in Apuleius’ Apology
WERNER RIESS, Apuleius Socrates Africanus? Apuleius’ Defensive Play
VINCENT HUNINK, Homer in Apuleius’ Apology
THOMAS D. MCCREIGHT, The “Riches” of Poverty: Literary Games with Poetry in Apuleius’ Laus Paupertatis (Apology 18)
STEFAN TILG, Eloquentia ludens – Apuleius’ Apology and the Cheerful Side of Standing Trial

II THE METAMORPHOSES
MAAIKE ZIMMERMAN, Cenatus solis fabulis: A Symposiastic Reading of Apuleius’ Novel
ROBERT E. VANDER POPPEN, A Festival of Laughter: Lucius, Milo, and Isis Playing the Game of Hospitium
ELIZABETH M. GREENE, Social Commentary in the Metamorphoses: Apuleius’ Play with Satire
AMANDA G. MATHIS, Playing with Elegy: Tales of Lovers in Books 1 and 2 of Apuleius’ Metamorphoses
DAVID P. C. CARLISLE, Vigilans somniabar: Some Narrative Uses of Dreams in Apuleius’ Metamorphoses
NIALL W. SLATER, Apuleian Ecphraseis: Depiction at Play

Notes

1. Rives cita F. Gaide Apulée de Madaure a-t-il prononcé le De Magia devant le proconsul d’Afrique? LEC 61, 1993, che riteneva addirittura “del tutto inappropriate” molte sezioni della prima parte dell’opera.

2. Che solo qui Apuleio chiami il personaggio omerico col nome di Alexander mi sembra già ben giustificato dallo stesso Hunink come derivazione diretta e immediata dall’ipotesto (p. 78); non c’è bisogno di andare a scomodare inverosimili contemporanee allusioni ad Alessandro il Grande.

3. Confesso di restare piuttosto scettica sulla possibilità che in Apol. 18, 6-8 (la digressione sulla paupertas) Apuleio, attraverso la menzione di Omero, alluda in effetti direttamente ad Odisseo. Lo stesso contesto, la simmetria della lista (che associa personaggi famosi poveri con una virtù apparentemente conseguenza della stessa povertà) scoraggia dal pensare che, solo nel caso di Omero, il lettore fosse portato a “scollare” personaggio menzionato e qualità associata, e ipotizzare altri riferimenti sottostanti. Non vedo difficoltà nel giustificare il nesso paupertas diserta come un analogo del concetto, quasi di repertorio, espresso dall’oraziano carm. 2, 2, 51 s. ‘paupertas inpulit audax ut versus facerem’.

4. È questo un motivo risalente all’ Ifigenia in Aulide di Euripide che viene variamente declinato anche in latino (Cic. de inv. 1, 32, 54; pro Sext. 18, 40; Sen. contr. 10, 2, 6; Hier. adv. Ruf. 3, 2) e ritorna persino nei testi giuridici (col giureconsulto Paolo in Dig. 50, 17, 42), ma su questo basti un’occhiata ai repertori di proverbi e frasi idiomatiche.

5. su questo nello stesso volume, Rives, p. 27, con alcuni esempi.

6. Come ho mostrato in un mio recente contributo, cf. L. Nicolini, ‘Ad (l)usum lectoris’, MD 58, 115-180.

7. Ultimamente analizzato in questa prospettiva con grande lucidità da L. Graverini, Le Metamorfosi di Apuleio. Letteratura e identità, Pisa 2007, pp. 119-149 in particolare.

8. Come ha ben dimostrato in tempi passati C. Schlam, The Scholarship of Apuleius since 1938, CW 64, 1971, p. 295 in particolare.

9. Che la salvezza del protagonista non arrivi per meriti ma gratuitamente è idea largamente condivisa, ma rimando da ultimo al saggio di introduzione in L. Nicolini, Apuleio. Le Metamorfosi, Milano 2005, pp. 20 ss.

10. Su questo benissimo da ultimo Graverini 2007, pp. 47-55 in particolare.

11. Rimando ancora a Keulen ad loc. per questa esclamazione tragica (o tragicomica) che nella struttura tipica della miseratio, mirava a destare la compassione nell’uditorio (Quint. Inst. 6, 1, 24) e che, frequente anche nella commedia, conosceva addirittura delle prescrizioni sulla pronuncia (era raccomandato prolungarne le vocali).

12. Un’ottima discussione proprio su questa esclamazione ( a common piece of verbal furniture in a wide range of discursive situations i latin) è contenuta in S. Hinds, Allusion and Intertext. Dynamics of appropriation in Roman poetry, Cambridge 1998, pp. 30-34; con riferimento all’ipotesi di McKeown secondo cui la ripresa di questo tassello in Ovidio celerebbe una precisa allusione a Properzio, Hinds ne analizza diffusione, ambiti di utilizzo e, conseguentemente, effettivo grado di allusività. E lascio alle sue parole la conclusione anche sul nostro passo: “So, with the theatres, the speakers’ platforms, perhaps the very streets of Rome resounding with the cry me miserum, how can a non-exclamatory Propertian miserum me make itself heard above the hubbub?”