BMCR 2008.07.29

Habitus barbarus. Kleidung und Repräsentation spätantiker Eliten im 4. und 5. Jahrhundert. Ergänzungsbände zum Reallexikon der Germanischen Altertumskunde, 55

, Habitus barbarus : Kleidung und Repräsentation spätantiker Eliten im 4. und 5. Jahrhundert. Ergänzungsbände zum Reallexikon der germanischen Altertumskunde ; Bd. 55. Berlin-New York: Walter De Gruyter, 2007. xi, 481 pages : illustrations, maps ; 25 cm.. ISBN 9783110191509. €128.00.

Il volume che si intitola Habitus barbarus, apparso nel 2007, contiene la dissertazione di Philipp von Rummel, allievo del prof. Heiko Steuer, presentata nel 2005 all’università di Freiburg an Breislau e vincitrice nel 2006 del Premio Juliana Anicia. L’opera è divisa in nove parti, cui si aggiungono gli apparati (bibliografia, nomi di persone, luoghi e cose notevoli). Dopo l’introduzione e la posizione del problema (“Fragestellung”) l’A. si pone la questione del riconoscimento del costume “straniero” nell’impero romano d’occidente e ne passa in rassegna la storia degli studi e le varie interpretazioni (18-64) a partire dell’illuminismo—dopo l’ovvio riferimento a Tacito—fino a contributi recenti del 2005. Sono tenuti presenti da un lato significativi rinvenimenti archeologici (dall’impero d’occidente fino alla Russia meridionale) e dall’altro alcune dibattute questioni che sono nate intorno alla possibilità di identificazione di elementi “romani” o “germanici” accreditata specialmente da alcuni esponenti della scuola tedesca, in particolare da Joachim Werner e dai suoi seguaci.

La trattazione sui barbari e i Romani nelle fonti storiche tardoantiche (65-82) parte dalla variabilità del concetto di barbari, per i Romani: essi sarebbero stati visti in termini del tutto convenzionali dall’élite intellettuale del tardo IV e dell’iniziale V sec. che in un mondo sottoposto a grandi trasformazioni non seppe far di meglio che tornare a un presunto e ideale mondo antico, sognato da Ammiano Marcellino e da Sinesio di Cirene. Dopo la catastrofica battaglia di Adrianopoli Temistio, ma con lui Claudiano, Rutilio Namaziano e poi vari autori cristiani considerano i barbari come i distruttori e i nemici della civiltà, fino alla svolta del VI secolo, quando gli scritti di Boezio, Cassiodoro ed Ennodio rovesciano la situazione intendendo le nationes dei Goti e dei Romani un unico populus e Teodorico il custos libertatis.

L’habitus romanus nell’ideale romano doveva essere espressione della funzione e della condizione di chi lo indossava (83-96). Questo significato si addice in particolare alla toga anche se nella prima metà del V sec. Macrobio (Sat. 3, 13, 4) non sembra avere ben chiaro come fosse fatta quella antica. L’analisi si sofferma quindi sulla tunica, poi sulla paenula che, secondo una norma del 382 d. C. contenuta nel Codex Theodosianus, doveva essere indossata dagli stessi senatori al di fuori delle loro funzioni ufficiali. Dai calzari (con speciale attenzione al calceus patricius) il discorso si sposta sugli agli abiti femminili e infine si concentra su alcune vesti imperiali.

Il quinto capitolo, che si estende per quasi un quarto dell’intero volume (pp. 97-197), tratta dell’habitus barbarus. Nel concetto dell’autore il termine habitus si estende fino ai caratteri fisici, persino fisionomici, dei barbari (101-106). La trattazione si articola in una dozzina di casi di studio, desunti dagli autori antichi. Si parla dei tratti fisici dei barbari—spesso intercambiabili o comunque appannaggio di più nazionalità ed etnie—e della rappresentazione dei barbari in Eusebio, l’ Historia Augusta, Ammiano Marcellino, Prisco, Giuliano, Ambrosio, Claudio Claudiano, Sinesio, Giovanni Crisostomo, Sidonio Apollinare e Vittore di Vita (da cui è tratta l’espressione habitus barbarus) nonché in Ennodio, il quale si scaglia contro la barba gotica di un certo Ioviniano.

A proposito dei Goti pelliti—ovvero rivestiti di pelli secondo una pervicace tradizione storica—von Rummel cita l’invettiva di Claudio Claudiano, panegirista di Stilicone, contro il prefetto del pretorio Rufino (143-148), il quale nel 395 cercava l’alleanza con Alarico contro Stilicone. Entrato a Costantinopoli Stilicone avrebbe trovato Rufino in mezzo ai barbari, vestito come loro, come lo descrive il panegirista che riprende un ben noto topos.

