BMCR 2007.04.62

Mobilità e integrazione delle persone nei centri cittadini romani — Aspetti giuridici — I — La classificazione degli incolae

, Mobilità e integrazione delle persone nei centri cittadini romani : aspetti giuridici. Pubblicazioni dell'Istituto di diritto romano, Facoltà di giurisprudenza, Università degli studi di Milano ; 40. Milano: A. Giuffrè, 2006-. volumes ; 24 cm.. ISBN 8814122326. €60.00.

Nell’ampio dibattito relativo al fenomeno della deduzione di colonie e municipi romani in Italia e nelle province dell’Impero, la questione dello statuto delle terre e delle popolazioni presenti nel quadro delle nuove realtà civiche evidenzia problematiche complesse. La materia non è ovviamente inesplorata, anche se l’unico lavoro monografico sull’argomento prima del volume di Lorenzo Gagliardi era uno studio di Rafael Portillo Martín, risalente al 1983. Il lavoro qui esaminato risulta ancor più meritorio se si considera la mole di fonti antiche analizzate e l’analisi critica su di esse compiuta. Anche l’ambito cronologico preso in esame è molto ampio: infatti si va dal IV sec. a.C., quando ebbe inizio la progressiva delineazione del concetto giuridico di incola, fino al VI-VII sec. d.C., periodo in cui si colloca la testimonianza di Isidoro di Siviglia.

Il volume rappresenta, come spiega lo stesso autore nell’introduzione, la prima parte di un’opera in due tomi, di cui il secondo avrà per oggetto la condizione giuridica degli incolae. Esso è strutturato in tre ampi capitoli. La suddivisione interna in paragrafi permette un agevole reperimento delle informazioni, senza che venga mai meno l’organicità del discorso e costituisce così un ottimo strumento di conoscenza e di lavoro. Ogni capitolo si apre con un’introduzione al tema prescelto, per chiudersi con considerazioni che ne raccolgono gli elementi salienti; questa scelta espositiva costituisce un valido supporto al lettore in quanto, riassumendo i vari dati trattati, permette di fissarli e sintetizzarli agevolmente.

Il primo capitolo è dedicato alla definizione del termine incola, sia nel suo significato generico, sia nella sua accezione tecnico-giuridica, sulla base delle informazioni ricavabili dagli autori antichi, da alcuni testi legislativi e dalle numerose epigrafi provenienti da tutte le zone dell’impero romano.

Ogni città del mondo antico dovette apprendere l’arte del vivere insieme, anche tra genti diverse per etnia e lingua, culti e costumi, un’arte difficile che andava a misurarsi con il senso di esclusivismo che si accompagnava al diritto di cittadinanza e ai due livelli in cui esso operava nel mondo romano, locale e centrale. Il problema dei rapporti tra l’elemento indigeno e i coloni non va dunque impostato secondo rigidi schemi e generalizzazioni. Che essi fossero di regola incorporati nella comunità con pieni diritti, oppure che la fondazione di una colonia o di un municipio romani non comportasse la sparizione del centro preesistente e che entrambe le comunità continuassero ad esistere fianco a fianco sotto forma di Doppelgemeinde, secondo l’espressione coniata dal Marquardt,1 la gamma delle soluzioni concrete è ampia ed articolata.

È certo che originariamente con incola si indicava l’abitante di un determinato luogo (cfr. il verbo incolere = “abitare in”) e in tal senso erano considerati incolae tutti gli appartenenti alle popolazioni indigene, di status libero, con cui entravano in contatto i Romani, senza che il termine assumesse un preciso significato giuridico.

In un contesto di conquista territoriale, il termine iniziò probabilmente a designare i veteres incolae, come attesta Livio riferendosi a Volturno (Liv. IV 37.4). Gli abitanti preesistenti, individui vinti, sottomessi ed esclusi da quel privilegio che era la cittadinanza, furono ben presto affiancati dai novi coloni e diventarono stranieri in patria, dal momento che la sconfitta li aveva privati di ogni identità politica ed aveva lasciato loro soltanto il diritto di permanenza sul territorio. Essi ottenevano pertanto uno status sì inferiore a quello dei cives dominatori, ma privilegiato rispetto a quello dei forestieri di passaggio.

