BMCR 2008.07.32

The Faber Pocket Guide to Greek and Roman Tragedy

, The Faber pocket guide to Greek and Roman drama. London: Faber and Faber, 2005. xxix, 384 pages ; 18 cm. ISBN 0571219063. £8.99.

Si tratta di una “guida”, un’introduzione generale alla drammaturgia greca e latina, destinata a una platea eterogenea e non specialistica: dagli appassionati di teatro (non soltanto classico) ai lettori onnivori di buon livello culturale. L’autore è un regista “freelance”, che ha lavorato per diversi anni al National Theatre di Londra ed è stato “Head of New Writing” dal 1989 al 1994. Il fatto che è un uomo di teatro piuttosto che un filologo, se da un lato comporta il rischio di un approccio inadeguato sul versante strettamente letterario, formale e testuale (un rischio peraltro non grave in un libro come questo, di carattere divulgativo), dall’altro lato produce un vantaggio notevole, consistente nell’interesse consapevole e tecnicamente raffinato per gli aspetti scenici e visivi (ad esempio, nella ricostruzione dell’impostazione della rappresentazione e nella valutazione della sua efficacia).

La guida si apre con un’introduzione dedicata quasi esclusivamente alla tragedia greca, con particolare attenzione alle condizioni sociali e culturali dell’Atene classica (p. IX-XXIX). Sintetica e pregnante (sia pur non ancora esaustiva) la definizione della tragedia, riguardante le relazioni “between man and his own death and other men”, nonché “between man and the immortal gods and things that do not change” e infine “between man and the passions that live inside him” (p. XIII, 3, 68-69, 130). Il profilo dei tre grandi poeti tragici, Eschilo (p. 1-66), Sofocle (p. 67-128) ed Euripide (p. 129-246), è delineato in modo denso e asciutto, chiaro e preciso, a partire dal contesto storico e socio-culturale, esaminando i principali punti del loro pensiero e del loro metodo drammatico. Le singole tragedie sono passate in rassegna, ciascuna con la propria materia mitologica, la trama (la selezione delle vicende e la loro costruzione in una sequenza motivata), la problematica ideologica, morale e religiosa.

La tragedia greca è affrontata dunque in maniera essenziale e decisamente efficace (pur nei limiti di un discorso divulgativo). Non ugualmente accurata la trattazione della commedia. Il profilo di Aristofane (p. 247-286) non rende conto del suo genio creativo ed esuberante: non più che un accenno è dedicato al surrealismo policromo e scoppiettante del suo teatro. Inadeguata anche l’esposizione della commedia romana, il cui quadro d’insieme è incluso nel profilo di Plauto (p. 301-322). I lineamenti fondamentali del teatro di quest’ultimo sono messi nel giusto rilievo; tuttavia delle venti commedie a noi pervenute ne sono trattate solamente due, il Miles gloriosus e i Menaechmi, che sono tra le migliori ma sono lontane dall’esaurire la gamma tematica e cromatica della sua arte. Bisognava dedicare qualche pagina all’ Aulularia (per il personaggio di Euclione, oltre che per la straordinaria fortuna riscossa da questa commedia nella drammaturgia moderna), alla Casina (per il peculiare conflitto tra il padre e il figlio), alla Mostellaria (per la costruzione della trama e la comicità di situazione), allo Pseudolus (non soltanto per il metateatro, a cui Burgess dedica almeno un accenno, p. 308). Lo stesso vale per Terenzio (p. 323-333): tutto sommato, il suo profilo è tratteggiato in modo alquanto equilibrato; non è contemplato però l’uso metaletterario dei prologhi, insieme con le argomentazioni di difesa dalle accuse di imitatio e di contaminatio. Tra i suoi drammi è trattato soltanto l’ Eunuchus, che non è il più significativo e tanto meno si può considerare paradigmatico. Perché non l’ Hecyra ? Perché non gli Adelphoe ? Più spazio meritava in generale il problema educativo, che sta al centro del teatro di Terenzio.

Di contro, il dramma di Seneca è affrontato in modo incisivo ed efficace (p. 335-376). Il tema politico è messo a fuoco a buon diritto come il principale nucleo ispiratore, ulteriormente illuminato dal paragone con Sofocle ed Euripide, il cui sfondo storico e culturale è incommensurabile col dispotismo imperiale del periodo neroniano. Quella di Seneca è definita “tragedy with the democracy left out” (p. 342): la corte descritta nella Phaedra appare “a grim place”; Teseo è “an unfeeling brute”, non soltanto “a bad husband” ma anche “cruel and tyrannical” (p. 345). La protagonista della Medea è “a force of Nature”, nella misura in cui si trasforma “from a person into something as merciless and implacable as a hurricane or a forest fire” (p. 360). Il Thyestes assurge a un piano emblematico, in quanto racchiude tutto il mondo psicologico e morale del teatro di Seneca: “a grim mixture of grievance, anger, resentment, paranoia, and the toxic conservatism of the central character” (p. 368). Queste brevi citazioni servono anche a dare l’idea dell’esposizione sintetica e vigorosa, diretta e perspicua, che costituisce un’altra risorsa dell’opera.

A uno sguardo d’insieme, mi sembra palese che l’autore sia più portato per il teatro tragico che per quello comico: di qui lo sviluppo diseguale dell’uno e dell’altro, con esiti di livello così diverso. Questa “guida”, che si lascia giudicare complessivamente discreta e talvolta finanche felice, sarebbe stata eccellente (sia pur limitatamente alla finalità divulgativa) se fosse stata dedicata esclusivamente alla tragedia.