La sesta parte (197-268) è dedicata alla discussione delle fonti iconografiche. Di particolare interesse qui l’excursus dedicato al dittico generalmente detto “di Stilicone” (206-213). Dopo un’ampia sintesi delle varie opinioni proposte per la datazione l’A. riconosce (p. 212) che l’ufficiale qui rappresentato—sia o meno lo stesso Stilicone—si presenta con indosso una clamide, un abito che contrasta con quello della élite civile. Toga e clamide rappresentano dunque i connotati del mondo civile e di quello militare. Segni di quest’ultimo sono anche i torques e i lunghi capelli che contraddistinguono le guardie del corpo, i protectores o le scholae palatinae, caratteri che compaiono fin dal fregio dell’arco di Galerio a Salonicco, alla fine del III sec. d. C. Alle pp. 245-249 c’è una piccola digressione sulla terminazione a V della tunica, che l’A. ritiene “allgemein im Römischen Reich” e reputa propria della sfera quotidiana, della caccia e dell’abito militare. In effetti si deve considerare che si tratta, nel V sec. d. C. della normale evoluzione di un vezzo che si ritrova nel secolo precedente e che compare spesso nelle statue dei dignitari fin dalla fine del III sec. d. C., come ad es. nel mausoleo di Sarkamen, in Serbia.1

Il settimo capitolo tratta propriamente i rinvenimenti archeologici e l’ipotetico habitus barbarus. In particolare viene discusso il caso della così detta dama di Castelbolognese (323-331) che Volker Bierbrauer aveva senza dubbio considerato una donna germana orientale danubiana. Nell’ampia sintesi Philipp von Rummel tratta in maniera particolareggiata la questione della possibile attribuzione di un individuo a una determinata etnia solo sulla base di un singolo elemento del vestiario, che secondo altri potrebbe dipendere piuttosto da una moda e soprattutto si sofferma sulla eventuale datazione, assai discussa, della coppia di fibule della dama, che trova confronti non solo in ambito danubiano e orientale, ma anche in quello gallico, come indicano recenti scoperte. In conclusione (p. 331) von Rummel non ritiene affatto “zweifellos” che la donna possa essere interretata come una germana orientale. Analogamente altre tombe, sottoposte a una critica stringente, si rivelano diverse da come sono state finora interpretate. Tale ad es. la tomba 1 di Porto dell’isola di Capraia che rivela nell’equipaggiamento del soldato piuttosto tratti mediterranei (353).

Nel capitolo conclusivo, sulla scia di Georg Kossack, l’autore riconosce che le sepolture di prestigio nelle aree di conflitto sociale o di incontróscontro di civiltà ebbero una importante funzione di rappresentazione delle élites. Perciò nella sintesi finale (401-406) l’autore ribadisce come l’habitus barbarus possa essere inteso come carattere distintivo di una nuova élite.

Nel nostro tempo si tende a trattare con molta cautela “politically correct” la tematica dei barbari. Si va sgomberando il campo da tendenze “pangermanistiche”, che connotavano nella scorsa generazione specialmente la scuola tedesca, e da più parti si vanno sottoponendo a forte critica la volontà e i criteri di attribuzione etnica a elementi della cultura materiale, anche per evitare il pericolo di creare a tavolino etnie, poiché, sostiene l’autore, “Ethnien sind keine primär archäologische Kategorie” (12) e anche nella complessa discussione dell'”etnogenesi” la questione etnica non deve essere affatto utilizzata (13). L’opera del von Rummel sgombera dunque il campo da facili certezze e per questo risulta molto positiva.

Il nocciolo della sua tesi è che i rinvenimenti funerari, i testi e le immagini che hanno riferimento a un habitus barbarus non alludono sempre a un costume non romano, poiché proprio questo habitus può essere talora un mezzo di rappresentazione di una élite tardoantica all’interno stesso dell’impero (p. 377). L’A. disegna il delinearsi, a partire dal III sec. d. C. di due grandi categorie nell’ambito delle classi sociali più alte della metà occidentale dell’impero romano. La prima formata dai senatori, detentori di un patrimonio e di una educazione specifica, l’altra costituita dai militari di grado elevato. La distinzione è chiara a Roma ove i monumenti onorari dei primi si trovano nel foro di Traiano e quelli degli altri nello spazio del foro, vocato al potere imperiale. I senatori hanno lasciato scritti e opere in cui si riflettono i loro ideali e le loro aspirazioni, mentre i secondi non hanno prodotto nulla di simile. I fenomeni esaminati avvengono all’interno dell’impero romano e paiono un fenomeno specifico delle classi alte: nel barbaricum effettivamente si può parlare propriamente di un habitus barbarus, anche se in qualche modo influenzato dal mondo romano.2

L’opera è molto importante perché grazie a un ampio e tradizionale uso di fonti eterogenee—molto ben padroneggiate – offre una prospettiva innovativa di analisi di un elemento, quale quello del vestito, raramente inteso come frutto di una volontà di autorappresentazione o più in generale di rappresentazione di una figura simbolica all’interno di un gruppo. Si riconosce qui l’esito di tendenze strutturaliste della cultura occidentale, attente al linguaggio dei segni. Tra i vari meriti dell’opera vi è quello di rimettere in discussione tesi spesso con troppa facilità considerate come verità acquisite e quindi di stimolare una più attenta riflessione sui rinvenimenti e il loro valore.

Un problema di carattere interpretativo che la ricerca archeologica potrà porsi in futuro—sia pure lottando contro una disponibilità di fonti archeologiche non sempre abbondante—riguarderà la possibilità di verificare la trasmissione degli eventuali modelli di autorappresentazione propri delle élites anche alle classi inferiori.

Notes

1. Cfr. M. Vasic and M. Tomovic, “Sarkamen (East Serbia): An Imperial Residence and Memorial Complex of the Tetrarchic Period,” Germania 83 (2005), 257-307.

2. Esemplare in questo senso la pubblicazione delle 520 tombe della necropoli “mista” ovvero di Goti, Daci, e Vandali di Mihalaseni, in O. L. Sovan, Necropola de tip Sântana de Mures Cernjacov de la Mihalaseni (Judetul Botosani), Târgoviste 2005, in particolare tav. 389 per il costume femminile.