Oltre agli indigeni residenti all’interno dei centri di nuova fondazione, come incolae furono definiti dai Romani anche coloro che si trasferivano da una regione a un’altra dei dominii della potenza egemone, collocandosi per libera scelta all’interno di comunità preesistenti, dove erano regolarmente censiti e pagavano gli stessi munera dei cives.

Nel II sec. d.C., il giurista romano Sesto Pomponio non sembra conoscere affatto gli incolae indigeni, e afferma che si definisce incola, qui aliqua regione domicilium suum contulit; quem Graeci πάροικον appellant (Dig. L. 16.239.2). A suo parere, dunque, l’ incola era una persona che aveva, ad un certo momento, volontariamente spostato il proprio domicilio in un dato municipio o colonia. Nella stessa direzione sembrano andare le opinioni di due illustri pensatori cristiani, Agostino e Isidoro di Siviglia, secondo i quali la nozione di incola era strettamente legata all’atto di trasferirsi, di emigrare da una terra, da una regione, da una città ad un’altra. A parere di Agostino, infatti, incolae dicuntur qui habitant in patria non sua. Omnis homo in hac vita peregrinus est (in psalm. 55.9, CC 684). Quanto ad Isidoro, egli definiva gli incolae come habitatores, ab incolendo. Indigenae sunt inde geniti et in eodem loco nati ubi inhabitant. Incola autem non indigenam sed advenam indicat (Orig. 9.4.37-42).

Nella lex Ursonensis, provvedimento legislativo risalente alla metà del I sec. a.C., tre norme chiamano in causa esplicitamente gli incolae della colonia romana di Urso nella Betica: il capitolo 95, in cui si afferma che coloni et incolae possono essere testes in giudizi recuperatori; il capitolo 126 in cui si stabilisce che ogni anno i decurioni fissino con decreto il posto che spetta nei ludi agli incolae e che questi siano collocati prima rispetto agli hospites e agli adventores; infine, il capitolo 103 in cui si prevede che i magistrati della colonia possano chiamare alle armi ( armatos educare), in caso sia necessario difendere il territorio della colonia, colonos incolasque contributos. Non solo: la legge prescrive che siano obbligati a compiere una qualsiasi munitio ordinata dai decurioni non solo i coloni, ma anche quelli che nella colonia abbiano il domicilio o un praedium, nella quale definizione è possibile vedere gli incolae.2

A distanza di oltre un secolo, La lex Irnitana fa riferimento agli incolae in più rubriche e, in quella loro esplicitamente intestata (cap. 94: de incolis), li invita ad ubbidire in toto alle prescrizioni delle leggi municipali al pari dei municipes.

Con il pagamento dei munera, agli incolae erano riconosciuti alcuni diritti, tra cui il diritto di voto ( lex Malacitana 53), almeno finché i comizi elettorali funzionarono: si trattava certo di una forma limitata di partecipazione, un riconoscimento pressoché formale, che proprio per le modalità che prevedeva — iscrizione in una sola curia — non risultava incisiva sulla vita di una comunità, pur tuttavia garantendo agli incolae la visibilità sociale e permettendo loro di porsi come legittimi interlocutori degli organi istituzionali.

La definizione giuridica di incola, quale emerge dai testi sopra riportati, appare confermata da numerosissime epigrafi dedicatorie, dalle quali risulta che generalmente gli incolae di un oppidum erano distinti dai coloni, o dai municipes, e in un certo senso venivano anche contrapposti a loro. A tale proposito, l’autore propone un ampio ed esaustivo catalogo delle iscrizioni in cui compaiono riuniti nello stesso testo coloni et incolae (pp. 57-59), municipes et incolae (pp. 59-62), cives et incolae (pp. 63-75), hospites, adventores, accolae ed incolae (pp. 75-80), populus, plebs et incolae (pp. 80-104), incolae et peregrini (pp. 104-110), politai, paroikoi, xenoi, Rhomaioi (pp. 110-154).3

Nel secondo capitolo, l’autore si occupa specificamente dei veteres incolae, analizzando sia le circostanze in cui gli indigeni non cittadini romani ricevevano la qualifica e lo status di incolae sia i casi in cui ciò non avveniva. A suo parere, le fonti in cui espressamente è possibile identificare come incolae gli appartenenti a una popolazione straniera, stanziati entro il territorio di una colonia o di un municipio, sono solo due. Si tratta di due iscrizioni, una proveniente da Aesernia e risalente al II sec. a.C. in cui la popolazione straniera sono i Sanniti, l’altra proveniente da Augusta Praetoria e ascrivibile al 23 a.C., in cui la popolazione straniera sono i Salassi. Oltre alle informazioni desumibili da questi documenti, l’autore considera anche quelle fornite ad esempio dai gromatici, soprattutto Igino e Siculo Flacco, delineando inoltre un quadro della complessiva posizione giuridica degli incolae indigeni nelle città, soprattutto sotto il profilo tributario e affermando che da questo punto di vista, la loro condizione era molto simile a quella dei cives dato che, come i cives, erano soggetti all’esazione dei tributi da parte dei magistrati cittadini (D. 50.4.6.5 Ulp. 4 de off. procons.). Conclude il capitolo l’esame della distinta posizione degli adtributi e dei contributi rispetto agli incolae (per gli adtributi viene discusso il caso paradigmatico di Volubilis; per i contributi quelli di Curiga ed Urso).

Il terzo capitolo si occupa degli incolae“trasferiti”, cioè di coloro che acquistavano l’incolato a seguito di un trasferimento di domicilio. Un’ampia parte della sezione è dedicata al tema dell’individuazione del concetto di domicilio nel diritto romano, a cosa si intendeva per domicilio di città e domicilio di campagna, alle modalità con cui il domicilio poteva essere liberamente trasferito (si tratta di una questione non trascurabile, considerate le conseguenze che ne derivavano soprattutto per gli incolae); si tenta, inoltre, di capire se il trasferimento di domicilio fosse condizione sufficiente per l’acquisto della condizione di incola, o se fossero necessari altri atti, magari giuridici, in aggiunta ad esso; vengono infine considerate le limitazioni esistenti alla libertà di trasferire il domicilio in ragione di particolari condizioni delle persone per norme di diritto privato ( filii familias, la moglie, i liberti, i soggetti sui iuris giuridicamente incapaci di agire) o di diritto pubblico ( milites, relegati). Preme segnalare che, all’interno di questo capitolo, il Gagliardi dedica particolare cura alla distinzione esistente tra incolae e consistentes, termine quest’ultimo oggetto di approfondita analisi da parte di Elisabetta Todisco in un contributo a stampa di prossima pubblicazione.

Conclude il lavoro, un capitolo di riflessioni sugli incolae, in cui l’autore riprende in modo schematico i punti sviluppati nel corso della trattazione, osservando come questa particolare categoria sociale di individui costituisse per Roma un vero e proprio elemento di ricchezza economica e culturale: gli incolae costituivano “il principale nesso di collegamento tra i centri cittadini e l’esterno, o, meglio, tra i centri cittadini e quel particolare elemento esterno, che, attraverso un crescente coinvolgimento nelle istituzioni locali, tendeva sempre più all’assimilazione” (p. 518).

È indubbio che il volume del Gagliardi sulla mobilità ed integrazione delle persone nei centri cittadini romani, costituirà d’ora in avanti uno strumento di lavoro prezioso ed imprescindibile per chiunque affronti questo spinoso argomento. Per quanto attiene alla bibliografia, pur ricchissima, si segnala tuttavia l’assenza di alcuni recenti contributi specifici sulla tematica affrontata, come quelli della Poma e della Sugliano, già segnalati nel corso della recensione. Anche il reperimento del titolo completo delle opere citate non è sempre agevole, dato che il Gagliardi non ne fornisce un elenco in fondo al volume ma solo un indice degli autori con il rimando alle note in cui sono menzionati, note in cui è finalmente possibile reperire la citazione completa del lavoro che si sta cercando.

Notes

1. J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, I 2, Leipzig 1881, p. 112.

2. G. Poma, “Le regole della convivenza tra i cittadini e “immigrati” in età imperiale”, in Il cittadino, lo straniero, il barbaro, fra integrazione ed emarginazione nell’antichità. Atti del I Incontro internazionale di Storia antica – Genova 22-24 maggio 2003, Roma 2005, pp. 202-203.

3. A proposito dei paroikoi si segnala il recente contributo di A. Sugliano, “La composizione civica delle colonie romane d’Asia Minore”, in Il cittadino, lo straniero, il barbaro, fra integrazione ed emarginazione nell’antichità. Atti del I Incontro internazionale di Storia antica – Genova 22-24 maggio 2003, Roma 2005, pp. 437-452.